La guerra dei contenuti

La moltiplicazione (e crisi) delle piattaforme e dei servizi streaming sta trasformando ogni prodotto, film e serie tv, in “contenuto”. Esiste una via di uscita?


In copertina e lungo il testo: Jiang Zhi, Rainbow n.6 (2006) – Color print – Asta Pananti in corso

di Gianmaria Tammaro

Non ci sono più film o serie tv: ci sono contenuti. Netflix, Prime Video, Disney: parlano tutti di contenuti. Guillermo Del Toro, durante un incontro al Festival di Cannes, ha criticato duramente questo nuovo linguaggio: non stiamo più discutendo di arte, ma di una catena di montaggio. Ed è vero. Non ci concentriamo più sul significato delle cose che guardiamo, ma solo sullo spazio – sulla memoria – che riempiono. Una serie più o meno interessante è una serie che dura poco, che si può vedere a doppia velocità, che non richiede troppa concentrazione e che funziona benissimo come sottofondo.

Al cinema i film che incassano di più – e, quindi, che vanno meglio – sono i cinecomics, tratti dai fumetti. In televisione, invece, è ancora in corso la cosiddetta guerra dello streaming. Netflix ha perso circa 200mila abbonati, Disney e Prime avanzano; Apple, dalle retrovie, comincia a farsi sentire. Prima con Severance, poi con Pachinko e Slow Horses ha dimostrato di avere un’idea precisa, una linea editoriale, e di voler puntare sul talento degli autori e sulla loro visionarietà. 

L’on demand è diventato un enorme campo di battaglia: puoi pagare un abbonamento, limitarti a comprare quello che ti interessa;e se vuoi risparmiare, puoi noleggiare un film. Un sali-e-scendi tortuoso di cifre, rincari e segni meno sulla carta di credito. Chi perde, alla fine, è sempre lo spettatore. Che non sa che cosa scegliere e che si sente smarrito, senza una direzione da seguire. Siamo sommersi di contenuti.

Anche su Twitch, la piattaforma di live streaming di Amazon, non si parla d’altro; è diventato un meme. Non ci sono più youtuber o videomaker; ci sono “content creator”. Abbiamo un’idea, crediamo di averla e ci affidiamo unicamente al nostro istinto. La verità è che in questi ultimi dieci anni qualcosa è cambiato. La televisione continua a essere il mercato più importante per i produttori e i creativi, perché dà più libertà del cinema e perché riduce, anche se non totalmente, i rischi. Ma gli equilibri si sono spostati.

Oggi ci sono troppi player, troppe piattaforme. L’Italia, per ora, è protetta dalla sua lentezza: è paradossale, ma è così. Non abbiamo ancora fatto i conti con l’infinita offerta che – per esempio – tormenta gli Stati Uniti. Probabilmente, con il tempo, ci arriveremo anche noi: il contratto di esclusiva tra Sky e HBO scadrà tra qualche anno, e allora sarà il turno di HBO Max; Paramount ha già annunciato l’arrivo entro la fine dell’anno della sua piattaforma, Paramount+; e intanto Netflix, Disney e Prime Video annunciano nuove serie e film, tutti originali italiani. 

Sky, Rai e anche Mediaset stanno provando a non rimanere indietro e a non farsi travolgere. Nascono alleanze e accordi, e i primi, veri vincitori di questa situazione sembrano essere proprio i produttori. Fremantle si sta muovendo in tutto il mondo, e sta acquisendo realtà più o meno locali, più o meno piccole, per consolidare la propria presenza nei vari mercati. In Italia, dopo essersi già assicurata Wildside e The Apartment, ha comprato Lux Vide, la casa di Don Matteo. 

Dice bene Mattia Carzaniga su Rolling Stone: viviamo nell’epoca del prodotto, del contenuto. Ci sono liste, archivi e numeri. Il pubblico viene ridotto a views e a ore passate guardando questa o quella serie. Siamo click, non cervelli pensanti. Siamo un movimento di mouse, una barra spaziatrice, un ESC sbiadito e malfermo: non le nostre idee o i nostri gusti. Si cavalcano le mode come quella degli anime e dei fumetti, e si lascia da parte il racconto delle cose sviluppate. Ci si accontenta.

Si spera nel passaparola come si spera in un miracolo: ascoltaci, o Signore delle Ricondivisioni. Ma i veri fenomeni, online e in onda, sono sempre di meno. In Italia non ci sono più Gomorra o Romanzo Criminale. L’ultima puntata di Don Matteo è stata vista da più di 6 milioni di spettatori senza lasciare nessun segno: si va avanti così da anni, e nulla è cambiato. Un altro numero, un’altra tacca sulla cintura. Bang Bang Baby doveva essere la risposta di Prime Video al crime all’italiana, ma tra mille problemi distributivi – l’uscita delle puntate finali è stata rinviata più volte nel corso delle ultime settimane – e produttivi – è un progetto che va avanti dal 2019 – non è stato possibile catturare l’attenzione del pubblico. 

Su Netflix, i contenuti che funzionano sono quelli prodotti in altri paesi: Sud Corea, Stati Uniti, Spagna, Regno Unito; qualche volta anche Francia e Germania. Forse quello di cui abbiamo bisogno è altro; forse gli algoritmi, le riunioni di produzione, gli studi e i dati raccolti non bastano più. Ed è arrivato il momento di tornare indietro e ricominciare.

Primo punto. Manca un’offerta personalizzata. Le persone non sanno più che cosa guardare. Ci sono troppe novità, troppe serie da recuperare, troppi film da finire. Le piattaforme e i servizi streaming e le televisioni pay non parlano più al singolo spettatore, ma si rivolgono al pubblico più ampio. Ci riescono? No. Ma finché costa poco, finché non richiede troppi cambiamenti e rivoluzioni interne, va bene così. Fanno i loro annunci, pubblicano i loro trailer e gli artwork e aspettano. 

Se va bene e ne hanno la possibilità, vanno anche a qualche festival. Ma c’è così tanto da fare, e poi da dire, da pensare, da provare, che anche la cosa migliore, anche il contenuto più bello del mondo, rischia di passare in secondo piano. Ed è un peccato, e non ha senso. Né per l’industria dell’intrattenimento né per l’abbonato, che ha pagato e che spende le sue ore perso nei meandri di un’interfaccia labirintica, coloratissima e piena di preroll, brevi video e scritte. È la prima controindicazione del produrre tanto: dare la giusta attenzione a ogni singolo titolo, poi, diventa complicato.  

Secondo punto. L’impostazione mentale, dello spettatore e del produttore, è cambiata. Cerchiamo contenuti. Non perché vogliamo vederli, ma perché dobbiamo riempire il nostro tempo. Dobbiamo esserci, sapere, rispondere a tutti i commenti dei nostri amici, avere la battuta pronta su questa o quella serie, conoscere a menadito la faccia del nostro attore preferito in quella certa scena di quel determinato film, condividere meme. Conta esserci. Conta fare parte del gruppo, della bolla, degli appassionati.

Due anni di pandemia ci hanno mostrato l’importanza di andare piano, di rallentare e di vivere le cose con meno impulsività. Noi abbiamo fatto solo finta di capire. Siamo ripartiti a tutta velocità, convinti di aver perso del tempo preziosissimo e di dover recuperare. Non ne siamo usciti migliori, ma solo più affamati e ansiosi. Mentre tutti si disperavano per la crisi del cinema e delle sale, per lo streaming che oramai è ovunque ed è diventato un’estensione stessa della nostra vita, qualcuno ha provato a cambiare e a fare un passo indietro. 

MUBI ha scelto una strada diversa. Distribuisce solo un certo cinema e un certo tipo di – eccoci – contenuti. Ma curati e raccontati per bene. Un po’ social, un po’ enciclopedia e un po’ cineforum digitale. In Italia è ancora all’inizio: non ha film completamente suoi e ha stretto alcune collaborazioni con i distributori più piccoli. Resta, però, un inizio. Un suggerimento. Un’idea di quello che si può fare: scegliere e, senza insistere, invitare alla scelta. 

Lo streaming non è uno spazio definito o definibile; non ha quattro lati, dei confini, pareti impossibili da superare. Il problema non è sfruttarlo troppo; il problema è riuscire ancora a coinvolgere le persone. Si sta creando una distanza sempre più ampia tra chi fa e chi guarda, tra tutti quelli che scrivono, dirigono e immagino, e quelli che, semplicemente, vogliono ascoltare. Cliccare su play sta diventando una sfida: non un piacere. E in un certo senso, per le sale, questa può essere una buona notizia: perché loro non hanno mai smesso di programmare e di mettere ordine tra uscite e rassegne. 

Terzo punto. Non tutti possono permettersi questi abbonamenti; non tutti hanno così tanti soldi, e così tanta voglia, ogni mese, di rinnovare, sottoscrivere e accettare. Il pubblico è sempre lo stesso, ma le sue risorse sono diminuite. Si può puntare su un altro tipo di spettatori, è vero: quello ricco. Ma in un mercato come questo, di massa, diventa difficilissimo riuscire a guadagnare abbastanza per rimanere online. È fondamentale, allora, trovare un compromesso. Ed è fondamentale soprattutto selezionare.

Non si può produrre ogni cosa, e non si può sperare di controllare il settore saturandolo. Il ragionamento di certi editori, che stampano libri con il solo obiettivo di riempire gli scaffali per impedire alla competizione di fare lo stesso, non funziona con lo streaming. C’è stato un tempo in cui i progetti venivano seguiti con più attenzione: e alcune realtà continuano a farlo. Ma oggi, dopo che Netflix ha mostrato al mondo intero le potenzialità del mercato, e dopo che Disney ha deciso di portare alcuni dei suoi franchise più famosi sul piccolo schermo, non ci sono più limiti. O controlli. Spesso si produce perché bisogna produrre. Perché dimostrare di esserci è molto più importante di esserci con uno scopo e un senso.

È la guerra del contenuti, l’abbiamo già detto. E i contenuti non si possono arginare. Non ci sono etichette, tag o elenchi sufficienti; non ci sono raccomandazioni, algoritmi o numeri capaci di ordinarli e di fare una scelta tra qualità e quantità. I contenuti coincidono con il tempo che occupano, non con le persone che li hanno creati. Le controindicazioni sono molteplici, e i primi effetti collaterali già si vedono. La pirateria, per esempio, non è stata sconfitta, ma in alcuni mercati, e in alcune situazioni, è tornata ad aumentare. E la gente che si è disiscritta non è più disposta ad ascoltare. Dice basta, e a volte lo dice in modo definitivo. Forse è il caso di provare a rimettere al centro le idee e i creativi, e le persone e i loro interessi. Non è il pubblico che deve decidere, no. Ma il pubblico resta comunque il punto d’arrivo: e tenere d’occhio l’orizzonte, quando si sta seguendo una strada, può tornare sempre utile. Almeno, per non finire in un fosso. 


gianmaria tammaro, Nato a Napoli il 24 ottobre 1991. Giornalista pubblicista. Scrive di cinema, tv, letteratura e fumetti.

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