Per il mistico tedesco è valida la teologia apofatica, in quanto su Dio si può dire appena cosa non è; sebbene però sia conscio dell’impossibilità di parlare dell’ineffabile, Eckhart ci offre una bussola che ci guidi per l’arduo sentiero dell’unione col divino.
IN COPERTINA e nel testo Portrait of a Man Against the Light, Arthur Segal
Questo testo è un estratto da Nulla volere, sapere, avere di Francesco Roat, ringraziamo Le Lettere per la gentile concessione.
di Francesco Roat
«Amore» (agape). Così Giovanni chiama Dio nella sua Prima lettera. E Dante, contemporaneo di Meister Eckhart, lo indica nell’ultimo verso della Commedia come: «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Amore esprime relazione, rapporto, scambio, possibilità di crescita, di vita. Privo del rapporto con una figura genitoriale/accudente, il neonato non può sopravvivere. Non gli basta il cibo, abbisognando egli di cura, affetto, contatto altrui. Qualora manchi l’apporto altruistico di un tu non si darà mai alcun io.
Ogni ambito della realtà è relazione. Senza quest’ultima non è possibile nemmeno immaginare eventi, fenomeni d’alcun tipo. Potremmo dire persino che si dà solo un esserci relazionale, a livello di micro e di macrocosmo, essendo l’interazione necessaria all’esistere. Tanto fra i corpi – sia terrestri che celesti –, quanto fra gli atomi e all’interno di essi. Come si sa, i fisici distinguono quattro interazioni: l’elettromagnetica, l’interazione forte, quella debole e infine quella gravitazionale. La prima, tra l’altro, consente la coesione tra elettroni e nucleo atomico; la seconda impedisce la disgregazione di quest’ultimo; la terza è coinvolta nei processi di trasformazione delle particelle elementari che costituiscono la materia; l’ultima è la forza attrattiva che si esercita tra tutti i corpi nell’universo.
Va dunque ribadito in quanto essenziale: senza relazione niente esistenza. Se chiamiamo Dio questa modalità/possibilità dell’essere, questa potenza organizzatrice, la si può cogliere come amore, come condizione o evenienza di sviluppo, vita, evoluzione, creatività intelligente. Non è già un miracolo l’émergence – per dirla con Edgar Morin – dell’universo dal cosiddetto big bang?
Il filosofo francese così si esprime a proposito di ciò:
La realtà del nostro mondo è emersa quindici miliardi di anni fa da un processo auto-organizzatore. L’universo materiale emerge continuamente a partire da elementi microfisici privi di materialità, ma la cui combinazione fa emergere la nostra materialità. La materia non è realtà primaria, ma realtà emersa. […] Inoltre ci sarebbe un livello invisibile permanente di prerealtà, infrarealtà o surrealtà co-presente al nostro universo, che per il buddhismo, sotto il nome di vacuità, è la realtà suprema, o nirvana, e, per noi, ciò che sfugge alla realtà ma fonda le realtà3.
È spontaneo che venga da chiedersi come sia possibile l’autoorganizzazione, quale sia la sua causa o origine. Il problema è che – e i filosofi lo sanno bene a partire da Kant – c’è poco da illudersi di poter risalire a monte delle cause fino ad arrivare a una improbabile causa necessaria e incausata. Già Hume peraltro metteva in discussione la nozione di causalità, ritenendola un concetto mentale: una categoria inventata da noi. Quanto al miraggio di una razionalizzazione esaustiva della realtà, all’illusione di tutto chiarire tramite un logos saccente/ipertrofico, ritengo che essi siano chimere destinate fatalmente a naufragare nella tautologia. Chi può dimostrare infatti la dimostrazione stessa, dar ragione della ragione?
-->Comunque il fatto che vi sia un’organizzazione nell’universo (o a che quantomeno a noi risulti tale), legata a un incessante processo metamorfico, fa nascere un’ulteriore domanda: come porsi rispetto a tutto ciò, che dire di tutto ciò?
La scienza (a cui oggi la gente crede e dinanzi alla quale si inginocchia, come un tempo faceva davanti al crocifisso) offre le sue risposte basate sul suo metodo conoscitivo fatto di osservazione dei fenomeni, ideazione di ipotesi razionali, sperimentazione e verifica – pur sempre parziale, probabilistica e provvisoria – di quanto ipotizzato. Ma non penso potrà mai esaurire i perché che noi ci poniamo riguardo all’universo o al multi-verso. È dello stesso parere lo scienziato e astrofisico Amedeo Balbi, che ammette:
La realtà è quello che è, e fa quello che fa. I nostri tentativi di descriverla, con parole o equazioni, non sono la realtà. E la realtà non ha nessun obbligo di conformarsi a ciò che noi crediamo o affermiamo riguardo a essa. […] La scienza è quindi un processo di esplorazione della realtà, e la conoscenza scientifica assomiglia a una mappa del mondo: non solo la mappa copre un territorio sempre più vasto man mano che procediamo nell’indagine della realtà, ma diventa anche più precisa e dettagliata. Ma è importante ricordare che la mappa non è la realtà: le nostre teorie, per quanto sofisticate, sono semplificazioni idealizzate, strumenti concettuali che usiamo per orientarci nella complessità del mondo reale4.
Così l’origine (la creazione?) dell’universo e l’universo stesso con tutte le sue galassie, la materia visibile e quella oscura, l’antimateria, l’energia in tutte le sue forme e chi più ne ha ne metta (o postuli) finisce con l’apparirci un mistero5, nel senso forte di questo termine. Ed è stato chiamato Dio tale mistero, tale pregnanza, tale dynamis. Non da tutta l’umana congerie, naturalmente. C’è chi preferisce definirlo caso – sostenendo che noi, complessi animali autoconsapevoli, e quanto sta fuori di noi, compreso l’invisibile, sarebbero frutto d’una comparsa fortuita e aleatoria, quantunque un tale caso sia egualmente motivo di meraviglia e stupore –; c’è chi ha scelto di chiamarlo Hen, Brahman, Tao, YHWH, Allāh, e tramite tanti altri appellativi. Il vocabolo italiano Dio deriva dall’affine latino Deus, proveniente dalla radice indoeuropea div-, che significa splendere/brillare. Così Dio è luce all’uomo e al mondo. In tedesco, invece, Dio è chiamato Gott (per il medioevale Eckhart: got) – somigliante all’inglese God e a tanti altri termini consimili nelle varie lingue germaniche –: termine che probabilmente trae origine dall’indoeuropeo ghuto-/ghou(chiamato), a sua volta derivante dalla radice gheu-, che significa chiamare/invocare. Dio è dunque l’invocato per antonomasia.
Un giorno, durante un dialogo e sollecitato da una domanda del suo interlocutore, Martin Buber si espresse intorno all’opportunità o meno di far ancora ricorso alla parola Dio, tanto essa era stata fonte di incomprensione tra i popoli e avendo gli uomini combattute così numerose guerre di religione nel nome di Dio. Colto nel vivo. il filosofo/teologo austriaco rispose che noi: «[…] non possiamo ridonare purezza alla parola «Dio» e non possiamo lasciarla integra; possiamo però sollevarla da terra e, così com’è, macchiata e lacera, innalzarla sopra un’ora di grande angoscia»7, proprio poiché, da sempre invocato, secondo Buber questo nome è proprio di chi audisce, esaudisce e consola.
Un tal nome, altresì, nota poeticamente Vito Mancuso:
[…] rimanda a una specie di grembo primordiale dell’essere e dei fenomeni che ne fuoriescono, sorgente e insieme porto, origine e insieme fine, exitus e insieme reditus, alfa e insieme omega, di tutte le cose del mondo, visibili e invisibili, e di ciascuno di noi tra di esse.
Il vocabolo Dio rappresenta tuttavia un termine sommamente metaforico, nel senso che allude a un oltre e a un’alterità riguardo a ogni ambito discorsivo; esso è simile al dito che indica la luna, è segno d’altro rispetto a quanto è possibile dire per verba: attraverso le parole; anche per il semplice fatto che: «Dio, nessuno lo ha mai visto».
Non per nulla la teologia apofatica – o negativa – appare da sempre ai mistici più condivisibile di quella catafatica – o positiva –, nel limitarsi a dire cosa Dio non sia, rispetto alla presunzione di poter affermare che cosa Egli sia (tranne tramite l’utilizzo di metafore, in quanto esse sono appunto tali). Come ebbe a considerare Agostino, essendo Dio l’ineffabile, dobbiamo ammettere che intorno a Lui: «qualunque cosa si può dire non è l’ineffabile», che siamo tenuti a riconoscere la nostra “ignoranza” nei suoi confronti e che solo: «tacendo si penserebbe forse qualcosa degna dell’ineffabile».
Persino il nome Dio è solo una parola a rischio di fuorvianza se ci aggrappiamo a essa idolatricamente; in quanto, dice bene Goethe: «il nome è suono e fumo / che offusca l’ardore celeste» (Name ist Schall und Rauch, / Umnebelnd Himmelsglut).
Ogni teologia – tranne il particolarissimo dire mistico – è sempre a rischio di ideologia, è dogmatismo, giacché in greco il vocabolo dogma, oltre che decreto significa opinione. Perché allora il mistico parla intorno al divino se il silenzio sarebbe forse la scelta migliore? Sulla motivazione di questa modalità esplicativo-discorsiva ho indicato altrove che: «Il mistico, è ovvio, potrebbe/vorrebbe tacere. Se parla, lo fa a beneficio altrui. La sua è una vocazione/attenzione pedagogica. Per questo egli non si stanca di reiterare quelli che ritiene argomenti essenziali, a rischio di apparire monotono, ripetitivo, ridondante persino».
Meister Eckhart utilizza a ogni piè sospinto il termine: Dio/ got, eppure in uno dei suoi Sermoni più noti – Beati pauperes spiritu, quia ipsorum est regnum coelorum – ardisce proferire: «[…] prego Dio che mi liberi da Dio» ([…] bite ich got, daz er mich quit mache gotes).
Sconcertante, nevvero? Ma il Domenicano – oltre a farci inciampare in una sorta di scandalo utile a mettere in scacco la nostra logica ordinaria, secondo la quale la proposizione citata appare contraddittoria/assurda, specie se enunciata da un religioso – qui sembra toccare l’apice del suo misticismo relativamente al distacco, da lui ritenuto essenziale per la rinascita spirituale.
Non a caso l’affermazione – o il paradosso eckhartiano – si colloca entro un sermone intorno a chi sin troppi sedicenti benestanti chiamano pitocchi, ovvero i poveri in spirito, ed essa va riferita in primo luogo al contesto entro cui è inserita. La povertà, infatti, è cruciale in ogni itinerario mistico. Essa comporta liberarsi dalla soggezione all’ego e alle sue voglie/velleità, per morire a sé stessi e poter così rinascere spiritualmente. È quanto prevede Gesù che dice a Nicodemo: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3, 3-8).
La morte dell’egocentrismo comporta una spoliazione che ricorda la kenosis (svuotamento, abbassamento) cristica, culminata in un supplizio considerato motivo di ignominia. Ciononostante, Gesù – nota Paolo –: «umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» e anche noi potremmo umiliare e deporre la nostra egoità giusto per mezzo della mors mystica.
Mi sembra dunque assai condivisibile affermare che la povertà e la spoliazione costituiscano un’autentica imitatio Christi, che tuttavia comporta dover fare a meno persino del Rabbì per eccellenza, cioè di Cristo; altrimenti il processo kenotico non è compiuto e non si raggiunge la pienezza spirituale. È quanto emerge dal vangelo giovanneo, in cui Gesù confida ai suoi discepoli, preannunciando la venuta dello Spirito Santo: «Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi».
Tornando all’enunciato paradossale di Eckhart – che prega Dio di potersi liberare dal condizionamento di ogni desiderio, foss’anche il più pio, compreso quello di Dio –, credo sia opportuno cogliere in questa apparente contraddizione il massimo della paupertas: il nulla pretendere, nemmeno Lui/da Lui. E a proposito di preghiera, come non sottolineare la deprecazione/ avversione del Meister nei confronti di chi utilizza quest’ultima come un mezzo per raggiungere un fine e non esclusivamente quale lode o ringraziamento nei confronti di Dio, che non è certo un idolo da impetrare allo scopo di ottenere qualcosa. La frase provocatoria di Eckhart esprime/riassume quindi la rinuncia a ogni esigenza, persino alla suprema realizzazione spirituale: brama pur sempre egoica e deleteria. Eppure proprio la massima indigenza – se accettata – dà adito alla maggiore abbondanza. È quanto sostiene William Johnston, facendo riferimento alla sophia mistica:
La strada per la felicità consiste nello svuotare sé stessi, perdere tutto. Morire della grande morte. Questa povertà attraversa tutto il Sermone della Montagna, che parla della povertà di coloro che sono miti e misericordiosi, di coloro che sono insultati e rifiutati, di coloro che non hanno nulla e diventano nulla. Beati i poveri, perché saranno illuminati. Beati coloro che non hanno nulla perché avranno tutto. […] In questo cammino, va sottolineato, si rinuncia ad ogni legame, ad ogni desiderio, ad ogni attaccamento, ad ogni possesso – non alla cosa in sé. Perché tutte le cose che Dio ha creato sono buone, belle, vere. Per questo sulla cima del monte, San Giovanni della Croce può esclamare: «Quanto meno lo desideravo, ho tutto senza desiderare».
Ma prima di aver tutto (Dio) bisogna non avere più nulla (nada, nada, nada, come rimarca Giovanni della Croce). Occorre pregare Dio: «che mi liberi da Dio». Qualche secolo dopo, Angelus Silesius – poeta, mistico e di madre lingua tedesca, come Eckhart, – oserà scrivere: «Ancora oltre Dio, a un deserto, devo tendere»; cioè a un luogo/non-luogo indispensabile alla mia crescita spirituale, ove sperimentare l’assenza di Dio, il suo silenzio, la mancanza assoluta di ogni rassicurazione/consolazione religiosa a buon mercato. Sempre intorno alla figura eminentemente evocativa del deserto nella mistica silesiana (e non solo), ho sottolineato come:
Non potrebbe esser più chiaro di così l’intento del Nostro, teso a non arrestarsi/fissarsi presso qualsivoglia immagine (teoria) del divino. Come a dire: ogni teologia causalistica, affermativa e catafatica ha da venir bandita, ed è bene semmai preferire ad essa una teologia apofatica […], secondo la quale Egli non può venir conosciuto/predicato attraverso il logos, il discorso razionale/concettuale o teoretico, bensì a Lui si può alludere tramite una parola poetica/poietica. L’immagine del “desertoˮ, che bene rende l’idea del vuoto e della sterilità di ogni enunciato filosofico intorno a Dio, rimanda nondimeno ad una vacuità comunque incolmabile/ inabitabile da parte di ogni nostro discorso intellettuale destinato qui a inaridirsi e spegnersi. Ciononostante il deserto va attraversato, deve venir percorso/patito, come la notte oscura dell’anima di Giovanni della Croce.
Tornando ancora una volta all’espressione apparentemente blasfema del devoto Eckhart, il pregar Dio di essere liberato dal dipendere dalla sua presenza o iniziativa è esercizio di purificazione che rinuncia a ogni consolazione, che di niente va in cerca (o intende doversi sbarazzare) e niente vuole, nemmeno nutre in sé la voglia di ottemperare alla volontà di Dio. E questo per il semplice fatto che – scrive Marco Vannini:
Niente volere non significa rinunciare alla volontà propria, sempre frutto dell’egoismo appropriativo, e volere invece la “volontà di Dio”, perché tale presunta volontà è pur sempre una volontà propria, che si esprime appunto nel volere la volontà di Dio.
Chi ha la volontà di compiere la volontà di Dio e ha desiderio dell’eternità, del regno dei cieli, di Dio, non è affatto povero, non è affatto distaccato, bensì saldamente legato al proprio ego. Il desiderio dell’eternità, di Dio ecc., non è un desiderio “buono”, diverso dai desideri “cattivi”, ma solo un desiderio diverso dagli altri, cosiddetti mondani. […] Perché l’uomo sia davvero povero, prosegue Eckhart, deve perciò esser privo della propria volontà come lo era quando ancora non esisteva, ovvero quando non era questo uomo qui, Konrad o Heinrich, determinato nel dove e nel quando2.
Un’altra concisa, tassativa e altrettanto provocatoria affermazione del magister tedesco può riassumere egregiamente – più dell’insegnamento teorico/dottrinale proposto all’uditorio dei Sermoni – l’indicazione in merito alla prassi da tenere da parte dell’uomo pneumatico, che: «nulla vuole, nulla sa, nulla ha»27.
Lapidaria ma di una nettezza estrema questa sentenza compendia davvero ciò che significa/implica la paupertas spirituale, le cui caratteristiche stanno giusto nella consapevolezza della nostra ignoranza28 rispetto al mistero (Dio, universo), nel lasciar cadere ogni brama, nel non ritenersi – o ambire ad esser – padroni di nulla: se non altro per il fatto che in qualsiasi momento la sventura o la morte ci possono strappare tutti i nostri possessi effimeri, sempre e solo provvisori/aleatori.
Questo insomma intendono essere i Sermoni: non già testi teologici ma omelie: discorsi rivolti a un pubblico non necessariamente colto – costituito, com’era, soprattutto da suore (e da qualche chierico) –, formulati in volgare e non in latino (come invece altre opere accademiche del magister). Eppure dette prediche costituiscono la parte migliore e più fortunata degli scritti eckhartiani; da esse si può ricavare il suo ammaestramento mistico, incentrato – come più volte ha puntualizzato Vannini – sul distacco che ci permette un’esistenza all’insegna della più alta/ profonda religiosità/spiritualità. E intorno a un tale status, di cui tratterò a lungo nel saggio, termino questa breve introduzione con le parole di chi è unanimemente riconosciuto come il più grande studioso italiano di Eckhart e di tutta la mistica tedesca:
Nel distacco […] Dio si rivela per quel che essenzialmente è: spirito, movimento e vita. Si veda nel sermone Mortuus erat et revixit cosa è spirito: non un’entità astratta fuori di noi, ma una realtà presente in noi nel distacco. La celebre formula di Eckhart “Dio è una negazione della negazione” indica che l’attività del negare, ovvero dello spazzare via l’alterità, padroneggiando tutti i contenuti, è l’attività propria dello spirito. Non si partecipa a Dio come altri: Dio va negato come oggetto perché divenga spirito, perché si divenga spirito29.
Nessun commento se non , casualmente (!?), che proprio oggi mi relazionavo sia nel web sia con amici su certe problematiche qui esposte. Strano ….
Testo perfettamente consono alla mia ricerca.
Mi ha ridato i paletti della mia riflessione: allontanare la percezione del se’, collocarmi nel ” deserto”, vuotata la mente e mettermi in “ascolto”di cio’ che mi trascende , che non puo’ essere con preso proprio perche’ mi trascende .
Espandermi dove non esistono ne’ l’io, ne’ le parole .Uscire dal tempo e dallo spazio .
Vengono in mente le parole dello Zarathustra di Nietzsche: “Fratelli, non cercate un senso oltre le stelle, siate fedeli alla terra”. E poi anche la parabola (sempre di questo Zarathustra) delle metamorfosi dello spirito, che da paziente cammello che cerca la virtù nell’obbedienza a qualche precetto si fa ruggente leone ribelle a una Legge imposta e infine bambino piccolo che sorridendo dice Sì all’esistenza. In un frammento Nietzsche scrive “bisogna passare dall’essere quelli che pregano all’essere quelli che benedicono”.