La filosofia di P. W. Zapffe e i videogames



Gli stessi dispositivi con cui per il filosofo Peter Wessel Zapffe ci difendiamo dall’insensatezza del mondo, sono in atto anche nei mondi virtuali, ma con quali esiti?


In copertina: un’immagine dal videogioco no man’s sky

Questo articolo è un riadattamento del capitolo 4 del libro Virtual Existentialism scritto da Stefano Gualeni e Daniel Vella (Palgrave Pivot, 2020). La traduzione in italiano è di Stefano Caselli e Francesca Maffioli.


di Stefano Gualeni e Daniel Vella

Peter Wessel Zapffe (1899-1990) è un filosofo e avvocato norvegese. I suoi scritti, di cui pochi sono stati tradotti, ruotano attorno all’idea che la vita biologica sia uno spreco e un’assurdità. 

Zapffe scrive di un genere umano alla ricerca continua di un significato e di uno scopo in un mondo che però lui trova irrimediabilmente insensato. Nei suoi scritti ricorre infatti l’idea paradossale che l’uomo abbia necessità spirituali che la realtà non riesce a soddisfare. Questo assunto è alla base della sua nozione del “tragico” e alla conseguente definizione dell’essere umano come “animale tragico”. La visione del filosofo è particolarmente interessante perché, diversamente da quella di altri pensatori, non lega la tragicità dell’esistenza umana all’intrinseca debolezza dell’essere umano, o alla sua insignificanza, o alla sua propensione alla sofferenza, ma invece al suo essere troppo “capace”. La visione del tragico in Zapffe non è dunque associata a concetti quali la penuria la violenza o la catastrofe ma alla nozione di “eccesso”. Questa idea compare per la prima volta nel saggio “L’Ultimo Messia” (1933) per poi essere sviluppata nel trattato Sul Tragico (1941). 

Il modo che ha Zapffe di rapportarsi con il tragico sembra ricordare quello che si può leggere, tra gli altri, nell’Antigone di Sofocle. Nell’“Ode all’Uomo” (il primo coro dell’Antigone, vv. 332-383) Sofocle presenta gli umani come esseri tragici proprio in virtù delle loro eccezionali capacità: per la loro adattabilità ed il loro intelletto inarrestabile e multiforme. Queste qualità, scrive Sofocle, consentono all’uomo di capire e affrontare ogni tipo di situazione e di prosperare piegando le forze della natura alle proprie necessità. Inarrestabile, scrive Sofocle, è l’uomo che usa le proprie abilità sia per distruggere, sia in modo costruttivo (“ora per il bene, ora per il male” vv. 365-366). Proprio a partire da questo punto di vista sia Sofocle che Zapffe riconoscono l’essere umano come una creatura terribilmente ben riuscita; l’aggettivo è usato qui non a caso.

Analogamente, nel saggio “L’Ultimo Messia” del 1933, Zapffe descrive l’essere umano come “un paradosso biologico, un errore, un abominio, un’esagerazione disastrosa”. La natura ha, in altre parole, superato se stessa, mancando il proprio obiettivo per eccesso, portando alla creazione di una specie “talmente dotata da diventare una minaccia per se stessa”.

In che senso l’essere umano è un errore e una minaccia per se stesso? Una differenza cruciale tra esseri umani e animali è per Zapffe la seguente: la sofferenza dei secondi sarebbe limitata all’esperienza individuale di ciascun animale, mentre i primi sono in grado di cogliere l’aspetto collettivo di questo dramma e la sua insensatezza cosmica. L’essere umano per il filosofo è la sola creatura consapevole dell’inutilità e del continuo ripetersi della propria sofferenza, ed è questa consapevolezza che lo distingue dagli altri animali. 

Sulla base di queste osservazioni, continua Zapffe, non deve sorprenderci che la condizione esistenziale di base dell’essere umano sia quella di una “disperazione costante”. Ma se questo fosse vero, si chiedeva Zapffe, perché allora l’umanità non si è già estinta in “grandi epidemie di follia”? Perché “solo una piccola parte di individui sembra non riuscire a sopportare il carico della vita?” La sua risposta a queste domande tradisce il suo debito (mai dichiarato apertamente) all’opera di Sigmund Freud. Egli sostiene infatti che la maggior parte delle persone sia semplicemente in grado di imparare a proteggersi da questa disperazione costante, trovando diversi modi di zittire la consapevolezza della portata dell’assurdità dell’esistenza. Per continuare a esistere, continua il filosofo norvegese, l’essere umano dovrebbe sforzarsi costantemente di “reprimere il suo dannoso eccesso di consapevolezza”.

Gli stati depressivi o gli attacchi di follia non sarebbero dunque, per Zapffe, sintomi di una “mente malata”, ma indicazione di una “falla” nei meccanismi protettivi che dovrebbero salvaguardare la psiche umana. Ne “L’Ultimo Messia”, egli suddivide questi meccanismi in quattro categorie: isolamento, ancoraggio, distrazione, e sublimazione. Gli elementi di queste categorie possono combinarsi e sovrapporsi gli uni con gli altri, dando luogo ad una varietà’ di meccanismi difensivi. In seguito daremo brevi definizioni di ogni categoria e cercheremo di capire in che modo queste tecniche di protezione siano anche facilmente riconoscibili nel modo in cui usiamo e produciamo i cosiddetti mondi virtuali (come quelli di videogiochi, simulazioni, ricostruzioni storiche interattive, eccetera).

Mitigare il nostro panico esistenziale all’interno di ambienti virtuali

Come abbiamo visto, per Peter Zapffe la vita umana è caratterizzata da una disperazione costante. Questo panico esistenziale è talmente incombente che il tentativo di scacciarlo si pone al centro di quasi ogni attività o progetto umano. Seguendo questa prospettiva, è possibile riconoscere anche negli ambienti virtuali delle tecniche di controllo e mitigazione della nostra consapevolezza. In particolare, nei mondi virtuali, queste tecniche ci impedirebbero di essere consapevoli dell’inutilità del nostro essere al mondo e al contempo dell’insensatezza della nostra esistenza anche “nel virtuale”.

Isolamento

Per “isolamento” Zapffe intende il modo in cui tendiamo ad arginare pensieri e sentimenti che potrebbero portarci alla disperazione. Ne “L’Ultimo Messia”, l’autore fa un esempio di “isolamento” parlando di come gli studenti di medicina si proteggano dagli aspetti tragici e spesso disgustosi della loro professione comportandosi in modo distaccato e tecnico nei confronti dei pazienti. Il fatto poi che il “tatto” (cioè il rapportarsi agli altri in modo non inopportuno, evitando allusioni e riferimenti alla sessualità, funzioni corporali, deperimento fisico o morte) venga considerato un tratto sociale altamente desiderabile è un esempio di “isolamento” chiaro e riscontrabile nella quotidianità di ognuno e ognuna. 

Tecniche di isolamento sono costantemente all’opera anche nel nostro rapporto esistenziale con mondi virtuali e i mondi di gioco. Giocare un videogioco è, per definizione, un volontario confinarsi all’interno di un orizzonte di possibilità limitato, da cui sono spesso rimossi del tutto gli aspetti tragici. Per esempio, la morte di qualcuno in un videogioco spesso costituisce niente più che un inconveniente temporaneo; una noia più che un evento tragico. Salvo rare eccezioni, inoltre, i nostri avatar non sono esposti a un inevitabile declino, ma incarnano fantasie di un incessante auto-miglioramento in cui i nostri alter-ego virtuali sono dispensati dall’indebolimento fisico, dalla senilità e dalla morte. Nei mondi virtuali gli atti fisiologici non sono rappresentati: i gabinetti sono raramente presenti ad esempio. In altre parole, i mondi di gioco sono di solito delle versioni “sanificate” del mondo reale, da cui vengono rimossi elementi che possono indicarci o ricordarci la ripetitività banale dell’esistenza. 

Ancoraggio

Ne “L’Ultimo Messia”, Zapffe descrive le società come sistemi la cui la stabilità viene garantita dalla tenuta di valori collettivi che, per la maggior parte, vengono ereditati dalle generazioni precedenti. Egli chiama queste idee e valori “ancoraggi”, considerandoli alla stregua di fondamenta condivise su cui ognuno costruisce la propria esistenza e l’identità individuale. Benché questo avvenga per lo più inconsciamente, si può anche parlare di ancoraggi scelti in maniera cosciente e deliberata, per esempio nel caso in cui ci si prefigga uno scopo o si adotti volontariamente una certa regola di condotta (ad esempio la deontologia professionale). L’esistenza individuale può essere ancorata allo stesso tempo a un numero di “fondamenta” diverse: a un ideale di progresso lavorativo, al mantenimento familiare, allo scrivere un’opera letteraria, al perseguimento di un ideale fisico e così via. Ancorarsi fornirebbe per Zapffe un senso e una stabilità all’idea che abbiamo di noi stessi e ci proteggerebbe dalla consapevolezza che l’esistenza sia effimera e dolorosa. Amiamo i nostri ancoraggi per la sicurezza che ci offrono, ma al tempo stesso li odiamo perché limitano la nostra libertà (Zapffe 2004, parte 3).

In generale, ci sono due modi in cui possiamo riconoscere come le tecniche di ancoraggio siano all’opera negli ambienti virtuali. I simulatori spesso mimano gli ancoraggi reali nel tentativo di rendere intuitivamente accessibili i loro scopi esperienziali e didattici. Alcuni dei valori e delle idee che guidano e formano le nostre convinzioni ed i nostri comportamenti nel mondo reale vengono di conseguenza replicati negli ambienti virtuali e riadattati ad essi. L’idea che ogni singola vita umana sia preziosa è alla base dei criteri di successo dei simulatori di volo o del software interattivo per fare pratica chirurgica. Un altro esempio, questa volta di natura narrativa, si trova in un gran numero di videogiochi in cui la libertà e la sicurezza delle persone (digitali) che sono significative per i nostri avatar ludici diventano valori per cui vale la pena lottare (e quindi giocare). Oltre a questo, accedere a un ambiente virtuale ci consente di esistere in un mondo in cui significati e valori sono stabiliti senza ambiguità, oggettivamente presenti a livello di codice, e misurabili. In particolare i videogiochi commerciali tendono a costruire visioni del mondo orientate alla raccolta e allo sfruttamento di risorse. Questo tipo di obiettivi chiari e quantificabili sono una parte essenziale dei mondi di gioco, visto che offrono intuitivamente ai giocatori la garanzia che stia effettivamente succedendo qualcosa di significativo, che si sia parte di qualcosa che sta crescendo e si sta trasformando – e quindi si stia contribuendo ad alleviare la personale sensazione di “insignificanza”. Oltre a questo, benché le attività videoludiche siano spesso auto-conclusive, possono sempre ottenere una rilevanza esistenziale come performance sociali. In questi casi i videogiochi diventano effettivamente contesti in cui i giocatori cercano approvazione esterna per il loro modo di agire e di presentarsi in-game. La comunità di giocatori che si formano dentro e attorno ai videogiochi potrebbe configurarsi come fonte di approvazione sociale, offrendo quindi ulteriore ancoraggio e sollievo esistenziale.

La possibilità di sentirsi realizzati negli ambienti virtuali non proviene solo da meccanismi pre-costituiti che motivano e ricompensano il giocatore e neppure da una validazione sociale della propria performance. Gli ambienti virtuali danno la possibilità di ricostruire e dare nuova forma all’identità virtuale dei giocatori in svariati modi. Alcuni di questi sono anticipati e guidati dai designer del mondo in questione, altri sono invece scelti e realizzati dagli utenti. Da un lato, è palesemente vero che i giocatori possono trarre un senso di auto-realizzazione e di ancoraggio esistenziale nel perseguire obiettivi materialmente presenti – in Super Mario Bros. (Nintendo Creative Department 1985) quelli di sconfiggere il malvagio Bowser, salvare la Principessa Peach e collezionare monete lungo il tragitto. Dall’altro, è anche vero che giocando a Super Mario Bros. non si è del tutto legati a questi obiettivi: si può utilizzare il gioco anche per riflettere sulle proprie convinzioni o sui propri valori. Con atteggiamento critico, si può giocare Super Mario Bros. seguendo un progetto deliberatamente personale, ad esempio scegliere di non raccogliere alcuna moneta durante la partita; oppure di uccidere il minor numero di creature ostili possibile. In altre parole, il giocatore può articolare un progetto personale all’interno del mondo di gioco che può discostarsi dall’approccio strumentale che è implicitamente indicato dal gioco stesso (e che invita ad accumulare risorse e ottimizzare comportamenti, ricompensando il giocatore di conseguenza).

Gli ancoraggi esistenziali nei mondi virtuali, assieme alle possibilità di auto-realizzazione che essi offrono, sono in generale più semplici da realizzare delle loro controparti reali e divergono spesso in maniera significativa da quelli che caratterizzano la nostra esistenza quotidiana (Gualeni & Vella 2020, 14, 82).

Distrazione

Non tutte le relazioni che possiamo intrattenere con gli ambienti virtuali sono necessariamente rilevanti in termini di auto-realizzazione esistenziale. Alla pari dell’isolamento, le tecniche di distrazione sono esistenzialmente rilevanti perché alleviano momentaneamente la nostra possibilità di riflettere sull’insensatezza di essere al mondo. In ordine di chiarezza dobbiamo distinguere i meccanismi di “isolamento” da quelli di “distrazione”. Mentre le tecniche di “distrazione” puntano a distogliere l’attenzione del soggetto da situazioni che potrebbero causargli pensieri o sensazioni spiacevoli, quelle di “isolamento” ricontestualizzano tali situazioni, trasformandole in qualcosa che definiremmo “non tragico”, oppure qualcosa di distante e trascurabile. Qualcosa che è insomma incapace di farci del male. Di conseguenza, analizzare i videogiochi come strumenti di “distrazione” vuol dire prendere in esame la loro capacità di catturare e ridirezionare l’attenzione dei giocatori e delle giocatrici; trattarli invece come tecnologie di “isolamento” significa pensare a come questi invitino a un atteggiamento ludico e poco serio anche di fronte a idee e temi potenzialmente tragici. Ne “L’Ultimo Messia” Peter Zapffe definisce la “distrazione” un sistema di difesa capace di inibire la nostra consapevolezza “stregandola” di continuo con delle impressioni. Questo è particolarmente evidente nell’infanzia, in cui senza distrazioni, il bambino diventa insofferente (Zapffe 2004, parte 3). Per il filosofo norvegese, ridirezionare l’attenzione del soggetto da situazioni e pensieri che possono portare alla disperazione è l’espediente utilizzato da coloro che non hanno obblighi e necessità di auto mantenimento o mantenimento in termini di sopravvivenza. Evadere dalla consapevolezza disperante è essenzialmente di tutto ciò di cui si occupano.

I meccanismi di distrazione sono ovviamente centrali nel nostro rapporto con gli ambienti virtuali e con i videogiochi in particolare. Spesso giochiamo per distrarci, tenendoci occupati con obiettivi e attività virtuali relativamente semplici e stuzzicanti, che offrono di continuo degli stimoli; si pensi al settore “casual” dell’industria videoludica ad esempio. La distrazione è, in questo senso, l’altra faccia della stessa medaglia dell’ancoraggio videoludico: per distrarci dalla mancanza di ancoraggi nel mondo reale, ci  ri-ancoriamo a “identità”, valori e progetti virtuali. 

Bisogna sottolineare tuttavia che le tecniche di distrazione e ancoraggio non sono appannaggio esclusivo dei videogiochi cosiddetti “casual”. Videogiochi d’avventura ed esplorazione, soprattutto se caratterizzati da elementi ruolistici, sono in genere sviluppati, pubblicizzati, venduti e usati con lo scopo di farci diventare qualcun altro o qualcos’altro, sviluppando una versione alternativa di noi stessi – spesso con la promessa di una crescita senza fine e di successi straordinari. Questi giochi ci offrono, come giocatori, forme di evasione che non solo distraggono, ma hanno anche effetti esistenziali che abbiamo definito “ancoranti”.

Sublimazione

Per Zapffe la “sublimazione” è il meccanismo di sopravvivenza più raro dei quattro citati. Ciò che lo distingue dagli altri tre è il fatto che questo non punti a reprimere il panico esistenziale, ma piuttosto a trasformarlo in qualcosa di sensato e di utile. “Attraverso propensioni stilistiche o artistiche, il dolore dell’esistenza può talvolta essere trasformato in un’esperienza preziosa” (Zapffe 2004, parte 3). In altre parole, la sublimazione è una tecnica generativa, non protettiva. Zapffe fa un esempio di sublimazione parlando della pratica della scrittura del suo stesso saggio “L’Ultimo Messia”. Attraverso la stesura del testo, il suo panico esistenziale è diventato non più una questione privata e sterile ma invece un’esperienza condivisibile e capace di ispirare ed elevare i suoi fruitori.

Contestualmente non è azzardato riconoscere in un gioco come Every Day the Same Dream (Molleindustria 2009; vedi Figura 1) un analogo tentativo di sublimazione. Il gioco mette in scena un’esperienza di vita – quella di un impiegato alienato in una società occidentale tardocapitalista – che può dare adito a un certo panico esistenziale in ordine alla ripetizione ossessiva di una routine insoddisfacente e priva di senso. Il fatto stesso che il gioco trasformi questa esperienza mortificante in chiave espressiva e critica può essere letto come un tentativo dello stesso autore di sublimare la propria disperazione.

Figura 1: uno screenshot di Every Day the Same Dream (Molleindustria 2009)

In conclusione

A differenza di altri, non vogliamo interpretare i mondi virtuali come nuove traiettorie per l’auto-realizzazione e la comprensione di sé; piuttosto, vediamo i nostri rapporti coi mondi virtuali come attività che ci possono aiutare a sopperire alla mancanza di senso che caratterizza l’esistenza umana. Con questo intento, abbiamo adottato le categorie di Zapffe e le abbiamo usate come lenti concettuali attraverso cui guardare mondi virtuali e mondi di gioco. Abbiamo quindi discusso alcuni dei modi in cui le interazioni virtuali funzionano e possono funzionare per proteggerci dalla consapevolezza di quanto la nostra esistenza ci sembri assurda  insignificante. In questo passaggio finale e sulla scia dello stile di Zapffe vorremmo chiosare le nostre osservazioni con una nota cautelare presa in prestito dalla filosofia della tecnologia.

Sembra difficile che una tecnologia possa essere compresa semplicemente come la soluzione ad un problema specifico. Senz’altro la tecnica è diventata parte della nostra esperienza quotidiana e della nostra visione del mondo: è una componente costitutiva di chi siamo sia a livello individuale che a livello sociale, partecipando alla nostra auto-consapevolezza e al nostro modo di rapportarci agli altri, così come ai cambiamenti del mondo che abitiamo. Essendo adottate e integrate in vari contesti socio-tecnologici, le tecnologie hanno spesso effetti imprevedibili e indesiderati. Spesso, le nuove tecnologie producono effetti socio-tecnologici che vanno oltre gli obiettivi di partenza e loro modi d’uso,  creando così nuovi problemi. Nel suo Gli Strumenti del Comunicare del 1964, Marshall McLuhan scrive che la tecnologia non estende soltanto la capacità degli esseri umani di pensare e agire, ma in un certo senso sarebbe anche una sorta di auto-amputazione: studiare come ci rapportiamo al reale attraverso i media vuol dire saper vedere che all’incremento di certe funzioni cognitive corrisponde la desensibilizzazione di altre. Gli ambienti virtuali, alla luce di ciò, costituiscono un nuovo e utile “strumentario esistenziale” ma risultano inevitabilmente anche una fonte di pericolo ed instabilità. Se da una parte l’interazione con ambienti virtuali offre meccanismi esistenziali che aiutano ad autogratificarsi, dall’altra rende la nostra specie anche meno adatta alla vita di quanto già non lo sia ora. Tra i vari aspetti negativi o socialmente indesiderabili ricordiamo il fatto che la frammentazione della nostra attenzione e dei nostri interessi tra mondi reali e virtuali rende più difficile la concentrazione e la pianificazione a lungo termine; non è raro che essi diano adito a fenomeni di dipendenza, derealizzazione e isolamento sociale.

In conclusione, come spieghiamo nel nostro ultimo libro Virtual Existentialism, gli ambienti virtuali sono tecnologie che influenzano il modo in cui viviamo e diamo un senso alle nostre vite. Lo fanno in due modi: liberandoci da alcune limitazioni che ci sono imposte dal mondo reale e permettendoci di avere esperienza della nostra inadeguatezza secondo nuovi modi e prospettive.


Riferimenti bibliografici

Gualeni, S. & Vella, D. 2020. Virtual Existentialism: Meaning and Subjectivity in Virtual Worlds. Basingstoke, UK: Palgrave Pivot.

McLuhan, M. 1994 (1964). Understanding Media: The Extensions of Man. Cambridge, MA: The MIT Press.

Molleindustria. 2009. Every Day the Same Dream. [PC]. Digital game published by Molleindustria.

Nintendo Creative Department. 1985. Super Mario Bros. [Nintendo Entertainment System]. Digital Game published by Nintendo.

Sophocles. 1984. The Three Theban Plays – Antigone, Oedipus King, Oedipus at Colonus. Translated by Fages, R. New York, NY: Penguin Classics.


Stefano Gualeni è un filosofo che progetta videogiochi. È Professore Associato presso l’Institute of Digital Games dell’Università di Malta e Visiting Professor presso il Laguna College of Art and Design di Laguna Beach, California, USA.
Daniel Vella è docente presso l’Institute of Digital Games dell’Università di Malta. È membro del comitato direttivo del Game Philosophy Network ed è attivo anche come scrittore e narratore di giochi da tavolo.

1 comment on “La filosofia di P. W. Zapffe e i videogames

  1. Nicolò

    Ottimo riassunto delle idee filosofiche di zpaffe. Per caso i suoi libri sono stati tradotti in italiano?

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