Il fascino delle analogie può essere potente quanto fertile, anche nel mondo della matematica. Per capirlo basta un aneddoto familiare, quello tra Simone Weil e suo fratello, il matematico André Weil
IN COPERTINA e nel testo opere di jules olitski
Questo testo è un estratto da Pillole matematiche di Piergiorgio Odifreddi, ringraziamo Raffaello Cortina Editore per la gentile concessione.
di Piergiorgio Odifreddi
In una lettera del 26 marzo 1940, pubblicata nel libretto La fredda bellezza, il famoso matematico André Weil provò a raccontare a sua sorella, l’altrettanto famosa filosofa Simone Weil, qualcosa del proprio lavoro, avvertendola: “Ti sembrerà forse di comprenderne l’inizio, ma non capirai nulla di quanto segue”. In effetti parlava di argomenti tecnici, ma almeno un pensiero centrale riuscì a convogliarlo in parole semplici: il ruolo dell’analogia nella scoperta matematica, grazie alla quale cose diverse a un livello concreto vengono viste come manifestazioni di una stessa cosa a un livello astratto.
Nella relazione Dalla matematica alla metafisica, tenuta a un convegno del 1960 e contenuta anch’essa nel libretto citato, Weil ripeté:
Come sanno tutti i matematici, nulla è più fecondo di queste oscure analogie, questi indistinti riflessi tra una teoria e un’altra, queste certezze furtive, queste indecifrabili foschie, e nulla dà maggior piacere allo studioso. Poi, un giorno, l’illusione svanisce, il presentimento diventa certezza, le teorie gemelle rivelano la loro origine comune prima di svanire. Come insegna la Bhagavad Gita, si giunge alla conoscenza e all’indifferenza allo stesso tempo. La metafisica è diventata matematica, pronta a formare la materia di un trattato la cui fredda bellezza non saprà più emozionarci.
Alla sorella spiegava così l’utilità di questo procedimento:
La matematica moderna ha assunto un’estensione e una complessità tali che è diventato urgente, se la matematica deve continuare ad esistere e non vuole dissolversi in un ammasso di piccoli ambiti di ricerca, portare a termine un enorme lavoro di unificazione che assorba in alcune teorie semplici e generali tutto il substrato comune di diverse branche della scienza, sopprima le cose inutili e lasci intatto ciò che costituisce effettivamente l’aspetto specifico di ogni grande problema.
Queste righe riassumono il programma di lavoro che André Weil aveva iniziato a portare avanti proprio in quegli anni, insieme agli altri membri del misterioso e clandestino gruppo Bourbaki, per la rifondazione della matematica sulla base del concetto di struttura. Le “teorie semplici e generali” che aveva in mente erano dunque quelle insiemistiche, algebriche, topologiche e analitiche in seguito descritte nei molti volumi degli Elementi di matematica del gruppo, usciti a partire dal 1939.
-->Poiché scriveva alla sorella durante la Seconda guerra mondiale, venne spontaneo a Weil di proporre un’analogia militare:
In tutto ciò ci sono dei grandi problemi di strategia. Ed è tanto comune conoscere la tattica quanto è raro comprendere la strategia. Paragonerei dunque, malgrado l’incoerenza delle metafore, questi grandi edifici assiomatici alle comunicazioni nelle retrovie: non si è mai ottenuta molta gloria negli uffici dell’amministrazione, né nei convogli di equipaggiamento, ma cosa si farebbe se molta brava gente non si consacrasse a questi bisogni subalterni? Il rischio è che i diversi fronti finiscano per ignorarsi reciprocamente, come gli ebrei nel deserto, o per perdere tempo, come Annibale a Capua.
Naturalmente i fronti aperti della matematica si dispiegano non soltanto nello spazio, ma anche nel tempo. E il punto di vista privilegiato per osservare il divenire delle analogie, che nel corso del tempo divengono teoremi e teorie, è la storia della matematica stessa. Un’impresa nella quale André Weil, come racconta sua figlia Sylvie in Casa Weil, “aveva deciso di riciclarsi negli ultimi decenni della sua vita, invece di deprimersi come certi suoi vecchi colleghi, che si ostinavano a fare matematica con un cervello diventato meno duttile”. In questo caso il risultato fu la grande Teoria dei numeri, che spazia dal Seicento di Fermat all’Ottocento di Legendre, ed è considerata un imperituro capolavoro.
Lo spirito che anima il libro era già stato anticipato da André Weil in un’altra lettera alla sorella, del 29 febbraio 1940:
La matematica non è altro che un’arte, una specie di scultura in un materiale estremamente duro e resistente, come certi porfidi usati a volte dagli scultori. Il matematico è talmente sottomesso al filo e al controfilo, alle curvature e alle imperfezioni della materia lavorata, che questo conferisce alla sua opera una forma di oggettività. Si produce in tal modo un’opera d’arte, ma mentre la critica dell’arte è un genere vano e vuoto, la sua storia è forse possibile. Per quanto ne so, però, non si è mai fatta la storia della matematica in questo modo.
Fino al suo libro, appunto, che esemplifica al meglio un modo di raccontare la storia della matematica che rifugge dalle scorciatoie del gossip o dell’aneddotica sui protagonisti, per perseguire invece la strada maestra della ricostruzione dei loro percorsi intellettuali.
0 comments on “La matematica è un’arte: un dialogo tra André e Simone Weil.”