La guerra degli arti. L’invenzione delle protesi in movimento prima della robotica

La storia delle protesi ci parla del nostro rapporto con la guerra, con le nuove scoperte e con la robotica.


IN COPERTINA: dettaglio da Giorgio de Chirico, Il trombettiere (fine anni Quaranta) – Olio su tela – Asta PAnanti in corso

Di Greta Plaitano

Quasi tutte le scoperte migliori avvengono per caso, oppure in tempo di guerra. Questa amara verità si rivela soprattutto se si guarda alle tecnologie militari e industriali vicine al sistema di orrori istituzionalizzato al quale stiamo assistendo ormai da diversi mesi: produzione di armi, dispositivi di controllo, mezzi di comunicazione e di movimento. Ma, allo stesso tempo, molte invenzioni stupefacenti si annidano anche nel suo contraltare più diretto: la salvaguardia e la cura del corpo umano, cioè la medicina.

È proprio in questo campo, e in particolare alle sue applicazioni dedicate ai conflitti tra le nazioni, che da sempre si osservano le scoperte più innovative e strabilianti al servizio della sopravvivenza. Celebrate in sordina rispetto alle fantasie tecniche e tecnologiche belliche, come polvere da sparo, aerei, bombe e carri armati, le invenzioni della fucina sanitaria si sono ritagliate nel corso del tempo un posto più appartato e meno eclatante, ma ricco di storie incredibili. 

Una di queste storie inizia in una cittadina toscana a fine Ottocento e, se non fosse per i pochi ricercatori che l’hanno studiata, resterebbe nella soffitta polverosa di una biblioteca, nascosta tra le carte disordinate dell’archivio di un inventore, all’epoca osteggiato soprattutto dalla stampa nazionale.

Uno dei primi articoli che accenna alle ricerche misteriose di un medico toscano esce difatti soltanto nel 1906 su La presse médicale, un’importante testata medica francese. Antonio Ceci, allora direttore della Clinica chirurgica dell’Università di Pisa, salutava le sperimentazioni di quel ‘semplice’ dottore di campagna, come una delle scoperte più ingegnose dell’ultimo secolo, che avrebbe aperto un nuovo campo di ricerca nel mondo della chirurgia di guerra e non solo. Nell’articolo il professore racconta di aver provato con successo per ben tre volte a mettere in pratica un delicato metodo di amputazione che aveva lo scopo di salvare le funzioni del moncherino della persona ferita rendendolo abile al movimento.

Tale miracolo non era però una scoperta del nuovo secolo e risaliva in realtà alle ricerche di una decina di anni prima di Giuliano Vanghetti, un medico condotto che girovagava in bicicletta prescrivendo medicine e rimedi tradizionali nei paesini tra Empoli e Firenze. Stufo della vita precaria e di provincia, Vanghetti aveva deciso verso i trent’anni di abbandonare le sue abitudini e di partire alla volta dell’Etiopia come medico di bordo incaricato di soccorrere i soldati della fulminea guerra italo-abissina. Scoppiato qualche anno dopo un iniziale accordo tra il re etiope negus Menelik II e il governo Crispi, il conflitto era sfociato nella violenta battaglia di Adua, che nella primavera del 1896 aveva visto morire milioni di uomini, contribuendo a fermare per qualche decennio le ambiziose mire africane del colonialismo nostrano. Vanghetti, offertosi di partire, aveva raggiunto le coste Etiopi dove si erano ritirati i pochi sopravvissuti, raccogliendo i resti di un esercito impreparato e curando come meglio poteva le ferite dei soldati reclutati tra i militari locali. Gli ascari, le sanguinose truppe di fanteria che avevano aperto la battaglia, erano infatti stati massacrati dalle milizie di Menelik, il quale aveva ordinato ai suoi guerrieri più crudeli di amputare agli oltre ottocento prigionieri la mano destra e il piede sinistro.

Scioccato da queste terribili mutilazioni al suo rientro in patria il medico aveva iniziato a pensare a una soluzione. Una volta che un arto era perso, si poteva pensare di recuperarne in qualche modo il movimento? O l’unico modo era compensare alla vista del moncherino con mani e piedi finti, rifiniti da sapienti falegnami nei minimi dettagli ma comunque senza vita? 

La scoperta straordinaria di Vanghetti, ancora oggi alla base di qualsiasi intervento ortopedico moderno, è dunque quella di progettare una protesi che non sia soltanto un riempitivo estetico, ma un vero motore vivente ‘dotato di un’energia funzionale di movimento, in relazione diretta con il cervello’ come scriverà il medico Franceschini nel suo libro dedicato a quelle che pochi anni dopo verranno chiamate ‘membra artificiali’. Nel suo studio a Empoli il ‘dottorino’, snobbato dalla gran parte delle università e dei chirurghi italiani e stranieri, aveva infatti sperimentato un metodo di amputazione preciso, teso a isolare con materiale fisiologico muscoli e tendini ancora potenzialmente attivi, da collegare a delle protesi mobili, che avrebbero permesso a chi le indossava di replicare con allenamento e dedizione i movimenti di tutti i giorni. 

La teoria della cosiddetta ‘cinematizzazione’, un compromesso tra sapere medico-chirurgico e rudimentali nozioni dell’ingegneria meccanica, sfonda per la prima volta nella storia moderna la barriera fisica tra uomo e macchina, preconizzando una futuristica unione tra tendini e bulloni. Vanghetti, che come tutti gli inventori geniali della storia – da Leonardo da Vinci a Marie Curie – oltre ad avere una mente matematica possedeva anche una grande immaginazione, inizia a sperimentare le sue visioni come può, applicando delle protesi di legno e ferro su cani, gatti e volatili, e iniziando a osservarne i primi risultati. Ma il primo opuscolo del 1898, inviato alle più importanti cliniche europee e società scientifiche d’Europa per chiedere fondi e supporto tecnico non ottenne alcuna risposta. Il medico ricorda nelle sue memorie di essersi per un certo periodo rassegnato al fallimento, accettando di passare “per teorico, visionario, disutile. Poiché a molti sembra che lo studioso sia un essere, se non dannoso, per lo meno a carico della società, specialmente quando sia dedicato a lunga ricerca di cose nuove”.

La scienza, che si bagnava la bocca di parole come ‘progresso’ e ‘modernità’, non era pronta per il progetto ‘folle’ di un giovane e inesperto uomo di provincia, canzonato dai suoi concittadini e definito a più riprese dagli scienziati pazzo e utopista, incapace di distinguere il possibile dall’impossibile. Eppure, la disciplina si ricrederà pochi anni dopo, proprio in occasione della Grande Guerra, un’emergenza senza pari di fronte alla quale ogni idea, persino la più assurda, poteva rivelarsi utile a salvare vite umane. È infatti per soccorrere i milioni di feriti delle letali armi da fuoco che il sistema Vanghetti viene brevettato, affiancando ospedali e istituti di carità nella nuova missione che la scienza medica si trova a fronteggiare: restituire un corpo a tutti i sopravvissuti che ne hanno perso delle parti in nome della patria. Tutti i conflitti – come ha mostrato con alcune opere video l’artista polacco Artur Żmijewski in una recente mostra al PAC di Milano – accanto ai corpi di morti si lasciano alle spalle vite segnate da traumi psicologici e fisici per le quali reinserirsi nella società appare quasi impossibile. La Prima guerra mondiale in questo senso è stata uno spartiacque nel mondo della storia scientifica, offrendo quello che diversi studiosi hanno definito un colossale ‘laboratorio del moderno’, dove la medicina poteva sperimentare le proprie invenzioni al servizio della ricostruzione dei paesi coinvolti. Invalidi e mutilati diventano non soltanto il simbolo di una patria distrutta da ricostruire giorno per giorno, ma anche il corpo reale della guerra. Un corpo offeso, da ricucire e reinventare in nome di un’immagine bellica che, come ha sottolineato a più riprese la storica Barbara Bracco, deve essere riletta come giusta e accettabile.

Le teorie del medico toscano vengono ripescate tra le tante scoperte fantasiose ritenute visionarie e vengono messe in pratica già nel 1917 da diverse cliniche, fra le quali spicca l’esperienza di un piccolo ospedale nel bresciano, il Mellino Mellini. Affiancando ambienti iperequipaggiati dallo stato, come il Pio Istituto dei rachitici di Milano e l’Istituto Rizzoli di Bologna, questa piccola realtà guidata dal chirurgo Augusto Pellegrini riesce a operare direttamente sul campo, chiamando Vanghetti in persona per collaborare insieme a un’équipe dotata di mezzi e denaro per provare a sviluppare il progetto che vedeva chirurgia e meccanica finalmente riunite in nome di un corpo che poteva riacquisire se non la sua forma originaria, perlomeno una parte delle sue capacità motorie. Dai moncherini inerti si passa così a una complessa e graduale riattivazione dei tessuti e, dopo diversi tentativi e consulti con ingegneri della zona, a una protesi mobile, una vera e propria mano le cui dita potevano esercitare pressione e forza. Le immagini di questo prodigio, possibile grazie alla mano Zerlini, mostrano giovani uomini vestiti di tutto punto intenti a stringere tra le dita fiaschi e bicchieri di vino, a sollevare sedie e secchi, a leggere i giornali, simulando una vita ordinaria che insieme nasconde e mette in scena l’orrore della guerra. Bere, scrivere, togliersi guanti e cappello rappresentano dunque le azioni abituali che un uomo d’onore doveva compiere ad ogni costo, nonostante le violenze subite e arrecate al fronte. Dalle protesi estetiche, riempitive, l’ospedale lombardo riesce a creare delle mani utili, che potevano compiere grazie all’impulso residuo dato dai muscoli feriti dei gesti semplici, quotidiani, in grado di restituirgli una parvenza di normalità. Le mani cinetiche diventano così un medium attivo, agganciato al corpo e ai suoi movimenti, prefigurando da un lato un’estetica cyborg che a partire dal Surrealismo avrà un grande slancio nelle arti figurative e performative, e anticipando dall’altro lato di quasi un secolo la storia dell’odierna neuroprotesica, finalmente in grado di mettere in relazione studi neurologici, fisio-chirurgici e l’ingegneria e robotica.


Greta Plaitano è laureata in Storia dell’arte e conservazione dei beni storico-artistici e ha un dottorato di ricerca in Storia dell’arte, cinema e media audiovisivi in cotutela con Sorbonne Nouvelle-Paris 3. Si occupa di immaginari e iconografie del corpo tra XIX e XX secolo incrociando fonti artistiche e mediali – prestando particolare riguardo alla storia della fotografia e dei dispositivi pre-cinematografici – temi ai quali ha dedicato diversi saggi in volume e articoli su riviste scientifiche. Attualmente collabora con la scuola di restauro dell’Accademia di Belle Arti di Brera e insegna catalogazione e gestione degli archivi all’Accademia Albertina di Torino.

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