Meditare, cercare la felicità, il significato e – in ultima analisi – l’amore. Questi i temi degli ultimi scritti di un gigante del pensiero come Albert Hofmann.
IN COPERTINA e nel testo un’opera di Damien hirst. oggi all’asta da pananti casa d’aste.
Questo testo è un estratto da “Lo scienziato divino. Le ultime riflessioni del padre dell’LSD“, di Albert Hofmann, ringraziamo Piano B per la gentile concessione.
di Albert Hofmann
La parola meditazione è definita nel Dizionario filosofico di Kröner come «contemplazione, riflessione, osservazione in senso filosofico e metafisico. In senso religioso-mistico la meditazione viene vissuta come un’immersione, come mezzo della più profonda comprensione».
Ma su cosa riflettiamo, ragioniamo e osserviamo? Che cosa vogliamo conoscere in modo più profondo? Sono i contenuti della nostra coscienza, che sono tutti, in ultima analisi, raccolti attraverso la percezione sensoriale. La percezione sensoriale precede la meditazione.
Perché meditiamo? A che scopo? Deve esserci uno scopo e deve avere un significato, altrimenti nessuno lo farebbe. Potremmo dire che con la meditazione cerchiamo nuovi aspetti, o nuove profondità, della realtà, oppure che si tenta di conoscere meglio se stessi, o che si cerca di comprendere il significato di un’esperienza particolare. Esistono infiniti fenomeni, concreti e astratti, che possono essere oggetto di meditazione: ma esiste anche un denominatore comune che comprende tutti i diversi modi e obiettivi della meditazione? Che cosa troviamo alla base di tutta questa ricerca attraverso la meditazione?
Mentre riflettevo su questa domanda, in vista del mio intervento alla conferenza di oggi, ho ricevuto una richiesta da parte della direzione dei Simposi di Psicoterapia di Basilea di quest’anno, che mi chiedevano se fossi disposto a tenere il discorso inaugurale. Ho accettato, perché il congresso era dedicato al tema “La ricerca della felicità e del significato”. Dopotutto, la ricerca della felicità e del significato non è solo un obiettivo degli psicoterapeuti, ma anche dei chimici. È, forse, la questione principale di tutti gli esseri umani.
Con ciò ho avuto anche la risposta alla mia domanda iniziale: «Che cosa ricerchiamo davvero con la meditazione?». È la ricerca della felicità e del significato.
Si è trattato di un tipico caso di sincronicità: due cause non collegate tra loro hanno portato a un evento completo e significativo.
-->“Meditazione e percezione sensoriale” e “ricerca della felicità e del significato” contengono gli stessi temi fondamentali.
Se intendiamo “ricerca del significato” in senso lato, cioè il significato nel suo senso più ampio – cioè la ricerca del senso della vita umana – allora possiamo già chiarire questo senso.
Fondamentalmente, tutte le grandi religioni e filosofie nascono come ricerca del significato della creazione e della nostra esistenza umana, offrendo una risposta all’onnicomprensivo interrogativo esistenziale.
Anche se le risposte fornite variano molto l’una dall’altra, ognuna di esse contiene una promessa di felicità: la felicità dell’anima eterna nel paradiso cristiano; la felicità dei piaceri sensuali nel paradiso dell’Islam; o la felicità terrena degli epicurei.
Più di duemila anni fa, all’inizio della sua Etica Nicomachea, Aristotele pose la domanda: «Che cosa cercano gli uomini?». E scoprì che la loro più alta ambizione e il loro obiettivo ultimo è la felicità.
Tommaso d’Aquino arrivò alla stessa risposta quando considerò la questione dello scopo dell’esistenza umana, che formulò con la celebre frase: «Ultima ratio vitae humanae beatitudo est» – il senso ultimo della vita umana è la felicità.
Quando arriviamo ai filosofi dell’epoca moderna vediamo che anche il loro lavoro riguarda in ultima analisi la ricerca della felicità e del significato. Per citare solo uno dei filosofi moderni, Ludwig Marcuse, che nell’introduzione al suo La filosofia della felicità arriva alla seguente conclusione: «Chi nega a se stesso la felicità, non soddisfa la ragione del suo esistere».
Ciò che i fondatori delle religioni e i filosofi dissero sul significato ultimo della nostra esistenza – cioè che il significato e l’obiettivo ultimo della vita è la felicità – deve essere vero. Anche perché nessuno potrebbe sostenere il contrario, cioè che nell’infelicità sta il significato della nostra esistenza.
Che cos’è la felicità? I filosofi ne discutevano fin dall’antichità, e la discussione è destinata a continuare. Si scrivono libri e si organizzano conferenze per tentare di rispondere a questa domanda, ma la ricerca della felicità continua.
Ci sono due campi in cui gli esseri umani cercano la felicità, nell’ambito dell’essere o in quello dell’avere, cioè nella sfera spirituale o materiale.
Al giorno d’oggi, soprattutto nel mondo occidentale, la felicità viene ricercata in modo frenetico nel campo della materia – ma con esiti variabili. Da un lato ci sono sempre più ricchi e super ricchi, ma quasi mai persone più felici; dall’altro lato ci sono sempre più persone povere, che vivono addirittura nella miseria, e che in genere sono estremamente infelici.
Nell’ultimo libro di Aldous Huxley, L’isola, il saggio regnante di quest’isola felice e utopica stabilisce una norma per impedire l’accumulo di denaro e ricchezza, proibendo a ogni abitante di guadagnare più del triplo rispetto alla persona media. Huxley aveva previsto lo sviluppo catastrofico del mondo moderno.
Qual è lo scopo di accumulare denaro e potere da parte dei singoli individui o dei gruppi industriali che non hanno alcuna responsabilità nei confronti del bene pubblico? La responsabilità del benessere pubblico è dello Stato, ad esempio quando si tratta di assistere le persone disoccupate. Ma al contempo lo Stato non ha nessun potere sull’economia, dalla quale il bene della popolazione dipende in modo critico. Responsabilità e potere si sono allontanati l’uno dall’altro, e le conseguenze si preannunciano disastrose.
Nel contesto della ricerca di un significato e di uno scopo, val la pena considerare la differenza tra possesso – nel senso originario del termine – e proprietà. Questo potrebbe aiutarci a mettere a fuoco la drammatica assurdità degli sviluppi contemporanei.
Le parole nascono da un’esperienza immediata della realtà e si riferiscono ai fatti e alle attività di base della nostra esistenza. Quando la parola possesso fu usata nelle prime comunità umane, essa indicava semplicemente una cosa di uso personale, per esempio un cavallo che si cavalcava o una sedia su cui si sedeva.
Da allora le parole possesso e il verbo possedere hanno assunto un significato molto più ampio e simbolico.
In un periodo successivo entrò in uso il termine giuridico proprietà. Proprietà significa il riconoscimento giuridico e la protezione dei beni che si possiedono. Oggi questi due termini sono di solito usati come sinonimi e in modo intercambiabile. Ma che in origine significavano qualcosa di completamente diverso è evidente dal fatto che possesso ha un verbo transitivo correlato, possedere, mentre per la parola proprietà non esiste un verbo corrispondente.
Dall’introduzione del termine giuridico “proprietà” è diventato possibile avere più “possedimenti” di quelli che si possono effettivamente “possedere” nel senso originario del termine, cioè utilizzare personalmente. Con questa possibilità si è gettato il seme di una parte significativa della tragedia umana, che nasce dall’accumulo di denaro e potere.
Se questa differenza potesse essere resa chiara, se un maggior numero di persone si sforzasse di raggiungere il vero possesso più che la proprietà, allora molti sforzi infruttuosi, molti conflitti e infelicità scomparirebbero, e sarebbero sostituiti da una corrispondente equanimità, gioia e felicità.
Ma ritorniamo al tema: “La ricerca della felicità e del significato”.
Quando cerchiamo qualcosa, si dovrebbe sapere che cosa stiamo cercando. Tuttavia, la felicità non può essere definita scientificamente – la felicità è un fenomeno ultimo e non ulteriormente spiegabile. La felicità si può solo descrivere con una perifrasi, come una particolare condizione della coscienza umana. La felicità appartiene alla categoria dell’essere. Quindi non è qualcosa che possiamo avere. Ciò che cerchiamo nella ricerca della felicità in verità non è la felicità stessa, ma è piuttosto ciò che crediamo o speriamo che ci renda felici. In verità e in realtà, la ricerca della felicità è la ricerca di una fonte della felicità.
Quale possa o debba essere la fonte della felicità è stato oggetto di dibattito fin dall’antichità. Sant’Agostino menziona ben 288 diverse dottrine riguardanti la felicità documentate in un’enciclopedia romana. Per quanto riguarda le opinioni su cosa sia la felicità, o meglio, su cosa ci rende felici, vorrei citarne una di un filosofo della nostra epoca, Friedrich Nietzsche. Egli, che non fu felice, rifletté profondamente sulla natura dell’esistenza umana e sulla felicità, e a questo proposito scrisse: «La felicità degli esseri umani poggia sull’idea che esista una verità indiscutibile».
In passato, in tempi forse più felici, i dogmi delle Chiese erano considerati verità assolute. Oggi sono le scoperte delle scienze naturali ad essere considerate come verità indiscutibili, e queste hanno reso inverosimile la vecchia visione religiosa del mondo. Le scienze naturali dimostrano la loro verità grazie alla loro utilizzabilità a livello pratico. Esse costituiscono il fondamento sui cui si basano tutte le tecnologie e le industrie che hanno portato alla ricchezza materiale e al comfort del mondo occidentale. La visione scientifica e materialista del mondo è diventata il mito della nostra epoca.
Ma sebbene questa visione del mondo sia indiscutibile, comprende solo una metà della realtà, cioè solo quella parte che può essere misurata. Tutte le dimensioni invisibili dell’esistenza che non sono comprese dalla fisica e dalla chimica sono assenti nella visione scientifica e materialista del mondo, compresi gli attributi più significativi degli esseri umani. L’amore, la gioia, la bellezza, la creatività, l’etica e la moralità – ognuna di queste caratteristiche non può essere pesata né misurata, e sono perciò inesistenti nella visione del mondo materialista e scientifica del mondo.
Le verità e le realtà stabilite come indiscutibili grazie alla ricerca scientifica sono considerate come universalmente valide. La consapevolezza della natura trascendente e religiosa di queste verità, acquisita attraverso la meditazione e la contemplazione, potrebbe gettare le basi per una nuova spiritualità universale.
Le scienze naturali e l’esperienza mistica del mondo non sono in contraddizione; al contrario, sono complementari, si completano a vicenda per comprendere l’intera realtà e verità della nostra esistenza. Vorrei offrire due esempi a questo proposito.
Ogni organismo superiore – sia esso pianta, animale o uomo – inizia la sua vita come una singola cellula, come ovulo fecondato. Le più piccole unità del vivente, dalle quali si compongono tutti gli organismi, sono le cellule. La ricerca scientifica ha anche stabilito che le cellule vegetali, animali e umane non solo presentano una struttura simile, ma possiedono anche una stessa composizione chimica.
Queste conoscenze sono in armonia con l’esperienza mistica che coglie l’unità di tutte le forme di vita, dell’inclusione e della protezione dell’uomo nella creazione. Francesco d’Assisi vide la verità.
Un ulteriore esempio ci è offerto dal processo noto come fotosintesi clorofilliana. Con la luce come fonte cosmica di energia originaria e la clorofilla come catalizzatore, la pianta è in grado di produrre una sostanza organica – il nostro cibo – dall’acqua e dall’anidride carbonica. Nel processo digestivo umano, il cibo viene poi nuovamente scomposto in anidride carbonica e acqua, e la stessa quantità di energia – che era stata assorbita come luce durante la sintesi clorofilliana – viene rilasciata e messa a disposizione del corpo. Tutte le forme di vita sono costituite e mantenute con la luce come fonte di energia. Anche l’atto di pensare del cervello umano si nutre di questa fonte d’energia, cosicché lo spirito e la mente dell’uomo – la nostra coscienza – rappresenta il più alto e sublime livello di trasformazione energetica della luce. Noi siamo “esseri di luce” – e non si tratta solo di un’allusione all’“illuminazione” dell’esperienza mistica o al significato della luce in molte religioni, ma riflette anche un’intuizione di tipo scientifico.
La luce del sole non è solo la base bioenergetica di tutte le forme di vita sulla terra, ma anche il medium con il quale il creatore rende visibile alle sue creature le meraviglie della sua creazione.
Le scienze naturali hanno anche spiegato il meccanismo della nostra facoltà visiva. Hanno dimostrato che l’immagine del mondo variopinto, così come lo vediamo, non esiste nel mondo esterno; lo schermo è dentro di noi, nella nostra coscienza. Così, tutti gli esseri umani portano dentro di sé la propria immagine del mondo, creata da ciascuno di loro. Attraverso la vista, la percezione, noi ci impossessiamo del mondo. E nel senso esistenziale discusso poco sopra, noi possiamo entrare in possesso del mondo intero. Ma la maggior parte delle volte i nostri sensi – le nostre “porte della percezione” – sono ristretti e ottusi, e così perdiamo il possesso a noi destinato dal creatore.
È in alcuni momenti speciali, tuttavia, che riusciamo a vedere la verità e diventiamo consapevoli di tutto lo splendore e la nobiltà della Creazione, del nostro ruolo intrinseco nel suo divenire e morire nell’esistenza senza tempo. In quei momenti sperimentiamo ciò che gli illuminati hanno riconosciuto come lo scopo della nostra esistenza: la felicità.
Una tale conoscenza spontanea, gioiosa, è rara e sembra essere riservata a ben pochi uomini.
Ma la capacità dell’esperienza visionaria deve appartenere alla natura della mente umana, altrimenti nessuno sarebbe in grado di sperimentarla. Anche la relazione tra la felicità dell’adulto con la percezione infantile del mondo fa pensare che la capacità di grazia sia innata.
I bambini vivono ancora nel paradiso – «poiché loro è il regno dei cieli» – disse L’Illuminato.
I bambini vivono ancora nell’interezza dell’essere, il loro “Io”, nella coscienza, non si è ancora distaccato dal “Tu”, dal mondo esterno – nell’adulto quest’Io può sfociare nell’egoismo che conduce al senso di separazione, di spaesamento e insicurezza, con tutte le sfortunate conseguenze fatali per il destino dell’individuo.
La visione del mondo dualistica, titanica, ostinata, che vede e accetta come sola realtà ciò che è stato creato dall’uomo, è la causa principale dei problemi e delle crisi ecologiche, economiche, sociali e mentali di oggi, in tutto il mondo. Sarebbe inutile e stupido negare la realtà di tutto ciò che quotidianamente si vive e che si sente e si vede attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
Ma come già detto, questo rappresenta solo la metà della realtà. Ciò che quindi oggi è urgentemente necessario per cambiare è una visione libera, chiara e ampia, attraverso la quale possiamo tornare a essere consapevoli dell’interezza del mondo, della creazione e della nostra inclusione in essa.
Sono stati sviluppati vari metodi di meditazione come aiuto per raggiungere l’abilità dell’esperienza visionaria: yoga, digiuno, esercizi di respirazione, isolamento e così via. Uno particolarmente efficace per dare forma alla meditazione è l’utilizzo di sostanze enteogene, poiché l’effetto farmacologico di queste sostanze psicoattive provoca un enorme aumento delle percezioni sensoriali, soprattutto in termini di vista e udito, e un cambiamento della coscienza nel senso di una sensibilità espansa e accresciuta.
Poiché le altezze e le profondità dell’esistenza sono esperite a un livello di intensità sconosciuto durante una meditazione con le sostanze enteogene, c’è il pericolo che ciò che si sperimenta non riesca a integrare la coscienza “normale” in modo significativo.
Per questo motivo, la tradizione delle antiche culture prescrive l’utilizzo delle sostanze enteogene in un contesto religioso e cerimoniale. Così l’esperienza può diventare ciò che gli esseri umani hanno e intensamente cercato da tempo immemore: l’Unio mystica, e tutta la felicità che questa comporta.
Colui a cui, in un momento benedetto, si sono aperti gli occhi – esterni e interni – ha la capacità di riconoscere la meraviglia della Creazione anche nella sua coscienza quotidiana.
Gli antichi greci chiamavano la creazione kosmos, che significa “gioiello”. Il mondo non era ancora stato sporcato dall’uomo. Oggi viviamo il nostro mondo come gioiello solo da un punto di vista cosmico – un’immagine fornitaci dalla ricerca spaziale, il pianeta blu che brilla nella luce solare e fluttua nell’infinito dell’universo nel suo percorso prestabilito dall’inizio dei tempi.
Coloro che hanno gli occhi aperti riescono a vedere che, nonostante la devastazione, la vita primordiale esiste ancora sulla nostra meravigliosa astronave: il mondo segreto degli oceani, i continenti verdi, la bellezza delle sue meravigliose creazioni nel mondo vegetale e animale. Ma per la gran parte del tempo guardiamo questo mondo con occhi spenti e i sensi intorpiditi dall’abitudine, riconoscendo solo la parte creata dall’uomo e cercando in essa, come in un mandala fatto da noi stessi, la felicità e il significato.
Sarebbe meglio guardare nel calice di un fiore, che in quanto a perfezione e bellezza supera di mille volte qualsiasi cosa sia stata fatta dall’uomo, perché esso è colmo di vita; esso è pieno della stessa vita di colui che l’osserva; ed entrambi, chi osserva e chi è osservato, appaiono come manifestazioni dello stesso spirito creatore.
Per concludere vorrei fare ancora una breve riflessione sulla vista, che svolge un ruolo così importante nella nostra esperienza del mondo. Due citazioni a questo proposito:
Questa risale a sant’Agostino: «Tutta la nostra ricompensa è la vista»; mentre Goethe dichiarò: «Nati per vedere, chiamati a osservare».
Il vedere si sviluppa nell’osservare in tre fasi che possiamo distinguere.
Il primo stadio consiste nella semplice percezione di un oggetto, senza che questo risvegli il nostro interesse. Il secondo stadio consiste nel fatto che l’oggetto attira la nostra attenzione su se stesso.
Nel terzo stadio l’oggetto viene più attentamente osservato. È in questo momento che iniziano il pensiero e la ricerca scientifica.
Lo stadio più alto del vedere, della relazione generale con un oggetto e con il mondo esterno, si raggiunge quando il confine tra soggetto e oggetto, tra osservatore e osservato, tra me e il mondo esterno, viene consapevolmente annullato, quando divento un tutt’uno con il mondo e con la sua fonte spirituale primigenia. Questa è la condizione dell’amore.
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