La filosofia delle chimere

Le chimere, e più in generale i mostri, non sono animali orrendi, ma dimostrazioni di una necessità della nostra specie: arrendersi a essere parte della natura, e non qualcosa di diverso e opposto a essa.


In copertina: Maurizio Canavacciuolo, Marte (2013) – Asta Pananti Online

di Alessandro Mazzi

«Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera»
Campana, La Chimera, Canti Orfici.
«…era il mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda;
e dalla bocca orrende vampe vomitava di fuoco: e nondimeno, col favor degli dèi,
l’eroe la spense…»

Iliade, Canto VI, vv. 223-225.

«Al di fuori di questo contenuto inconscio emergerà, dopo il passaggio di duemila anni a un altro eone, un futuro i cui attributi sono indicati dal simbolo del Capricorno: un aigokeros, la mostruosità della Capra-Pesce…»
G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni.

 

La nostra società ha un rapporto conflittuale con la vita. Nelle parole di Philippe Descola in Oltre natura e cultura (2014) pensando la “natura” creiamo un feticcio di materia inerte che aspetta di essere sfruttata a nostro piacere per estrarre risorse, farci safari e ritiri. Il naturalismo divide il mondo tra esseri umani che abitano “dentro” società chiuse, e il mondo “là fuori” pullulante di “altri esseri”. Nel tempo la cultura e la civiltà sono diventati dei solipsismi per rafforzare l’identità umana e creare zone immunitarie in cui gli uomini non debbano preoccuparsi di miscelarsi con altre presenze. Così però l’uomo si aliena dai processi viventi e da se stesso, chiudendosi in bolle performative mentre la “natura” si trasforma in un paesaggio oscuro brulicante di forme aliene.

A questo si lega il timore sacro di Mark Fisher che in Il Weird e l’Eerie (2018) vede lo strano e l’inquietante come una manifestazione proveniente dall’esterno di uno spazio familiare. Il weird è «ciò che è fuori posto, ciò che non torna. […] La forma artistica che è forse più appropriata al weird è quella del montaggio – la combinazione di due o più elementi che non appartengono allo stesso luogo». Un’entità weird dà la sensazione che non dovrebbe esistere o trovarsi nella nostra sfera, ma per Fisher lo fa solo perché le nostre concezioni sono inadeguate. L’eerie pure è esperito da Fisher come un verso animalesco che ha qualcosa di pauroso, non umano e sovrannaturale, «che tipo di essere ha prodotto quel grido inquietante?». La domanda finale, «se non siamo chi crediamo di essere, che cosa siamo allora?» è un appello che si dissolve nel fitto dell’indescrivibile, conduce al cuore del mai-esistente. Irrompe il ruggito del leone, come dice un poema zen.

Che cos’è l’uomo? Prima di tutto una pluralità. L’Homo Sapiens emerge 300.000 anni fa e interagisce in Eurasia con altri ominidi, i Neanderthal e i Denisoviani. È plausibile che dalle altre specie abbiamo appreso tratti culturali e ritrovato immaginazioni simboliche, dato che i Neanderthal, sottolinea Ian Tattersall nel suo Il Cammino dell’Uomo (2011), avevano già una forte sensibilità simbolica compartecipe dell’inconscio collettivo ben prima che emergessero i Sapiens. Nasciamo noi, dei nuovi ibridi con il 2% di dna neanderthaliano per europei e medio orientali e il 5% di dna denivosiano per malesi e aborigeni australiani, un miscuglio che chiamiamo Sapiens per convenzione.

Per questo in Le Promesse dei Mostri (1992) e Chthulucene (2016) Haraway lascia le posizioni postumane, perché la filosofia postumana continua a gravitare attorno l’assunto che un’umanità a se stante debba essere preservata. Haraway adotta l’humusità, «Siamo humus, non Homo, non Antropos; siamo compost, non postumani». Si professa una coesistenza tra umani e non umani, ma per farlo è necessario decomporre l’idea teleologica di uomo. Invece di considerare il nostro corpo e i nostri spazi come un’unica entità, terreno d’invasione di agenti patogeni, la simpoiesi di Haraway è l’incontro di diversi agenti che co-generano assieme nuove biologie, immagini e possibilità d’esistenza. Si rifiuta sia l’asservimento verso la natura che il suo dominio, per sposare la collaborazione simpoietica, «Le/gli umane/i devono lottare per la sopravvivenza dell’intera Terra, perché è in essa che sono radicate/i, assieme a tutte le forme di vita organiche, artificiali, più o meno non-umane, cyborg, creature altre, mostruose e inappropriate/ibili». Riscoprire le immagini delle divinità ctonie Chthulu, Gaia, Terra, Naga, Pachamama, Oya, Gorgo, restituisce al nostro immaginario la possibilità di re-ibridarci con le forze naturali che rappresentano. Così biologia e immaginazione sono tuttuno, «Gli organismi sono incarnazioni biologiche; in quanto entità naturali-tecniche, piante, animali, protisti ecc. non preesistono con confini già stabiliti e non sono in attesa di uno strumento che permetta di annotare correttamente le caratteristiche. Gli organismi emergono da un processo discorsivo. La biologia è un discorso, non è il mondo vivente in sé».

Dividere il mondo in umani e non umani, voler vedere nell’esistenza un fine, è un meccanismo di difesa per mantenere le distanze dagli “altri”. Le pratiche filosofiche che nascono oggi escono dalla simulazione che chiamiamo “ambiente urbano”, “città” o anche “soggetto” e “identità”, si rifanno all’usanza indiana del vanaprastha (ritiro nella foresta) per cui un uomo dai 45 ai 70 anni lascia la sua famiglia e la “civiltà” per ritirarsi in eremitaggio nella giungla. Nel suo libro Sulle piste animali (2020), Baptiste Morizot si inforesta, persegue l’estasi filosofica per scoprirsi altro da sé. Il lupo, il grizzly e la pantera sono spiriti animali guida che danno corpo alle esperienze che ha vissuto. Morizot racconta di una notte in cui era a guardia di un gregge in Anatolia, quando nel buio viene avvicinato all’improvviso da una creatura lupoide che istintivamente lo guarda negli occhi. «Incontro ipnotico, perché accade in un’altra dimensione che non è per gli esseri umani – quella della notte, quando le forme evanescenti impediscono l’identificazione degli esseri e la padronanza dello spazio». 

Manticora lupo, Bestiario di Rochester, British Royal Library, 1230 ca.

Di notte la realtà si rivela per quello che è, un luogo di presenze multiformi, dagli arti incerti. Continua Morizot, «Ci sarebbe bisogno di un altro linguaggio: vediamo delle “impressioni-lupo”, dei complessi di spazio-tempo, figure abbozzate in cui l’immaginazione supplisce alle mancanze della visione. È così facile vedere dei mostri – dei licantropi». Quando Morizot e il lupoide si guardano negli occhi, il filosofo ha la sensazione di essere in un faccia a faccia da uomo a uomo. Il lupoide e Morizot si miscelano, non sono più semplicemente un uomo e un animale, ma una nuova forma di vita non identificata, «che colui che si lascia inforestare dagli altri esseri viventi ritorni leggermente modificato dal suo viaggio da licantropo: un mezzosangue, a cavallo tra due mondi. Nè svilito né purificato, semplicemente altro e un minimo capace di viaggiare tra i mondi, e di farli comunicare, per lavorare alla realizzazione di un mondo comune».

Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi stendono una panoramica della pandemia in cui la storia è storia di ibridazioni, «Il pensiero dello spillover virale, il salto di specie a cui David Quammen ha dedicato seicento pagine, si presenta come l’ennesimo esercizio di ibridazione tra la storia naturale e la nostra, di esseri umani. Siamo gli unici animali ad avere inventato le sirene e gli angeli. Siamo gli unici a cui manca qualcosa, la tranquillità del destino animale, l’intreccio, lo scontro e la dissoluzione nella terra». I presupposti filosofici e culturali vacillano perché «di fronte a SARS-CoV-2 ci troviamo di fronte all’ennesimo tentativo di vedere l’invisibile, farne concetto, capirlo», un’irruzione dirompente del sacro per cui «le nostre categorie non sembrano più sufficienti, o forse torneranno a esserlo: non lo sappiamo».

Slavoj Žižek in Virus vede un organismo «che ci faccia immaginare una società alternativa, una società che vada oltre lo Stato-nazione e si realizzi nella forma della solidarietà globale e della cooperazione», e Franco Bifo si rifà al potere dell’immaginazione, «quel che la volontà politica non è riuscita a fare potrebbe farlo la potenza mutagena del virus. Ma questa fuoriuscita occorre prepararla immaginando il possibile, ora che l’imprevedibile ha lacerato la tela dell’inevitabile». 

Bisogna attingere alla forza dell’immaginale visionario per riprogettare gli spazi abitati, trovare nuovi paradigmi politici e pratiche filosofiche su cui rifondare il nostro essere nel mondo umanimale. A venirci incontro è una creatura che l’occidente ha cercato di esorcizzare fin dalla sua prima apparizione letteraria nell’Iliade omerica, simbolo della contingenza di ogni esistenza. Nel suo Libro degli Esseri Immaginari (1957), Jorge Louise Borges difende la Chimera contro l’opera del grammatico romano Servio Onorato, che voleva ridurre la creatura mitica a un insieme di metafore geografiche. Borges considera che «queste assurde congetture provano che la Chimera stava già stancando la gente. Più che immaginarla, meglio tradurla in qualsiasi altra cosa». Le nature apparentemente inconciliabili del leone, della capra e del drago/serpente furono mal considerate in epoca classica per poter formare un unico animale. Perciò, continua Borges, «con il tempo, la Chimera tende a diventare “il chimerico”» e così «la forma incoerente scompare, resta la parola a indicare l’impossibile. “Idea falsa, vana immaginazione” è la definizione che ne dà oggi il dizionario».

Salvador Dalì, Le Chimere d’Horace, 1970.

La civiltà guarda al chimerico come a una sciamannata perversione da epurare a ogni costo. I suoi araldi sono tutti gli esseri polimorfi che abitano gli intramondi spirituali nei sogni, le fiabe, i miti, le religioni e nelle pratiche di comunione con il sacro: satiri, sirene, elfi, folletti e fate, ninfe, ircocervi, capricorni e centauri, jinn, kirin e nue, divinità abissali e titani, imp, bafometti, demoni e angeli di ogni sorta, spiriti silvani e forze elementali, sciamani, buddha e tanti altri. Incontrare uno di questi esseri è indice che non siamo mai (stati) noi stessi, che la geografia si è trasfigurata, la magia ha preso il sopravvento e stiamo per fare la muta. Le chimere sono le incarnazioni della vita che segue le sue vie poietiche. Invece di cavalcare la tigre o uccidere eroicamente draghi, conviviamo con i draghi e sposiamo in sizigie gli esseri chimerici. La chimerosofia riprende il discorso sul chimerico resuscitato da Borges, è una visione non umana del mondo per reimmaginare la coesistenza di tutti i vari esseri viventi, riscoprire l’esercizio indigeno di gioire e soffrire dell’ibridazione. È una filosofia mistica perché ogni chimera è simbolo della realtà che trascende se stessa, non è mai unicamente definita né dalle singole parti che la costituiscono, né dal suo essere un ibrido. Simile alla mistica sufi, la chimera ispira nell’uomo una doppia visione in cui si guarda allo stesso tempo il molteplice e l’unità, riuscendo a muoversi in entrambe all’unisono.

Mahmoud Farshchian, Gloria della Natura, 1983.

L’assunto principale della chimerosofia è che ogni relazione con altre forme di vita è determinata dalla permeabilità e dall’apertura che la comunità e l’individuo hanno con il sacro, e quindi con il modo di porsi nei confronti dei processi vitali. Ciò che noi chiamiamo mostri sono in realtà prospettive di vita chimerica che cerchiamo di esorcizzare. La parola latina monstrum non designa un animale orrendo, ma denota un prodigio, un’irruzione nella realtà percepita di un evento o di una rivelazione divina. I mostri appaiono minacciosi solo quando l’uomo se ne separa. La mostruosità chimerica non vuole essere impagliata in un archetipo, ma desidera riunirsi a noi.

Il primo passo è introdurre il chimerico nella sfera sociale per abituarsi a coesistere su più piani di realtà, trasformare l’unidimensionalità delle narrazioni politiche attuali. Abbandonare la distinzione tra umano e non umano, rinunciare a qualsiasi alterità, riconoscere ad ogni essere vivente il diritto istituzionale di non essere se stesso e di essere diecimila esseri contemporaneamente, in una parola chimerici, senza vedere in ciò una minaccia per la propria esistenza o per l’ordine. La via delle chimere nasce dalle comunità dei viventi, è una filosofia della spontaneità vitale che ricalca l’esperienza pura della realtà. Così Nishida Kitaro in Uno studio sul Bene (1911), «puro è in senso proprio lo stato dell’esperienza così com’è, senza nessuna aggiunta del discernimento riflessivo». Fare esperienza per Nishida vuol dire conoscere la realtà, essere immersi nella natura primigenia del reale senza mediazioni e filtri, lasciando andare i desideri, oltre le paure. Continua Nishida, «quando si fa esperienza pura non ci sono ancora né soggetto né oggetto, la conoscenza e il suo oggetto sono completamente unificati».

L’uomo zen non è più un uomo, e allora cosa lo distingue da una cicogna, una pietra o una felce? La domanda è truffaldina perché problematizza alla ricerca di un senso, attingendo al nudo dell’esistenza invece se ne scopre il gioco chimerico. Eppure questo non inficia l’esistenza dell’umano, che anzi sarà ben felice di parteciparvi, proprio perché non è limitato al suo sé. In una storia zen un maestro si congratula con il suo allievo per aver messo in ordine il giardino, ma gli dice che ha dimenticato qualcosa. Si avvicina a un ramo, lo scuote e sparpaglia delle foglie per terra. Ora va bene, il chimerico è riemerso. Vedremo nella prossima istanza di riscrivere una storia del sacro fin dalle radici immaginali.   

Irrompe la voce del poeta cinese Wang Wei:

Sul monte vuoto
non si scorge presenza umana
ma se ne odono gli echi soltanto.
La visione originaria
permea il bosco nel profondo
nuove luminosità
sul muschio verde


Alessandro Mazzi (1990) è laureando magistrale di filosofia all’Università di Urbino. Filosofo e poeta, pubblica poesie online con La Tigre di Carta e tiene conferenze di filosofie comparate. Collabora con diverse testate online.

2 comments on “La filosofia delle chimere

  1. Alessandro

    Complimenti per la pregievole fattura stilistica e dei contenuti dell’articolo.

    Sono un architetto e sto approfondendo il discorso delle Chimere per definire un nuovo linguaggio tettonico che assimili il concetto omogeneizzato di “natura” e “cultura”. Sono molto interessato ai Commons e quindi alla questione della ritualità scaturita attorno ad un dispositivo attivatore semiologicamente assimilabile da una comunità.
    Le mie domande sono 2:
    1) come si costruisce una Chimera?
    2) qual’è il nesso o la differenza tra totemismo e spazio chimerico?

    Grazie mille.

  2. Antonella Menotti

    Grazie del tuo linguaggio e di avermi offerto un modo diverso di “ascoltare” e “leggere”.
    Trovo il tuo articolo così interessante che la mia curiosità è appena cominciata.
    Ottimo spunto per un ulteriore ricerca.

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