La giostra

Agosto su Indiscreto è sinonimo di racconti: abbiamo deciso di affidare ogni anno a una persona diversa la curatela del nostro breve mese letterario. Quest’anno a curare la selezione per noi è lo scrittore Vanni Santoni. Il racconto che segue è di Filippo Rigli, che ringraziamo.


IN COPERTINA, Carousel, Vilmos Aba-Novak (1931)

di Filippo Rigli

(l’agosto letterario 2023 è curato da Vanni Santoni)

Il sole di luglio calava giù a picco come una mannaia, non lasciava scampo. La macchina bianca, con le fiancate incrostate da ere geologiche di polvere lurida, tagliava paesini spenti dalla luce violenta, sommersi dal caldo come si si trovassero sul fondale di un mare bollente, calcinati dal sole. Privi di una qualsiasi ombra che potesse offrire rifugio, parevano deserti, abbandonati come vecchi set cinematografici dei film western. Solo qualche vecchio si vedeva ogni tanto, a testimoniare che l’afa non li aveva del tutto svuotati, seduto sulle verande a filo strada, su seggiole di legno, sotto vecchi cappelli di paglia, con la pelle cotta dal sole che lo faceva sembrare un fiammifero spento. Parevano, quei vecchi sporadici, immobili e solitari e pure con gli occhi chiusi, mummie messe al sole a essiccare. I finestrini della macchina erano abbassati per fare circolare un po’ d’aria, come sempre d’estate, perché la macchina non aveva l’aria condizionata, o forse era rotta, perché il babbo l’aveva comperata usata da un signore importante, un dottore on un architetto o una cosa di simile, e certamente doveva avercela, e forse era il babbo che non la portava mai a riparare. Il bambino non lo sapeva, e non gliene importava niente. Lui non soffriva il caldo, o lo soffriva molto meno del babbo, e dei grandi in generale, che stavano sempre a lamentarsi del caldo, quando era caldo, e del freddo quando era freddo, e della pioggia, e di tutto. Stava seduto, il bambino, composto sul sedile del passeggero, con la cintura di sicurezza allacciata. Aveva gli occhi neri e fondi, e un caschetto di capelli lisci che gli copriva la fronte imbronciata, neri anche quelli. Ogni tanto si soffiava via un ciuffo dagli occhi. Stava zitto e non rideva quasi mai, neppure quando giocava. Del resto giocava quasi sempre da solo, con le costruzioni, o con i puzzle. Guardava fuori dal finestrino, guardava i paesi deserti e le campagne brulle e i campi riarsi dal sole che attraversavano tra un paese e l’altro, assorto, in silenzio, e il riverbero gli feriva gli occhi scuri e glieli faceva strizzare. Allora per riposare lo sguardo si girava verso il babbo, che sbuffava e sudava nella sua camicia azzurra macchiata sotto le ascelle e si toglieva gli occhiali scuri per capire se la strada era giusta e poi li rimetteva e si passava un fazzoletto sulla fronte bagnata. Il babbo quel giorno lo aveva portato con sé. Il bambino non aveva fatto domande, era salito in macchina e basta, era contento di stare col babbo. Il vento che entrava dai finestrini della macchina era caldo come l’aria dell’asciugacapelli. Il babbo dette un colpo di freno e mise un nastro nello stereo e lo accese e fece partire la musica, a volume basso, e la canticchiava, e ogni tanto cambiava nastro, e guardava il figlio e gli sorrideva e gli passava una mano sui capelli e glieli scompigliava, e il bambino se li rimetteva a posto con le mani e il babbo rideva. Poi si voltava verso la strada e lo guardava con la coda dell’occhio, serio e composto, il suo scricciolo col muso lungo, coi capelli così neri e la pelle chiara, e sorrideva di un sorriso malinconico perché gli si stringeva il cuore per quanto suo figlio somigliasse alla madre, ma questo al piccolo non lo diceva, non poteva dirlo. La macchina passò accanto a un campo dove c’erano dei grandi rotoli di paglia, disposti in modo regolare come fortini, ma in mezzo ai rotoli non c’era nessuno che li avesse potuti tirare su. Sembrava quasi che spuntassero da soli, anche se il bambino sapeva che li facevano con una macchina, glielo avevano detto a scuola, una specie di trattore grande che faceva un baccano infernale, tagliava la paglia del campo e la risputava così, a rotoli. Gli sarebbe piaciuto vedere quella macchina, ma non sembrava essere nei paraggi, e forse a pensarci bene non esisteva nemmeno, come i robot dei cartoni animati.

Alla fine della strada c’era un altro paese, che già di lontano si capiva fosse bianco e silenzioso e deserto, uguale a tutti gli altri che avevano visto fino ad allora. Il babbo rallentò, abbiamo quasi finito, disse, questo è l’ultimo. Il bambino annuì. Sarai stanco, ti sei annoiato, gli chiese, ma il bambino fece no con la testa. Vuoi mettere una cassetta delle tue, gli chiese, e il bambino scosse la testa di nuovo. Meno male, pensò il babbo. Il paese era in fondo a uno stradone dritto, e la macchina bianca procedeva piano, pareva fendere l’afa come la prua di una barca. Il bambino si sporse dal finestrino per quanto la cintura lo permetteva. Fuori, sulla strada bollente, vedeva brillare delle pozze di acqua. Erano lì, era sicuro, si vedeva il riflesso del sole. Ma quando si avvicinavano, quando sarebbero dovuti arrivare proprio sopra alla pozza, questa scompariva, come per una specie di incanto. Il bambino rimaneva a bocca aperta, e non capitava spesso, e aguzzava la vista per vedere meglio la pozza successiva, ma sempre per il medesimo incanto spariva anche quella.  Allora il bambino si voltava per vedere se la pozza fosse ricomparsa alle loro spalle, ma dietro la macchina c’era solo l’asfalto. Si grattava la testa, si arrovellava, non riusciva a spiegarsi. Non è acqua per davvero, gli disse il babbo, che lo aveva guardato divertito con la coda dell’occhio, è un fenomeno ottico, è la luce che si riflette nelle goccioline dell’aria umida. Il bambino lo guardava. È un miraggio, come quelli del deserto, sai come si chiama, gli chiese il babbo. Il bambino fece no con la testa. Fata Morgana, disse, il babbo con la voce impostata. Come quella di Re Artù, disse il bambino sgranando gli occhi neri. Precisamente, disse il babbo, ridendo. Poi passarono sopra i miraggi e li fecero sparire, e entrarono nel paese. Nei vicoli non volava una mosca, il babbo ci passava piano, perché erano stretti. Le persiane delle case erano tutte sbarrate. Presero la via maestra e arrivarono a una piazza deserta, tagliata a metà dall’ombra della chiesa. Il babbo si infilò deciso nel cono d’ombra e tirò il freno a mano, spense il motore. Prese il fazzoletto, che era azzurro come la camicia, e si asciugò il sudore dalla fronte.

Si voltò e agguantò una vecchia borsa di pelle nera dal sedile posteriore, tirò fuori un quaderno grande, a quadretti, e cancellò un nome da una lista. Ci pensò un po’ su, si mordicchiò la nocca dell’indice, ok, ci siamo, questo è l’ultimo, disse al bambino. Il bambino annuì. Vedo di sbrigarmi, così dopo ci prendiamo un gelato, che dici, ti va un gelato, disse. Sì, disse il bambino, poi si voltò, con le braccia appoggiate sul finestrino abbassato. Guardava la piazza, che era deserta, e sembrava lo fosse sempre stata, che non potesse essere altro che deserta, come dipinta in un quadro, metà in ombra e metà fustigata dal sole abbacinante, immobile, a parte per un fiotto d’acqua timido che usciva da una fontanella in ferro battuto, poco davanti la chiesa. Tu che fai, disse il babbo, mi aspetti in macchina, tanto dentro ti annoi. Sì, rispose il bambino senza girarsi, continuando a osservare la piazza come se la dovesse dipingere. Il babbo scese di macchina e si stiracchiò la schiena, andò al baule, lo aprì e prese delle scatole e lo richiuse. Poi andò davanti al figlio e si chinò su di lui. Cosa guardi, gli chiese. Guardo, la piazza, rispose il bambino. Ah, disse il babbo, e ti piace, questa piazza. Un po’, rispose il bambino. Il babbo sorrise. Va bene, disse, io faccio in fretta, torno subito, tu non ti allontanare. Il bambino non rispose. Il babbo si avviò verso un portone e suonò un campanello. Un ronzio spezzò il silenzio e rimbalzò nei muri delle case con una lieve eco. Poi si sentì uno schiocco metallico, la porta si aprì e il babbo entrò nella casa. Il bambino lo seguì con lo sguardo fino a che non fu dentro e poi tornò a guardare la piazza, i muri bianchi e scrostati, le porte dipinte di verde e rosso scuro, con la vernice che veniva via. Guardava il riflesso della luce nei pochi vetri che non erano coperti dalle persiane e nei cartelli stradali. Aveva scoperto che se strizzava gli occhi ai limiti del campo visivo si formavano dei raggi laser. Gli venne in mente di andare alla fontana per bere un sorso d’acqua, ma il babbo gli aveva detto di non allontanarsi. La fontana era vicina o lontana? Non lo sapeva, e allora per sicurezza si tenne la sete e aspettò in macchina.

Guardò ancora un altro po’ i riflessi della luce, poi si annoiò, e allora prese il suo cestino e tirò fuori il libro illustrato dallo zainetto e si mise a leggere. In realtà a leggere non aveva ancora imparato, ma lui guardava le figure e immaginava la storia, e per lui era leggere. Era così assorto nella lettura che non sentì neanche il babbo, poco dopo, quando tornò. Si accorse di lui solo quando aprì lo sportello e buttò la borsa nel sedile di dietro. Il babbo sedette al posto di guida. Leggevi, gli chiese. Il bambino annuì. Leggevi o guardavi le figure, chiese il babbo. Leggevo, rispose il bambino, col viso imbronciato. Il babbo rise. Ma sì, ma sì, lo so che leggevi, non ti arrabbiare, disse. Non ti sei annoiato, ad aspettarmi, allora, disse il babbo. Il bambino fece no con la testa e mostrò il libro al babbo, per ribadire che stava leggendo, e poi sbuffò, perché i grandi a volte erano proprio zucconi, pure il babbo. Quello rise, e gli carezzò la testa, bravo, il mio ometto serio, disse. Il babbo girò la chiave nel quadro e accese il motore, bene, disse, comunque per oggi abbiamo finito, e ora andiamo a prendere un gelato, mi hanno detto che ci dovrebbe essere un bar aperto, che dici ti va un gelato, oggi siamo stati proprio bravi, ce lo meritiamo un bel gelato. Il bambino annuì senza dire niente, sedette composto e allacciò la cintura, diligente. Gelato, allora disse il babbo, fece manovra e partì, lasciandosi la piazza immobile alle spalle.  Fecero due o tre volte il giro del paese per trovare il bar aperto, come se si fossero persi, poi il babbo realizzò che quel bar non poteva essere dentro le mura, visto che gli avevano detto che era davanti al campo sportivo, e che dovevano per forza uscire. Lo trovarono poco fuori, e il babbo scosse la testa, colpa mia disse rivolto al bambino o forse a sé stesso, sono proprio uno zuccone.

Il bar era proprio poco fuori il limitare del paese, accanto al vecchio campo sportivo, un pezzo di terra che era stata verde con una tribuna di cemento, circondato da vecchi cartelloni pubblicitari sbiaditi di prodotti fuori mercato da più di dieci anni. Oltre e intorno al campetto sembrava un deserto, afa e campi spaccati dal sole a perdita d’occhio, e ancora afa, come un mare sopra il deserto. Accanto al campetto, poco più in là, c’era una giostra. Una specie di piovra sbreccata, un monolite tondeggiante da cui usciva una miriade di braccia meccaniche a cui erano attaccati dei piccoli aeroplani, o forse navicelle spaziali. Sola nel mezzo al mare di afa sembrava una piramide aliena, dava l’idea che fosse stata strappata di peso da chissà quale fiera di paese e buttata là, a aspettare un ritorno che non arrivava. Il bambino, appena sceso di macchina dopo che il babbo aveva parcheggiato davanti al bar, si era piantato immobile a rimirarla, con la bocca piccola un poco aperta, e si stropicciava gli occhi con le dita, incredulo. Forse pensava che pure la giostra fosse un miraggio, una fata morgana. Il babbo gli mise una mano sulla spalla, il bambino si riscosse come se fosse stato svegliato di colpo nel bel mezzo di un sogno. Dai, andiamo gli disse il babbo. entrarono nel bar. Dentro, oltre una tenda fatta di strisce di tessuto spugnoso, era fresco e ombreggiato. Un barista piuttosto anziano stava passando lo straccio sul bancone. Era alto e scuro, con le braccia che fuori dalle maniche corte della camicia bianca sembravano tronchi d’albero. Aveva il viso scavato dalle rughe e gli occhi chiari e una matassa di capelli bianchi, ondulati e folti. Una signora grassoccia, coi capelli legati in una coda di cavallo, puliva i tavolini nella sala. Appena entrarono i due salutarono e sorrisero, sembravano molto cordiali. Nel bar non c’erano altri clienti. Ma che bel bambino, disse la signora. O forse sei una bambina, chiese scherzando, rivolta direttamente al piccolo. Il bambino si voltò a guardarla e strinse i pugni e puntò i piedi, no, disse con il faccino indispettito, io sono un uomo.

La donna sorrise, ma certo piccolo, scusa, disse. La risata cavernosa, da fumatore, dell’uomo risuonò nel bar non troppo ampio, e fece girare verso di lui tutti i presenti. Certo, disse, e il sorridere di tutte quelle rughe gli faceva sembrare la faccia un sacchetto accartocciato, sei un uomo, ti servo caffè e grappa, allora. Il bambino lo guardò e scosse la testa, no, disse, vorrei un biscotto gelato. Anche il babbo sorrideva, passò una mano sulla testa bruna del figlio scompigliandoli i capelli, e quelli tornarono a posto come per magia appena tolse la mano. Non ti arrabbiare, disse, i signori scherzano. I grandi scherzavano spesso coi bambini, e il bambino proprio non capiva come mai. Il vecchio barista indicò al bambino il frigo dei gelati in un angolo con il dito nodoso. Serviti da solo, ometto, gli disse. Il bambino andò al frigo, lo aprì, osservò dentro, allungò la manina e pescò un biscotto gelato. Richiuse il frigo e disse un grazie secco rivolto al barista. Quello, di rimando, sorrise. E lei, che prende, disse tornando serio mentre si rivolgeva al padre, le faccio un caffè, o preferisce una birra ghiacciata, con questa stagione. Ma sì, mi dia una birra, grazie, rispose quello, mentre lo pagava con una manciata di spiccioli. È proprio in gamba, il suo ragazzo, gli disse mentre gli dava il resto. Sì, rispose l’uomo con una punta d’orgoglio, è molto intelligente, anche se ha un caratterino che glielo raccomando, aggiunse. I due risero. Possiamo sederci in veranda, chiese il babbo al barista. Come le pare, rispose quello. Prese il bambino per mano, vieni, gli disse, andiamo a sederci fuori. Oltrepassarono la tenda e sedettero fuori, su una vecchia panca, all’ombra della veranda. Il babbo si era lasciato cadere quasi di peso, aveva guidato tutto il giorno e ora la stanchezza gli era passata sopra come un treno, tutta insieme. Beveva la birra tenendosela in bocca per gustarsi il freddo. Il bambino mangiava il gelato a piccoli morsi, come gli era stato insegnato, per non gelarsi la lingua e non farsi venire il mal di testa.

Guardava la giostra, dritto davanti a sé, la giostra che pareva un miraggio, non riusciva a staccargli via gli occhi di dosso. Fuori posto, come una nave abbandonata nell’entroterra. Il babbo si staccò dal garbuglio dei suoi pensieri e si accorse che il bambino guardava la giostra, rapito. Vuoi farci un giro, appena hai finito il gelato, gli chiese. Il bambino si voltò a guardarlo, sì disse, annuendo con il caschetto. Guarda che potevi chiedermelo, gli disse il babbo, puoi chiederle le cose, anzi, le devi chiedere, mica puoi sempre aspettare che lo zuccone del tuo babbo le capisca al volo. Il bambino non rispose. Finì il gelato con un paio di morsi, piegò in quattro la carta e la buttò nel cestino, il babbo finì la birra e lasciò la bottiglia vuota sul tavolino. Si asciugò la bocca con la manica e si alzò, dai andiamo, disse, andiamo a vedere se è aperta. Si avviarono verso la giostra, attraversarono la strada tenendosi per mano. L’aria era rovente, intrisa di polvere, faceva male agli occhi. Arrivarono al casottino e il babbo bussò al vetro, dentro c’era una ragazza che leggeva una rivista sotto un ventilatore acceso. Al bussare del babbo la ragazza alzò lo sguardo e vide l’uomo, e gli sorrise con una fila di denti bianchi e dritti. Siete aperti, chiese il babbo alla ragazza. Lei si alzò e si stirò, salve, disse, e uscì dalla biglietteria. Non era troppo alta, però era slanciata, i capelli castano scuro lunghi fino a metà schiena, spessi, gli occhi neri e ridenti, la pelle scura, quasi da zingara. Forse lo era, una zingara, pensò il babbo, o magari la figlia del barista. Portava scarpe basse di tela, una gonna marrone leggera, una canottiera blu elettrico che le avvolgeva il busto, e il babbo notò subito che non portava il reggiseno. Non le serviva. Lei si accorse che l’uomo l’aveva notato e gli sorrise. Salve, le disse il babbo ricambiando il sorriso, siete aperti, per caso, mio figlio qua voleva fare un giro. Lei si voltò verso il bambino e sorrise anche a lui, ciao anche a te, disse, vuoi fare un giro sugli aeroplanini. Il bambino arrossì, sì, rispose abbassando lo sguardo.

Che fai, ti vergogni, disse la ragazza chinandosi verso di lui e allungando la mano per carezzargli il viso, ma quanto sei carino. Il bambino alzò la testa e fece un accenno di sorriso. Lei aveva una voce bassa, forse un poco roca, doveva essere una fumatrice, pensò il babbo, mentre la guardava chinarsi. Su, non fare il timido, disse il babbo al bambino. Quello scosse la testa. La ragazza si alzò di scatto e pianto gli occhi negli occhi del babbo senza smettere di sorridere. L’uomo sentì una specie di sparo nel petto. Comunque sì, siamo aperti, certo, disse la ragazza. Tornò verso la biglietteria e frugò nel cassetto e tirò fuori un gettone di plastica rossa. Fece per darlo al babbo, poi ci ripensò e lo dette al bambino. Tieni, gli disse, con questo puoi volare. Poi si rivolse al babbo, può portare suo figlio alla giostra, disse passando una punta di lingua a lato delle labbra, io intanto la metto in moto. La ragazza si mise alla consolle dei comandi e tirò una leva e premette un bottone. La giostra si risvegliò, fremette, stridette, le luci disseminate per tutto il corpo si illuminarono anche se era difficile notarle nell’abbacinare del sole, sollevò gli aeroplani, fece un giro completo su sé stessa e li posò di nuovo a terra, pronta. Il bambino aveva assistito a bocca aperta al risveglio del mostro, privo di paura, ma anzi con una meraviglia sconcertata. Il babbo accompagnò il bambino a una delle navicelle, tirò su la sicurezza di metallo rugginoso, e fece per aiutare il figlio a salirci. Faccio da solo, sono grande, disse il bambino, come se gli bruciasse di essere arrossito poco rima. Il babbo sospirò, certo, ci mancherebbe, disse, e lo lasciò fare. Il bambino salì sulla navicella e abbassò da solo la sicurezza, accertandosi che fosse scattata. Bene, buona battaglia, disse il babbo al bambino, non farti abbattere e torna vittorioso. Il bambino annuì deciso e fece il saluto militare. Il babbo tornò verso la biglietteria, dove la ragazza lo aspettava sorridendo. Il tuo bambino è proprio un fenomeno, disse all’uomo. Vero, tutto suo padre, rispose quello.

La ragazza tirò di nuovo la leva, ancora premette il bottone. Sì, disse all’uomo senza guardarlo, sono sicura che sei un fenomeno anche tu. Schiacciò un altro bottone, e la musica risuonò nella valle afosa. Intanto gli aerei si erano sollevati in volo. La battaglia era iniziata. Il bambino pilotava come un asso della prima guerra mondiale, come un ribelle all’assalto della Morte Nera. Serrava un occhio e con l’altro fissava la croce del mirino premeva il grilletto rosso sui comandi e faceva fuoco. Il rumore della giostra non gli bastava, e allora faceva tra-ta-ta-ta con la bocca per aiutarla. I nemici non esistevano, ma lui li vedeva chiaramente, e li abbatteva lo stesso, e quelli cadevano come mosche. Le navicelle colpite precipitavano, poi decollavano ancora, e lui le abbatteva di nuovo. Il babbo lo guardava con gli occhi traboccanti di amore, e sorrideva, per fortuna si diverte, disse a mezza voce. La ragazza guardava lui, ha davvero un bel bambino, disse. Dammi pure del tu, disse l’uomo, mentre si girava a guardarla. Lei gli sorrise, e il sorriso illuminò la penombra della biglietteria. La pelle scura e i capelli folti e i denti bianchi rimandavano a qualcosa di antico, di regale, di selvaggio, qualcosa che dominava da secoli il caldo e la solitudine e la luce. Nemmeno tu sei male, le disse, e sentì qualcosa alla bocca dello stomaco. Lei parve arrossire e abbassò lo sguardo, con una timidezza forse posticcia, che non pareva appartenerle. Per vincere la timidezza allora parlottarono del più e del meno, senza pensarci, come se l’avessero concordato, fino a che non vinsero l’imbarazzo. Ogni tanto il babbo si voltava verso il figlio. Il piccolo asso dell’aviazione di guerra continuava a volare, a combattere, pure lui ogni tanto gettava un’occhiata al babbo, e poi tornava alla sua guerra, a fare strage di nemici. Smettila di parlare di cazzate, disse lei quando lui tornò a guardarla, vieni dentro. L’uomo fu preso alla sprovvista da quello che pareva un ordine, ma dopo un attimo di smarrimento entrò nella biglietteria e si chiuse la porta alle spalle. Lei abbassò gli scuri della finestra.

Nell’infuriare della battaglia il bambino si girò, e non vide più il babbo. Non ci badò, sarà a fare pipì, si disse, e tornò a combattere. Ma quando tornò a girarsi, di nuovo ancora il babbo non c’era. Doveva essere andato a prendere una cosa in macchina, si disse, la borsa del lavoro, o gli occhiali, forse. La giostra non accennava a fermarsi. Vinse la battaglia, e subito ne partì un’altra. Vinse anche quella, sparò fino a farsi dolere le dita, il babbo non poteva essere lontano. Si girò di nuovo, e non lo vide. Un colpo di singhiozzo gli salì su dal petto, come se il nemico lo avesse colpito. No, si disse, il babbo ora torna, e continuò a sparare, ma i nemici erano svaniti, ora c’erano solo le navicelle vuote, che cadevano e si rialzavano. Ogni volta che passava davanti alla biglietteria si voltava, ma il babbo non c’era. Contò i giri, perché no, il babbo non poteva essere lontano. Ne contò tre, poi scoppiò a piangere. Non sparava neanche più, la guerra era finita. Poi passò ancora qualche altra volta davanti alla biglietteria, e tra le lacrime vide infine aprirsi la porta. Il babbo uscì trafelato, si sistemò i pantaloni, cercò il figlio con gli occhi, vide che stava piangendo. Ferma questa cazzo di giostra, disse alla ragazza che era ancora dentro a infilarsi nella gonna. La ragazza allungò la mano e schiacciò il bottone e tirò la leva, la musica cessò di colpo, gli aerei atterrarono, la giostra si fermò. Il babbo corse incontro al figlio che continuava a piangere. Oddio, disse la ragazza affacciandosi, con la mano sulla bocca. Aveva la massa dei capelli stretta in una crocchia sopra la testa, come la corona di una regina. Il bambino era tutta una smorfia, sembrava una piccola maschera giapponese, stravolto dal pianto, il naso che colava. Staccò da solo la sicurezza e fece per saltare giù dall’aereo, rischiando di inciampare. Il babbo lo prese al volo, se lo portò al petto, lo strinse forte, no, no, gli disse, non avere paura, va tutto bene, sono qui, il tuo babbo è qui. Il bambino fu colto da una crisi di pianto ancora più violenta, cercò di divincolarsi dall’abbraccio, poi prese a colpirlo sulle spalle con le manine chiuse a martello. No, gli disse l’uomo, è tutto a posto, il babbo è qui. 

Il babbo appoggiò il bambino sulla ringhiera in lamiera che circondava la giostra, quello si lasciò adagiare come se fosse una bambola. Aveva smesso di piangere, ma era scosso da sospiri profondi che lo facevano tremare come in mezzo a un terremoto, che gli levavano l’aria. Guardava il babbo e strizzava gli occhi rossi per il vento e il pianto, il faccino scuro come un temporale. Il babbo tirò fuori il fazzoletto di tasca per cercare di asciugargli le lacrime, ma il bambino glielo strappò di mano, no, disse, faccio da solo. Si passò il fazzoletto sugli occhi, si soffiò il naso, lo piegò, lo ridiede al babbo. Quello lo mise in tasca. Guardava il figlio con la faccia contrita. Scusa, gli disse, non mi sono accorto, sono stato uno stupido. Il bambino continuò a guardarlo male, ribolliva di rabbia, sentì che stava di nuovo per scoppiare a piangere, ma non voleva per nulla al mondo, si sforzò di trattenere le lacrime, ci riuscì. Il babbo se ne accorse. Sono stato via solo per un attimo, gli disse, dovevo fare una cosa. Non ci credo, disse il bambino, con le labbra increspate. Che cosa dovevi fare, chiese. Il babbo non sapeva cosa rispondere, esitò, si morse l’interno della guancia, cercò di prendere tempo. Ero a fare pipì, rispose. Non è vero, non ci credo, sei un bugiardo, disse il bambino scuotendo la testa. Il babbo non disse nulla, strinse forte il figlio, sentì il suo corpicino tremare. Anche il bambino lo abbracciò, e il babbo per poco non scoppiò a piangere anche lui. Avvicinò la faccia a quella del figlio, lo guardò negli occhi, scusa, gli disse, mi dispiace davvero un casino, mi dispiace che hai avuto paura. Io non ho avuto paura, disse il bambino mettendo il broncio. Il babbo gli sorrise. Solo un pochino, disse il bambino. Certo, disse il babbo, tu sei grande, e i grandi non hanno mica paura. Ora voglio andare a casa, disse il bambino guardando per terra. Ma certo, disse il babbo, e lo prese in braccio. Mettimi giù, disse il bambino, cammino da solo. Il babbo lo posò a terra e si avviarono verso la macchina.

Passarono davanti alla biglietteria, da dove la ragazza li aveva osservati da lontano, l’espressione mortificata stampata in faccia. Si era di nuovo sciolta i capelli, che il vento leggero faceva fatica a smuovere. Mi dispiace, disse chinandosi verso il bambino, io non, fece, ma poi il babbo la fulminò con un’occhiata e le lasciò cadere nel vento la frase a metà. Lei carezzò la testa del bambino, lui la guardò male, spostò la mano. Scusa, disse allora, piano, rivolta all’uomo. Lascia stare, disse lui, ci vediamo. Lei annuì e i due proseguirono. Ti va un altro gelato, chiese il babbo al bambino, quando arrivarono alla macchina. Il bambino scosse la testa, no, disse, voglio andare a casa. L’uomo pensò di prendere una bottiglia d’acqua fresca per il viaggio, ma poi lasciò perdere, si sarebbero fermati più in là, al limite, si disse. Entrarono in macchina, il bambino si allacciò la cintura, come faceva sempre. Anche il babbo, al posto di guida, se la allacciò, e lui non la metteva mai. Il babbo mise in moto la macchina, fece manovra, si parte, disse al figlio con un sorriso. Quello annuì senza voltarsi. Non fecero la strada che avevano fatto all’andata, proseguirono, perché potevano comunque riallacciarsi alla statale. La giostra era alle loro spalle. Il babbo vide con la coda dell’occhio il figlio abbassare il parasole e guardare la giostra dallo specchietto. La osservò fino a che non fu più in vista, e allora alzò il parasole. Entrarono nella statale deserta e battuta dal sole e proseguirono, senza accendere lo stereo, senza parlare. Facciamo pace, chiese il babbo di colpo, dopo un po’ che viaggiavano con solo il motore in sottofondo. Il bambino era immerso nei suoi pensieri foschi, fu preso alla sprovvista, si riscosse come se lo avesse appena svegliato. Il babbo si voltò a guardarlo, lo vide annuire, anche se aveva ancora il broncio stampato sul faccino, e pensava che se lo sarebbe tenuto ancora per un po’, se lo conosceva bene. Temeva la rabbia del figlio, come aveva temuto la rabbia della madre, una rabbia sorda, terribile, una collera divina. Ma quella del figlio lo feriva di più.

Davvero non hai avuto paura, gli chiese a voce bassa, mordicchiandosi la lingua, come se temesse di farsi sentire. Il bambino non rispose, ma i lacrimoni tornarono prepotenti a riempirgli gli occhi, se li tirò via con la manica della maglietta. Il babbo se la prese con sé stesso, si disse che non ne faceva una giusta, che era un coglione, voleva solo tentare un dialogo con suo figlio, ma lo aveva fatto piangere di nuovo. Prese un fazzoletto di carta da una scatolina sul cruscotto e lo porse al figlio. Il bambino lo prese e ci si soffiò il naso, lo appallottolò e lo appoggio accanto alla scatoletta. Si girò verso il babbo, ho avuto paura che non tornassi, disse con un tale sforzo che per poco non scoppiava di nuovo in lacrime. Il babbo rallentò, mise la freccia, fermò la macchina poco fuori la carreggiata. Si sganciò la cintura e sganciò anche quella del bambino, lo abbracciò forte. Non devi avere paura, gli disse, io ci sono sempre, sono sempre con te, anche quando non mi vedi. Il bambino si divincolò dalla stretta, avevo paura che fossi andato via, come la mamma, disse. L’uomo abbassò lo sguardo, sospirò, guardò il figlio negli occhi. La mamma non è andata via, gli disse. Il bambino fece sì con la testa, lo so, disse, e si buttò tra le braccia del babbo, lo strinse forte con le piccole braccia. Stai diventando forte, disse il babbo, mi fai male. Il bambino rise. Pace, allora, disse il babbo. Pace, sì, disse il bambino. Il babbo mise in moto e ripartirono sotto il sole, nella strada deserta. Il babbo dopo un po’ accese la musica, la tenne bassa, il bambino si mise a canticchiare piano. È proprio uguale a sua madre, pensava il babbo, mentre lo guardava con la coda dell’occhio.

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