In questo breve saggio “Metamorfosi: Una prognosi per il XXI secolo”, lo scrittore e filosofo Ernst Jünger immagina la spiritualità del secolo che stiamo vivendo.
In copertina, Gilgamesh, di Franco Battiato (Asta pananti in corso). nel testo delle opere di Giulio Romano (Sala dei Giganti, Palazzo del Tè, MantOVA, 1531-1536)
Questo testo è tratto da La grande madre, di Ernst Jünger. Ringraziamo Le Lettere per la gentile concessione.
di Ernst Jünger
Una persona che oggi parla ancora una volta degli dèi non si espone a delle obiezioni come accadeva, invece, nella prima metà del nostro secolo o fra le élite sin dall’epoca di Voltaire.
Sicuramente gli ultimi duecento anni rappresentano solo una minuscola parentesi, e forse solo uno iato, se li si paragonano ai tempi in cui demoni e dèi erano venerati. Certo, già prima di Luciano, sono sempre esistiti spiriti che si sono fatti beffe degli dèi, perlomeno di quelli adorati dagli altri popoli. Ma si trattava di un fenomeno isolato. Per Sant’Agostino gli dèi esistevano ancora, anche se egli attribuiva loro solo un carattere demoniaco o titanico. Il suo interrogativo circa il loro potere di creare o preservare un impero mondiale tocca il nocciolo della nostra situazione odierna. Se Nietzsche confronta tra loro Apollo e Dioniso ciò è qualcosa di più di una forma di simbolismo mitologico: egli fa riferimento a una sostanza di carattere mitico.
La parola “dio” gode ancora di un certo rispetto, anche se non viene più pronunciata o la lingua si attorciglia intorno ad essa in modo più o meno convincente. Si sente istintivamente, e lo si riconosce su un piano spirituale, che la realtà non si esaurisce nel nostro hic et nunc. Di qui il ricorso alla preghiera.
La sentenza di Nietzsche «Dio è morto» può significare solo che le conoscenze attuali non sono sufficienti. Inoltre, lo stesso Nietzsche incorre in una contraddizione teorizzando l’«eterno ritorno».
-->Ciò che è divino vive. Quando si fanno dei nomi, i più pensano a divinità precristiane o legate a luoghi precisi. I loro templi sono andati in rovina, e di molti dèi che un tempo vi furono venerati sono ignoti persino i nomi. Anche gli dèi sono, dunque, mortali, ma ciò non significa asserire qualcosa che ne neghi la realtà o l’essenza.
Anche gli dèi sono una nostra rappresentazione. Possiamo accostarci ad essi con sacrifici e preghiere, ma non possiamo oltrepassare la cortina che fa da sfondo alla loro apparizione: là essi restano una «cosa in sé». A causa del riconoscimento di tali limiti (La religione entro i limiti della sola ragione) Kant, a suo tempo, fu oggetto di un rimprovero ufficiale per aver «gettato discredito sul Cristianesimo e aver introdotto nuove, pericolose teorie» (secondo l’ordine emanato da Federico Guglielmo II nel 1794).
I culti si fondano sulla speranza che avvenga l’incontro con gli dèi; il loro compito consiste nel farne una certezza. Un culto esercita un’attrattiva tanto maggiore quanto più esso celebra con convinzione tale certezza tramite feste e opere d’arte. In una città che si avvicina a ciò che è eterno, l’opera d’arte dovrebbe divenire sacra e il Sacro dovrebbe tradursi in arte. Si tratta di un obiettivo irraggiungibile all’interno del tempo: ecco perché nella controversia riguardante le immagini si può giungere a un compromesso, ma non a un risultato. Nella città eterna non esistono templi poiché l’arte ha raggiunto quella bellezza senza tempo a cui aspira senza posa e senza successo. Dobbiamo accontentarci di ciò che ci viene offerto come la vecchietta che venera come una reliquia un minuscolo osso.
In ogni caso ciò che è senza tempo [das Zeitlose] non ci è estraneo. Proveniamo da esso e andiamo verso di esso: ci accompagna lungo il viaggio come il solo bagaglio che non può andare smarrito. Getta su di noi la sua ombra quando soffriamo e ci dona la vita quando ci tocca la sua luce.
Debbo la parola “metamorfosi” [Gestaltwandel] a Leopold Ziegler, come pure gli debbo una conversazione sul Lavoratore che ebbe luogo poco dopo la sua pubblicazione. Parlammo nei pressi del rifugio al di sopra della Sylvesterkapelle a Goldbach, un rifugio in cui ora, mentre godo di una splendida vista sul lago, vergo questi appunti.
Il concetto di metamorfosi degli dèi indica che muta la forma [die Erscheinung] in cui essi sono venerati. Ecco perché esistono luoghi da sempre considerati sacri pur nell’avvicendarsi delle religioni. Forse un tempo vi apparve un angelo, vi accadde un prodigio. Sulle rovine degli antichi templi ne furono costruiti dei nuovi. Rimasero la meta di pellegrinaggi, feste, sacrifici e preghiere. Esse sono sempre importanti; ma ciò significa che qui esse sono specialmente esaudite.
La titanomachia e il crepuscolo degli dèi sono fenomeni metastorici: penetrano nella storia dalle profondità della natura e del cosmo. In termini temporali si può supporre che i titani abbiano preceduto gli dèi e governato il caos. Secondo il mito hanno generato e dato insegnamenti agli dèi. La loro ribellione fa vacillare l’Olimpo, essi sono vinti da Zeus e banditi nel Tartaro. Ma essi fanno ritorno: ne è un esempio il Prometeo libero dalle sue catene che assume la forma del Lavoratore. Gli dèi creano a partire da una dimensione atemporale [aus dem Zeitlosen]; i titani operano e danno vita alle loro invenzioni all’interno del tempo. Sono imparentati più con la tecnica che con le arti. Hölderlin, perciò, consiglia al poeta di sognare e trovare consolazione presso il dio Dioniso durante il dominio della stirpe dell’età del ferro [die “Eisernen”], ma sa che gli dèi faranno ritorno.
Riflessioni sull’aritmetica. L’esponente è la cifra che è posta al di sopra del numero cardinale e che indica per quante volte esso può essere moltiplicato (potenziato). Nell’equazione:
2^3 = 8
Il due rappresenta il numero cardinale, il 3 l’esponente e l’8 il risultato.
Il numero cardinale è chiamato anche “la radice”, l’esponente “l’indice”. Il segno dell’equazione rappresenta “il centro”. Il centro funge da mediatore; separa e unisce al tempo stesso.
Considerazioni sulla botanica. Se trasformiamo l’equazione in un simbolo, il numero cardinale può essere concepito come la radice, l’esponente come la corona dell’albero e il segno che li unisce come il tronco. Il risultato è il frutto. Va considerato, innanzi tutto, come un puro prodotto, a prescindere dalle valutazioni economiche, estetiche e morali che lo contraddistinguono.
A proposito dell’ortografia. “Esporre” significa tanto “allontanare” quanto “interpretare” e “spiegare”. Mi occupo di un lavoro, di un testo fin nei suoi dettagli, ne esamino la struttura e lo interpreto.
“Esporsi” significa “allontanarsi” e “rischiare”, esporsi a un pericolo. Considerato a partire da una prospettiva del tutto neutra, rappresenta un “risaltare” [Sich-Herausheben]. Questa capacità (di esporsi) è, in primo luogo, puramente potenziale, ma è alla base dei fatti (gli accidenti quali sono concepiti da Tommaso d’Aquino). Qualità come buono e cattivo, bello e brutto sono attribuite ai fatti come etichette dipendenti dal luogo e dalle persone. In ogni caso, l’allontanarsi incide anche sull’ottica adottata e, di conseguenza, sullo stile: non si dice “io vengo giustiziato”, ma “prendo parte alla mia esecuzione”. Ciò tocca anche la dimensione della trascendenza.
La misura con cui ci si espone partecipando ad azioni e a opere determina lo scalpore che esse suscitano. Al contrario, il perdurare di una poesia o di un’opera d’arte dipende interamente dal numero cardinale, ossia dalle sue qualità intrinseche.
Riguardo alla propria biografia. Nel corso della propria vita ognuno si espone in misura più o meno grande. L’uno sfrutta il proprio talento, l’altro lo dilapida, lo sperpera o lo nasconde – in mezzo si trova il giusto mezzo, l’oculata amministrazione delle proprie risorse.
Il singolo può duplicare, decuplicare le sue forze: il loro fondamento non muta. Napoleone riteneva che la sua presenza sul campo di battaglia contasse quanto quella di centomila soldati. Ma il suo carattere, non la sua potenza, segnò la sua rovina. Ciò vale anche per Hitler.
Riflessioni sulla trascendenza. Alcuni incontri avvengono in momenti di svolta o di rottura che mettono in questione il corpo e la vita: spalancano un ampio spazio che si colloca tra la sfera dell’intelligenza politica e della disciplina etica.
Nessuno può sfuggire all’ultimo incontro, quello con la morte. Qui ognuno si espone in modo assoluto. La sua potenza si sottrae al tempo e al numero, assume un carattere immaginario. Se adoperiamo per il singolo ignoto a sé stesso il numero cardinale “X”, il suo esponente diviene infinito:
X∞
Solo ora l’individuo diviene “indivisibile”, come dice il suo nome. Il fatto che la sua potenza trascenda ogni misura e ogni valutazione implica una speranza che supera quella relativa al paradiso. L’arte e i culti girano attorno al muro del tempo e lo adornano; ognuno officia da solo il sacramento della morte.
Nel racconto intitolato La morte di Ivan Il’icˇ Tolstoj descrive il momento di passaggio in cui non si è privati, ma si rinuncia all’esistenza. A questo proposito Heidegger scrive: «La rinuncia non toglie. La rinuncia dà. Dà la forza inesauribile dell’infinito».
Parimenti, Schopenhauer osserva nella sua Dottrina dell’indistruttibilità del nostro vero essere da parte della morte: «La morte è e resta per noi qualcosa di negativo – la cessazione della vita; ma essa deve avere anche un carattere positivo che ci rimane celato poiché il nostro intelletto non è in grado di coglierlo. Ecco perché riconosciamo ciò che perdiamo con la morte, ma non ciò che otteniamo grazie ad essa».
Nessuna strada conduce oltre il mero presentimento. Il grande pensatore del passato deplora il fatto che la luce svanisca proprio quando un nuovo giorno inizia ad albeggiare. «Se, nel frattempo, un filosofo dovesse credere che la morte gli offrirà conforto e che egli risolverà finalmente il problema a cui ha dedicato così spesso la sua attenzione, si può dire che, probabilmente, la sua sorte sarà simile a quella toccata a colui al quale sia spenta con un soffio la lanterna proprio mentre stava per trovare ciò che stava cercando».
A tale proposito pare lecito un dubbio. Quando una forte luce inizia a risplendere, essa non fa estinguere una luce più debole, ma la accoglie tra le sue onde. Nietzsche profetizza l’irrompere di un lampo di tempo [Zeitblitz] di una densità tale che in esso mille anni passano non «come un giorno», ma come una frazione di secondo. L’«eterno» [das Ewige] è consumato in questo modo da ciò che è atemporale [das Zeitlose]. Per Hölderlin il muro del tempo è la parete del carcere che crollerà «nella più sacra delle tempeste».
Se un fiore occupa uno spazio, non impallidisce sotto il fiotto di luce, ma riluce più vivido: ne diviene parte. È liberato, poiché non sono sufficienti la sua bellezza e la sua magnificenza: questo è il fondo che lo rende caduco. Alla dogana la monetina è scambiata con dell’oro: è l’obolo per colui che spalanca la porta.
L’uomo continuerà ad allontanarsi dalla storia anche dopo la fine del secolo. I grandi simboli della “corona e della spada” perderanno ancora significato; lo scettro cambia forma. Verranno meno i confini storici; la guerra sarà sempre messa al bando, il dispiegarsi del potere e le minacce assumeranno proporzioni planetarie e universali.
Il prossimo secolo appartiene ai titani; gli dèi continueranno a perdere credito. Dato che faranno ritorno, come è sempre accaduto, il ventunesimo secolo rappresenterà, sotto il profilo del culto, un interim. «Dieu se retire».
Non deve ingannarci il fatto che l’Islam sembri costituire un’eccezione; ciò non dipende dal fatto che esso è superiore al suo tempo, ma dal fatto che esso – quale fenomeno titanico – è conforme ad esso [zeitgemäß].
I titani appaiono e scompaiono come forze della natura; assumono forme visibili, come quelle di uomini e animali.
Hölderlin ne prevede l’avvento in Pane e vino. Egli pone dei limiti anche al loro dominio, interpretandolo come un interim. Ritiene che «in miseri tempi», lontani dagli dèi, per il poeta sia «meglio dormire». Non esclude, perciò, che, nel frattempo, possa avvenire qualcosa di potente, e quantunque conforme al potere [Gewaltiges, wenngleich Gewaltmäßiges]. Cresceranno eroi in «culle di bronzo», che, tuttavia, saranno solo «simili» ai Celesti.
L’ultimo rifugio – fatto di sonno, ebbrezza e oblio – è trovato dal poeta presso Dioniso. Da questo punto di vista Hölderlin è d’accordo con Nietzsche.
Schopenhauer considera il mondo come la sfera d’azione della cieca volontà di vivere; essa è di natura titanica, eternamente mutevole ed effimera.
Nulla
c’è che nasca e non meriti
di finire disfatto.
Darwin ha offerto una risposta alla domanda sulle ragioni della nascita di forme magnifiche per opera di un impulso cieco. «Quindi anche un edificio come il Taj Mahal potrebbe sorgere gettando a caso delle pietre?» fu l’interrogativo che gli fu posto.
Schopenhauer, il quale, tra l’altro, respinse le teorie di Darwin, identificò l’umanità [Humanität] con l’intuizione [Anschauung] e, quindi, col non agire. La conoscenza atemporale produce culti, idee e, soprattutto, opere d’arte. Egli riteneva che un giorno un «buddhismo purificato» si sarebbe potuto diffondere in Europa: «Deve esserci, dunque, una metafisica per il popolo, una religione».
Ruskin: «Il compito definitivo dell’arte consiste nel rappresentare l’agire divino nella natura». Nell’avvicinamento [Annäherung], pertanto.
Mentre Hölderlin guarda con angoscia alla fase dell’interim e Schopenhauer si mostra scettico e pessimista nei confronti del mondo dei titani, Nietzsche si sente a suo agio in esso. Nel 1888, il suo anno fatidico, egli osserva che il XXI secolo rappresenta per lui la sua patria spirituale. A questa importanza crescente della volontà corrisponde l’incremento improvviso dell’energia all’interno del mondo tecnico.
Un tratto tipico dell’adesione di Nietzsche alla volontà è il suo rapporto col tempo. Mentre Kant annovera il tempo tra le forme dell’intuizione, esso, per Nietzsche, possiede il carattere di una realtà assoluta. Questa teoria raggiunge il suo apice nella dottrina dell’eterno ritorno.
Essa è per lo più fraintesa poiché non si tratta dell’esito di un processo cognitivo [eine Frucht der Erkenntnis], ma di una professione di fede [ein Bekenntnis].
Oswald Spengler sottolinea il valore particolare che l’uomo occidentale attribuisce al tempo. Ne derivano forme specifiche di misurazione del tempo. A partire dall’epoca gotica gli orologi diventano parte integrante dei campanili delle chiese assieme alla croce. Il loro suono si spande per la campagna gettandovi un’ombra.
Questo processo ha inizio intorno all’anno mille con l’invenzione dell’orologio meccanico, che subentra agli orologi elementari. Il nostro secolo può essere definito anche come l’era degli orologi: la loro precisione e la loro durata si avvicinano alla perfezione. Inoltre, il loro ritmo non solo misura con precisione i fenomeni più piccoli e più grandi, dall’atomo fino all’universo stesso, ma determina anche il movimento della nostra vita quotidiana, come avviene nel caso del motore.
L’orologio al quarzo segna il ritorno degli orologi elementari su un piano intellettuale. La terra cambia pelle.
L’affondamento del Titanic, il suo schiantarsi contro un iceberg è un segno profetico, quale compare, altrimenti, solo nella sfera del mito. Tra l’altro, se ne deduce che il progresso rappresenta solo una fase transitoria, un fenomeno che ha un inizio e una fine. L’uomo ha sempre saputo che gli alberi non crescono fino al cielo.
Ci si chiede ora quale aspetto avrà la terra o “che cosa essa vuole”. Sembra che la fine di ogni secolo sia accompagnata da visioni apocalittiche, che oggi, conformemente all’atmosfera dominante nel pianeta, sono di carattere prevalentemente tecnico.
Gli astrologi predicono, invece, il verificarsi di uno straordinario processo di spiritualizzazione [Vergeistigung]. È in linea con tale profezia l’attesa cristiana di un’era dello Spirito Santo, che seguirà, come terza e ultima epoca, a quella del Padre e a quella del Figlio. La stesura di un Terzo Testamento sarà riservata, allora, ai poeti.
Se l’interim è considerato come il momento del nudo avvento dei titani che hanno assunto una forma, ad esso deve essere intrecciato soprattutto un processo di trasformazione della terra, quale già oggi si annuncia attraverso delle catastrofi. Probabilmente il ruolo e le colpe dell’uomo sono sopravvalutati. Ex negativo lo si può già dedurre dal fatto che egli, in ultima analisi, si rivela impotente, a meno che non versi ancora olio sul fuoco.
Da duecento anni stiamo vivendo una rivoluzione di proporzioni planetarie che trasforma la natura e la nostra società; nel corso di tale processo gli impulsi di natura tecnica precedono quelli di carattere sociale. Se lo si considera da un punto di vista storico, si può dire che si ripete una situazione che si è già verificata spesso, per esempio per mezzo dell’invenzione di armi e strumenti, per effetto di guerre, migrazioni di popoli, devastazioni di paesaggi tramite lo sfruttamento estremo di boschi e terreni da pascolo.
Ci si domanda se la prospettiva storica sia sufficiente o se non ci troviamo alla fine e già al di fuori della storia. Molti indizi fanno pensare che la rivoluzione planetaria [die Weltrevolution] sia parte di una rivoluzione tellurica [eine Erdrevolution] e che ne sia determinata.
Anche tale fenomeno rappresenterebbe una ripetizione, sia pure all’interno di un ciclo di proporzioni più vaste, in cui alle epoche storiche subentrano, quali unità di misura, le ere geologiche. Sul piano mitico tale processo si avvicina alle teorie di Esiodo e, su quello scientifico, al sistema elaborato da Cuvier.
Questa prospettiva viene accettata in misura crescente, diviene persino popolare. A questo proposito, si tratta di chiederci se valutiamo correttamente il significato di grandi trasformazioni come quelle relative al clima, all’atmosfera e alla natalità. Il rispetto per la statistica e l’orrore per i grandi numeri sono estranei ai titani.
Sono da attendersi non solo delle perdite, ma anche dei fenomeni sorprendenti. Nuovi materiali e nuove energie nel mondo inorganico e nuove specie in quello organico. Il viaggio attraverso mondi invisibili può controbilanciare la scoperta di nuovi continenti.
Si tratta di processi di sviluppo di energie naturali promossi dall’uomo. Non sono da scambiare con fenomeni di tipo cultuale. La fase dell’interim termina con essi.
Anche laddove le forze della natura si compensano a vicenda un ordine gerarchico è sempre presente. Iniziano a delinearsi forme erculee, centauriche e prometeiche: ad apparire per prima è la forma del Lavoratore. La tecnica è la sua uniforme. Quale lingua di carattere planetario, essa libera i suoi legionari dall’apprendimento faticoso dei numeri, forse dall’obbligo stesso di frequentare una scuola. Si impara attraverso il gioco e la vista stessa, vivendo nel nuovo mondo.
Non bisogna dimenticare i giganti e le chimere; tali esseri appaiono laddove la scienza tocca i suoi limiti e inizia a superarli, come avviene nel campo delle ricerche sull’energia nucleare e sulla manipolazione genetica.
Il processo di spiritualizzazione crescente è certamente molto pericoloso, ma è anche in grado di tener testa a quello di annientamento, per esempio alla guerra, che viene ridotta a uno scambio di formule. Colui che si trova in una condizione di inferiorità getta la spugna come avviene durante una partita di scacchi. Se rovescia il tavolo da gioco, lo attende il destino che toccò ai giganti.
Anche lo Stato mondiale non eliminerà l’esercizio della violenza, che è parte integrante della creazione. La guerra assumerà la forma di misure di polizia di entità più o meno grande. Dato che le armi nucleari sono monopolio di pochi, le rivolte sono destinate a fallire, ma dilagherà il terrore.
Il progresso tecnologico può sfociare nella magia. In alcuni settori, per esempio in quello della circolazione, i pensieri iniziano a tradursi in azioni. Persino una telefonata non è così semplice come sembra. Relè fotoelettrici, trapianti, chimere, apparizioni di defunti sullo schermo, e così via.
Si moltiplicano i biotopi in cui l’uomo non ha nemmeno bisogno di muovere la mano per agire. Un simile stato allontana l’uomo dalla storia proprio grazie alla sua natura piacevole. Nietzsche lo ha predetto tramite la figura dell’«ultimo uomo» e Huxley lo ha descritto in modo dettagliato. La fase dell’interim porta a un generale livellamento. Ad esso si accompagna il sorgere di una popolazione di fellahim, la cui esistenza è priva di coscienza storica e di pretese superiori. Essi vivono alla giornata. Le élites divengono sempre più piccole e potenti poiché anch’esse raggiungono il confine oltrepassato il quale si trasformano anche i pensieri.
I titani vivono e operano all’interno del tempo. Il loro potere trova conferma nell’eterno ritorno. Questa forma di eternità non rappresenta la fine del tempo e dei tempi, ma la loro estensione all’infinito. Basta un taglio perché essi terminino.
I titani non hanno bisogno di preghiere; li si serve lavorando. Sono tenuti in alta considerazione, sebbene il loro nome si celi dietro il loro agire. Ecco perché oggi non si parli di Urano, ma dell’uranio. Anche Plutone, pur esercitando un forte potere sulla terra, non fa parte degli dèi dell’Olimpo.
Gli dèi non sono eterni, ma atemporali: le preghiere rivolte ad essi non portano alla realizzazione delle speranze terrene, ma forse esse saranno realizzate trascendendo la dimensione stessa di ogni speranza.
L’arrivo degli dèi può essere presagito, ma non può essere calcolato né predetto. Ma essi devono fare la loro comparsa, perché in assenza degli dèi non può esistere alcuna civiltà. Prima dei grandi momenti di svolta le attese, siano esse fondate o meno, si concentrano proprio su tali epifanie.
Un’apparizione può riscaldare col suo calore ed echeggiare per più di mille anni, ma, col passare del tempo, diverrà più debole e la teologia perderà vigore. Ogni predica si trasforma in un discorso funebre più o meno riuscito. Per questo motivo possiede la massima efficacia presso le tombe.
Durante la fase dell’interim gli dèi stessi risultano inattuali nelle opere poetiche; la cosa migliore è che il loro nome scompaia. Ne consegue che il Divino, per poter fare la sua comparsa a un livello spirituale superiore, non ha bisogno di assumere fattezze animali o umane. Di sicuro, nuove trasformazioni causano il raggiungimento di un nuovo stadio delle conoscenze. Non ce ne sarà la mancanza poiché la forbice taglia in modo più netto quando inizia a chiudersi.
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