Cos’è il mondo che si desidera raccontare e chi è questo io che desidera raccontarlo e farsi attraversare da esso?
IN COPERTINA un’opera da “livro de la menscalcia de le cavalli”
Strana notte, quando udirai la voce ben nota
Rumi
Vicino e lontano
C’è un respiro profondo prima di ogni balzo, noto a ogni scrittore con la testa tra le mani a fissare la pagina tanto bianca e vuota da essere nera, nella fatica di imprimere un moto di ascesa a quanto è così facile resti immobile, e forse sarebbe meglio raccogliersi a feto sotto la finestra e posarsi pure noi sul fondo, e la gloria di Dio è sì una consolazione, talvolta, nell’abbandono completo delle opere e della vita, come sentirsi guardati di là dal mare attraverso i vetri di una finestra, eppure ogni movimento esclude gli altri e rende più difficile i successivi perché le scorte son quelle che sono e comunque bisogna andare avanti, è così che fa la prosa mentre la poesia non va da nessuna parte. Le menti degli uomini sono cieche a muoversi in cerca della saggezza sul tramite lungo, senza gli dèi a ispirarli, constatava già Pindaro. Ispirare, espirare. Accogliere, restituire. Questo mio intervento su letteratura e metafisica oggi è più problematico che assertivo, desideroso di provare a fissare per come può una dinamica che ci è appunto remota come costellazioni e prossima come la giugulare e il respiro.
Occhi e viso
La poesia è una soglia sempre ambigua. Le possibilità di interpretazione di un grande verso sono molteplici. La Commedia di Dante nei suoi momenti fondamentali lo conosce ed esprime da par suo, sfuma sempre e lascia al lettore la sua libertà di interpretazione. Quel giorno più non vi leggemmo avante significa che Paolo e Francesca smisero di leggere perché fecero l’amore o perché furono scoperti a baciarsi e uccisi? Più che il dolor potè il digiuno vuol dire che Ugolino morì infine per la fame e non per il cuore spezzato dalla follia e dal lutto o che non seppe resistere e divorò i figli morti? Anche il culmine del Paradiso conosce un passaggio simile. Allo scorgere i lineamenti umani di Cristo nel cuore della perfezione matematica dei cerchi trinitari di Dio, Dante aggiunge Perché ‘l mio viso in lui tutti era messo. Certamente nell’italiano medievale viso va letto come sguardo che si affissa in attenzione totale, ma è impossibile non cogliere un possibile travalicamento semantico. È vero anche il contrario. Se guardi intensamente un volto umano, al centro della pupilla dell’latro è la tua stessa faccia che puoi scorgere. Dante vede Dio e vede sé stesso in Lui.
Tu-ed-io
-->Il titolo di questo dibattito sulla metafisica oggi viene da un saggio di T. S. Eliot e da principio avevo pensato e proposto che ognuno dei partecipanti tessesse “l’elogio” di una divinità alla quale ci sentiamo legati nel nostro corpo a corpo con la scrittura oggi. In tal caso la mia lealtà va sempre ad Atena Occhi Azzurri, la dea del passo stabile e costante, il cui sguardo trasforma la mischia umana di polvere e sangue e urla in limpide geometrie comprensibili. Lei che, in un reverso della vignetta sull’uomo preistorico che trascina la femmina nella grotta, invisibile afferra Achille per i capelli nel mezzo dell’azione, con la velocità di un fiammifero sfregato, e gli sussurra i suoi consigli. Più ancora, lei che negli scambi con Ulisse usa il duale, il verbo della squadra, del tu-ed-io. “Sorrise, lo accarezzò con la mano.” Un lampeggio ironico degli occhi, la grande editrice o produttrice che porta lo scrittore squattrinato e di genio a cenare in cima a un grattacielo di lusso, sinceramente divertita, a suo modo sedotta dal mortale “ridicolo e bravo”, nelle parole di Pavese. “Vediamo qual è il metodo migliore…Sedutisi ai piedi sacro ulivo, meditavano entrambi la fine per i pretendenti oltraggiosi.” Tuttavia, come spesso succede, la riflessione su un mantra o mandala apre a una contemplazione più vasta, e tali mie riflessioni vi offro. Questo dibattito su metafisica e letteratura ha una lunga storia locale, a Firenze, dal primo dibattito sullo “sconcertante italico” a quello su morte e narrativa, e credo di aver già ricordato proprio qui in questa o quella occasione un memento salutare di Thomas Mann: “La gioia che un sistema metafisico ci offre, la soddisfazione che deriva dal vedere il mondo spiritualmente costruito sulle base del pensiero, sono sempre di carattere soprattutto estetico.” A un certo livello il nostro assenso va a ciò che innesca tale corrispondenza e sottoscrizione, che si tratti del canto angelico dei Ainur di Tolkien o le risate idiote di Azathot di Lovecraft, la Ginestra di leopardi o il Vuoto di Nagarjuna riproposto da Carlo Rovelli in “Helgoland”. Quale assenso dare oggi, dunque, e a cosa, nello scrivere? Come notava Olga Tocarzuck “il nostro problema sta – sembra – nel fatto che non abbiamo ancora narrazioni pronte non solo per il futuro, ma nemmeno per l’oggi concreto, per le trasformazioni ultrarapide del mondo di oggi. Manca il linguaggio, mancano i punti di vista, le metafore, i miti e le nuove favole. Eppure, assistiamo a frequenti tentativi di imbrigliare in immaginari del futuro narrazioni arrugginite e anacronistiche che non possono adattarsi al futuro, senza dubbio partendo dal presupposto che un vecchio qualcosa è meglio di un nuovo niente, o cercando in questo modo di affrontare i limiti dei nostri stessi orizzonti. In una parola, ci mancano nuovi modi di raccontare il mondo. Viviamo in una realtà di narrazioni polifoniche in prima persona e siamo accolti da ogni parte da un rumore polifonico”. In tutto questo, come già notava Giovanni della Croce, la nostra attenzione concreta si affissa su “discorsi stravaganti piuttosto che razionali”, cerchi o punti precisi e ineffabili, infiniti, come nella tradizione medievale e non i quadrati che da sempre hanno rappresentato la conoscenza schematica, suddivisibile, catalogabile. Citando i versi di Kate Tempest “Siamo ancora mitici. Ancora perennemente intrappolati tra l’eroico e il patetico. Siamo ancora divini; è questo che ci rende così mostruosi. Ma l’impressione è che ci siamo dimenticati di essere ben più che la somma di tutte le cose che possediamo.” Anche Nicola LaGioia, in un dialogo pubblico con Federico Di Vita, ha recentemente dichiarato che sempre meno avverte come scrittore la necessità di affermare qualcosa rispetto all’esigenza di farsi attraversare da qualcosa o qualcuno.
Ma in ogni caso la domanda resta, cos’è il mondo che si desidera raccontare e chi è questo io che desidera raccontarlo e farsi attraversare da esso?
Nirvana e samsara
Le grandi opere a posteriori sono tanto particolari quanto universali. Guardiamo Antonioni o Michelangelo, ascoltiamo Beethoven e abbiamo un sentore inesorabile, sovrapersonale di verità. Siamo nel mezzo di una verità, direbbe Montale. Eppure, quanto samsara ha chiesto questo nirvana, quanta lotta e tuffo nelle proprie singolari emozioni più ritorte e convulse per questo ordine incantato e stranamente risposante, come sospirava lo scrittore Steiner nella Dolce Vita. La distanza classica dei capolavori del passato, nasconde talvolta questo processo, spazza via le tracce nella neve che pare così immacolata, il cui miracolo torna a spiccare quando invece ci esponiamo a una nuova opera d’arte compiuta, che oggi ci porta egli estremi confini del linguaggio e dell’esperienza, basti pensare in geografie opposte appunto a Tocarzuck o McCarthy. In tutto questo come si pone la questione metafisica? In un mondo dove le religioni tradizionali nella società delle comunicazioni di massa sono ridotte ai megapartiti e la narrazione stessa è vittima di quel filtro pornografico che è la metanarrazione social?
Mormorio notturno
Per qualche tempo e in determinate latitudini culturali ha dominato una vulgata che oggi risulta perlopiù superata, sintetizzata da critici come James Wood per cui il romanzo sarebbe il definitivo “sterminatore di religioni”, facendo eco al Lucakcs che a sua volta definiva la letteratura contemporanea l’epica di un mondo abbandonato da Dio. Nel contrasto agli inizi del nuovo millennio tra la chiamata alle armi neocon per vivere “come se Dio esistesse” (la proposta di Ratzinger al mondo della cultura) scrittori come McEwan hanno ribadito che il romanzo è invece figlio dell’illuminismo e dello scetticismo. Eppure, lo stesso McEwan ha spesso specificato che compito stesso della narrativa è che “the penetration into other consciousnesses lies at the heart of its moral quest”. Cerca, moralità, coscienza individuale e altrui. Proprio lo sprofondare in questi campi continua a far emergere che siamo composti “per dieci per cento di biologia e novanta per cento di mormorio notturno”, nelle parole del Passeggero di McCarthy, e il suo refrain che l’inconscio è più antico del linguaggio razionale, e sempre operante. Inquietudine, eccedenza, sconfinamento permangono, dentro e oltre i luccicanti giocattoli che sono diventati sempre più le protesi della nostra vita emotiva. Per questo non solo la vecchia contrapposizione tra immaginazione e realismo, ma anche quella tra questi due schieramenti e la nuova-vecchia bandiera della “visione” (cui taluni si rifanno guardando a nomi come Cartarescu o la stessa Tocarzuck) sono più utili a intercettare tensioni e lieviti che a circoscrivere campi e schieramenti, perché il termine stesso visione non può contrapporsi a Flaubert o Tolkien e semmai approfondisce una dinamica soggiacente a tutta l’esperienza artistica. Cosa sono l’io e la realtà? Come si attua “l’eco del completo ordine del mondo in un essere unico e irripetibile”? Nei versi di Pessoa: “Tu dici, vivi nel presente;/Vivi solo nel presente. /Ma io non voglio il presente, voglio la realtà:/Voglio le cose che esistono, non il tempo/Che le misura.” Cosa vuol dire creare? Chi crea una storia e perché? Cosa c’entra, se c’entra, credere in qualcosa più grande di noi, e come e perché?
Le non parventi
Fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi. Così Dante definisce la fede. Sostanza di una speranza e dimostrazione. Argomentazione, nel senso di prova fondata nell’esperienza concreta. Questa è a mio giudizio anche gran parte della sfida della narrativa oggi: cosa vuol dire esprimere l’invisibile in una società che ha fatto del visibile il suo marchio, come già notava Benjamin studiando le riflessioni di Baudelaire sulle vetrine di Parigi? Come notava Calasso in un passaggio che val la pena citare estesamente “si impone allora una domanda: come può qualcuno oggi sfuggire a questa variante della magia nera? Come può un soggetto della società secolare, addestrato a ignorare l’invisibile, tornare a riconoscerlo? In quale forma? Che cosa gli accadrà, se non vorrà imporsi un credo, come invece avviene nel caso delle penose sette occidentali, che si dichiarano indù o buddhiste o sciite o genericamente sciamaniche? Gioco risibile, che rientra nelle varie opportunità offerte dalla società secolare e marchiate dal suo sigillo. La disponibilità e l’accessibilità di tutte le credenze del passato è appunto uno dei caratteri dell’èra che una volta chiamavo post-storica. Ma, se si esclude quella via inevitabilmente parodistica, quale altra possibilità rimane? Dovrà il soggetto secolare appagarsi della cancellazione dell’invisibile, che ormai è diventata il presupposto della vita comune? È questo lo spartiacque. Se l’essenziale non è il credere ma il conoscere, come presuppone ogni gnosi, si tratterà di aprirsi una via nell’oscurità, usando ogni mezzo, in una sorta di incessante bricolage della conoscenza, senza avere alcuna certezza su un punto d’inizio e senza neppure figurarsi un punto d’arrivo. È questa la condizione, insieme misera e esaltante, in cui si trova a vivere chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione – o, più precisamente, superstizione – della società. È una via difficile, senza nome, senza punti di riferimento che non siano cifrati e strettamente personali. Ma è anche una via dove si incontra il soccorso imprevisto di voci affini, come in una costellazione clandestina.”
Il teatro del mondo
Un disegno che possiamo tracciare tra queste costellazioni è, per quanto mi riguarda, un’intuizione che percorre intuizioni trasversali, da oriente a occidente. Quest’ultimo, nei grandi passaggi di autocoscienza che sono stati scanditi dalla Poetica di Aristotele, l’allegorismo medievale e rinascimentale e il primato dell’immaginazione che dal Romanticismo approda all’inconscio collettivo di Jung, ha visto sempre riaffiorare l’immagine metaletteraria del gran teatro del mondo, della vita stessa come spettacolo drammaturgico. È la medesima intuizione sottesa al concetto induista e buddista del velo di Maya, la cui traduzione come “Illusione” deve sempre comprendere la radice latina di ludus, non mera apparenza ma spettacolo, magia, incanto. Il mondo come primo spettacolo narrativo. Zeus nell’Iliade “dall’alto mai distoglieva gli occhi dalla battaglia rumoreggiante”; per Platone la vita dell’uomo è “laborioso gioco…e questo è il meglio che ci sia in lui”; l’esperienza dell’atto gratuito dell’arte e della musica, unico gesto fisico in cui “non si va da nessuna parte”, elettricità incarnata come nei versi di Les Murray. “Ecco uno spettacolo degno che un dio immerso nella sua opera lo guardi, ecco qualcosa pari a un dio: un uomo forte in lotta con un cattivo destino” scriveva a sua volta Seneca. Il Cinquecento, epoca di crisi come la nostra, lo conobbe ed espresse molto bene, nei versi di Tasso: E mirò (benchè lunge) il fier Soldano,/ Mirò (quasi in teatro, od in agone)/L’aspra tragedia dello stato umano:/ I vari assalti, e ’l fero orror di morte,/E i gran giochi del caso e della sorte.” È lo stesso spettacolo offerto dalle guerre del Mahabharata, narrato da Srila Vyasadeva, l’avatara-scrittore di tutti gli scrittori. Nell’Iliade un poeta cieco racconta la guerra ai suoi uditori, nell’India un veggente dalla vista acutissima narra il campo di battaglia a un sovrano cieco. Due facce della stessa medaglia. E come Solimano in Tasso anche Arjuna trema per quanto vede: tan samiksya sa kaunteyah sarvan bandhun avasthitan kripaya parayavisto visidann idam abravit… Vedendo davanti a sé tutti coloro a cui è unito da legami d’amicizia o di parentela, Arjuna, il figlio di Kunti, è preso da una grande compassione e si rivolge al Signore. Non vedo che cosa possa portare di buono l’uccisione dei miei parenti in questa battaglia; mio caro Krishna, non potrei neppure desiderare un’eventuale vittoria, il regno o la felicità. La stessa domanda di Amleto, altro principe incerto, dubbioso, gravato da un incarico soprannaturale. The play is the thing, sentenzia. Maya è la cosa. La stessa incertezza di Inferno II, non a caso in exergo del Doktor Faust di Mann e, tramite esso, del romanzo contemporaneo: Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno/ toglieva li animai che sono in terra/ da le fatiche loro; e io sol uno/ m’apparecchiava a sostener la guerra/sì del cammino e sì de la pietate, /che ritrarrà la mente che non erra. / O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;/o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate. La guerra del cammino e della pietà, definizione della coscienza che si isola dal riposo individuale e della scrittura medesima, la trasposizione, la traduzione del flusso delle esperienze. La scoperta per tutti, Arjuna, Krishna, Dante è quella dell’atto gratuito, che preceda abbracci e superi le motivazioni individuali e soggettive. Let be, risponde Amleto alla fine del dramma alla sua stessa domanda “To be or not to be?”
Ecco che l’immagine dell’agone teatrale della vita individuale e collettiva, ne introduce un’altra, quella della scrittura come contemplazione.
Il vuoto in scena
“Sarei considerato un tipo bizzarro se, in conclusione, suggerissi che proprio la tensione interna al cuore di ogni storia tra il tema e la trama costituisce dopo tutto la sua somiglianza principale con la vita? E se le storie falliscono la vita non commette lo stesso errore? Nella vita reale qualcosa deve succedere, come nelle storie. È questo il problema. Noi miriamo a uno stato e troviamo solo una successione di eventi nei quali quello stato non si incarna mai del tutto. Tutto quello che succede può̀ essere piacevole: ma può̀ mai una serie del genere incarnare quell’autentico stato dell’essere che desideriamo?” si domandava C. S. Lewis con chiarezza che non ho mai rintracciato altrove. “Nell’arte come nella vita mi pare che cerchiamo sempre di prendere nella nostra rete di momenti successivi qualcosa che successivo non è.” La dimensione contemplativa della scrittura e della lettura aiuta a mettere a fuoco questa tensione sottesa, così come il concetto stesso di persona che, non a caso, viene dall’antica maschera teatrale, dall’identità cangiante delle proprie possibili funzioni. Nello scrivere, noi siamo l’attore in scena, ma anche gli altri personaggi, e il regista e il pubblico e lo scrittore del dramma, il vuoto tra di essi e le assi del palco, soprattutto il vuoto, l’aria che vibra investita dalle parole. “La commedia ci trasferisce in uno stato superiore, la tragedia in una attività superiore” sintetizzava Schiller fondando il Romanticismo. Stato o attività che sia, estasi o dolore trasformatore.
Ricordati di me
Eccoci tornare al punto di partenza, ad Atena, ma potremmo scegliere qualsiasi altro personaggio letto o inventato, alla scrittura, lettura o traduzione come Bakthi, devozione: spazio e tempo e sangue e mente e attenzione dedicate a qualcun Altro, o a quel nostro stesso Io-Mondo che si può cogliere solo in un Tu. Nei Veda si riserva al dio una porzione di energia, che il dio stesso gira a sua volta al devoto. Come nel Srìmad Bhagayatam bengalese: «E puro l’amante di Dio, il suo cuore si fonde nella gioia e si eleva alla consapevolezza trascendente mercé l’accendersi delle emozioni, gli si rizzano allora i peli, si scorda di sé medesimo e delle circostanze, ride, canta, balla». Ancora una volta ciò si riflette nello sconcerto di Amleto dinanzi al capocomico che piange per Ecuba man mano che recita il suo monologo: Non è mostruoso/
che un attore, soltanto per finzione, / nient’altro che in un sogno di passione, /possa piegare l’anima a un concetto, /così che, per effetto di quel sogno,/il volto gli si copra di pallore;/occhi in lacrime, aspetto stralunato,/voce rotta, e l’intero suo gestire/in perfetta aderenza a quel concetto?/E tutto ciò per nulla!… Per Ecuba! /Che cos’è Ecuba per lui, e lui per Ecuba, / perch’egli possa piangere così?” È sempre lo stesso scambio misterioso. Ricordati di me, dice il padre fantasma ad Amleto. Ricordati di me e combatti dice Krishna ad Arjuna. Ricordati di me e scrivi. Il Sé universale ricordato dall’io singolo. Per quanto mi riguarda, anche per questo, se si tratta di assenzi estetici nella loro accezione più profonda, ho sempre preferito la vicenda di Cristo o Buddha alla sintesi dei loro insegnamenti o meglio ancora alle dottrine che si sono fatte derivare da loro. La veglia sudando sangue nel giardino notturno dell’abbandono, la mano che indica la terra sotto l’albero dell’illuminazione. Perché noi siamo redenti da una storia commovente che ci cambia come l’acqua in mare, semplicemente standoci dentro. Mitopatici come diceva Tolkien e più di recente Kate Tempest.
Il mio viso in lui tutto era messo
Le Muse ispirano, si continua ad echeggiare nel parlare comune. Il respiro. Si accoglie qualcosa e lo si restituisce. Qui le strade si biforcano, forse per ricongiungersi in cima o forse no. Cosa vuol dire la scoperta di Dante citata in apertura, che a sua volta si sovrappone a quella della madre di Krishna che nella bocca spalancata del suo bambino vide l’intero universo e sé stessa che si fissava di rimando? In questo spazio di accoglienza e restituzione, qual è l’apporto e quale l’approdo dell’io che accoglie, che legge e a sua volta scrive? Molte personalità culturali rispondono in modo diverso, richiamandosi o meno a una lettura metafisica del cosmo stesso e della nostra coscienza al suo interno. Francamente lo ignoro. Tuttavia, questo spazio di attenzione e devozione è qualcosa in cui io avverto primariamente il bisogno di stare. Perché è vero, qualunque cosa ciò voglia dire, che “la follia che viene dalle ninfe è migliore della saggezza umana”, come constatava già Socrate in Platone, che l’eccedenza del mondo ci trasmette qualcosa di indicibile, forse, e caro. Un verso letto in solitudine, di cui non vuoi neppure parlare e che ti tiene sulle ginocchia mentre fai altre cose, esci, cammini. Un corpo nel quale sentirsi a nostro agio, il dolore svenduto a nominarlo e che invece a tenerselo stretto e muto è benedizione. O come nelle parole di Cristo: chi perde la sua vita la trova.
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