Come sapete agosto su Indiscreto è sinonimo di racconti: abbiamo deciso di affidare ogni anno a una persona diversa la curatela del nostro breve mese letterario. Quest’anno a curare la selezione per noi è lo scrittore Vanni Santoni. Il racconto che segue è di Niccolò Carradori, che ringraziamo.
IN COPERTINA, un’opera di Mario Sironi
di Niccolò Carradori
(l’agosto letterario 2023 è curato da Vanni Santoni)
26 febbraio 1999
Domenico Palumbo, che non si tira certo indietro quando è tempo di formulare un’opinione, è sempre più convinto del fatto che le persone che si annoiano più facilmente siano anche le più noiose. Una caratteristica che trova francamente inaccettabile, specie in quelle personalità che, oltretutto, operano in ambiti della vita in cui una scarsa sopportazione del tedio produce conseguenze molto gravi. Sergio Gagliano, il legale di Palumbo, ultimamente ha iniziato ad annoiarsi un po’ troppo; il che, malgrado sia uno dei maggiori esperti di diritto contrattuale della Sicilia centrale, lo sta pian piano sospingendo verso un congedo, altrimenti immeritato, come consulente fidato di uno degli uomini più cospicui di Enna, nonché del più importante collezionista siciliano di oggettistica storica risalente all’apice del nazionalsocialismo tedesco, al ventennio fascista e alle imprese dei patrioti italiani della Grande Guerra. Hanno appena messo fine ad una telefonata troppo sbrigativa, che Gagliano ha affrontato con insopportabile indolenza, masticando la braciola fritta che la moglie gli ha tagliato e portato sul mobiletto dell’ingresso di casa, vicino al telefono, per permettergli di mangiare mentre parlavano di un’importante questione. Da circa un anno e mezzo Palumbo non deve solo affrontare le limitazioni sociali che una diagnosi di agorafobia grave comporta, ma anche le conseguenti difficoltà nel portare avanti le trattative per l’acquisto di quei cimeli storici a cui ormai ha deciso di dedicare il resto della sua esistenza. Non è facile mercanteggiare al telefono o per corrispondenza, specie con quei cartongessisti di Fossalon di Grado, in Friuli, che hanno trovato un pugnale da trincea facendo un’escursione col metaldetector sulle sponde dell’Isonzo, e si rifiutano di inviare con posta prioritaria un campione della limatura di ruggine, per verificare il grado di deterioramento. Gli imbrogli poi sono più ardui da riconoscere a distanza: venditori senza scrupoli che millantano il possesso dell’ultimo pitale usato da Enrico Toti prima di lanciare la leggendaria stampella; paltò da aviatore attribuiti a Italo Balbo, poi rivelatisi costumi di scena sottratti dai camerini del Teatro Fantàsia di Barletta; falsi certificati di morte della Xª MAS. Da giorni Palumbo e Gagliano dormono meno del dovuto, perché stanno definendo nei dettagli le modalità di un’acquisizione importante: l’originale documento del decreto luogotenenziale ricevuto dalla famiglia del patriota Emilio Bianchi per il conferimento della medaglia d’oro al valore militare, il cui testo resta ancora oggi inarrivabile per ardore e sentimento:
Sempre primo ove più grave era il pericolo, raggiungeva sotto violento fuoco la trincea nemica. Colpito da una granata avversaria che gli asportava la gamba sinistra, con mirabile sangue freddo estraeva dalla tasca un coltello e tagliando i lembi della carne sanguinante, alzava nella mano destra la gamba mozzata, gridando parole magnifiche d’incoraggiamento ai propri compagni. Rivoltosi poi al proprio ufficiale gridava: “Viva l’Italia”. Il giorno seguente perdeva la vita. Hudi Log, 24 maggio 1917.
L’operazione è in una fase di stallo perché l’attuale proprietario del documento, un docente di Storia Militare e assessore ai beni pubblici di Novara, si rifiuta sia di firmare una serie di penali ideate da Palumbo, sia di scattare delle speciali foto ad alta risoluzione, che consentirebbero a un avveduto acquirente di studiare i dettagli della carta prima di firmare un assegno. Gagliano è stato poco propositivo durante il confronto telefonico per sbloccare la situazione, e ormai da tempo ha abbandonato la sua discrezione da raffinato uomo di legge per gettarsi, durante i picchi della noia non domata, in considerazioni personali che non pertengono al ruolo di consigliere, ed esperto tecnico e cavillatore professionista. Fingendo preoccupazione, ma masticando la braciola con la stizza di chi si sta in realtà lagnando per aver saltato un banale pasto in famiglia, l’avvocato ha espresso l’opinione secondo cui la meticolosità da esperto di cimeli di Palumbo – che lo spinge a tempestare di chiamate l’ufficio anagrafico di Kobarid, in Slovenia, per chiedere di avere i nominativi, gli indirizzi di residenza e i numeri telefonici di tutti i testimoni locali del Disastro ancora in vita – sarebbe in realtà una forma di ossessione nevrotica scaturita, come paradossale coazione emotiva, al tradimento e conseguente abbandono del tetto coniugale della moglie del Palumbo; tradimento avvenuto in un piccolo boschetto, con un podista veneto tremendamente somigliante ad Angelo Di Livio, durante una gita di piacere, mentre il collezionista ignaro stava scandagliando un’ansa su un argine del Piave, a caccia di SIPE inesplose. Il quasi ex consigliere legale, la cui perizia nella formulazione delle postille contrattuali, va ammesso, potrebbe mancare molto a Palumbo in futuro, si è addirittura avventurato in una disamina che lambisce i confini della psicologia clinica, suggerendo che il soprammenzionato tradimento era avvenuto, guarda caso, proprio pochi giorni prima del disastroso attacco di panico sperimentato dal collezionista durante la cena annuale degli Amici dell’Ardimento, il gruppo patriottico clandestino di cui era ormai, ex abrupto, dimissionario; attacco di panico che lo aveva accartocciato a terra, trascinando insieme a lui un vassoio di crostini alla salsiccia e stracchino, in preda ai crampi muscolari, scosso dall’iperventilazione e dal terrore, germinando un’altra serie di conseguenti attacchi nei giorni successivi, che avevano presto portato Palumbo alla riduzione delle escursioni a sfondo storico, quindi all’evitamento sociale e infine alla reclusione nella sua casa di campagna vicino al Castello di Sperlinga, dove aveva trasferito tutti i suoi cimeli, per coccolarli e ammirarli con la dedizione che solo un devoto della Storia può dimostrare.
Dopo aver riflettuto qualche minuto sulla perdita di vocazione che anche i più grandi professionisti possono subire nel corso di una carriera nel difficile mondo della contrattualistica civile, Palumbo scende le scale verso il seminterrato, dove ha ricavato una sorta di museo-studio ancora in allestimento. Lungo tutte le pareti sono disposte delle teche in plexiglass a più ripiani, incassate in mobili di noce costruiti su misura e suddivisi per periodo storico e categorie di reperti. Su un lungo tavolo centrale sono distese, a prendere aria, delle carte topografiche che riportano la precisa ubicazione dei fortini tedeschi lungo tutta la Linea Gotica. Negli ultimi giorni si sta dedicando all’attenta pulizia degli ordigni a mano utilizzati dalla Wehrmacht durante l’ultimo conflitto mondiale. Possiede tre esemplari quasi intonsi di bellissime Eihandgranate 39, simili a uova Fabergé, con carica esplosiva in donarite e innesco a strappo con acciarino a frizione. Per pulire le bombe utilizza una particolare soluzione Ballistol del kit di bronzatura rapida, tagliata con un po’ di detergente anti-ruggine. È una mansione che richiede molta manualità e attenzione, perché il liquido potrebbe penetrare nelle fessure della spoletta, rovinando l’integrità dell’innesco. Quando Palumbo coccola i suoi reperti gli piace ascoltare in sottofondo dei vhs dell’Istituto Luce, che spinge in un’ampia TV Combo appositamente posizionata sul fondo del seminterrato. Li conosce ormai tutti a memoria e li raziona e seleziona in base al suo umore, come vini pregiati. È di nuovo arrivato alla serie sull’offensiva delle Ardenne nel 1944, anche se spesso, quando il documentario si avvicina all’epilogo e alla vittoria alleata, cambia vhs. Quello che Gagliano non capisce, o finge di non capire per sottrarsi al tedio dei suoi obblighi di consulente, è che il deflagrare dell’agorafobia non è stato causato dalle scelte sentimentali di una donna non degna del suo rispetto – una donna che già altre volte, per altro, aveva manifestato interesse ormonale per gestori di stabilimenti balneari e facchini d’albergo dalle sopracciglia troppo folte – ma per una lancinante epifania politica. Di colpo, circondato dagli imprenditori agricoli con la nuca piallata e dai commercialisti in grisaglia degli Amici dell’Ardimento, si era reso conto che la destra italiana, quella vera, era ormai scomparsa, triturata dalla parabola dell’interregno terrorista che aveva completamente svuotato la vocazione imperiale, i sogni di vera gloria, per planare in mezzo a guitti come Valerio Fioravanti e Franco Anselmi; il nobile ideale era ormai nelle mani di conventicole di analfabeti, che gemmavano negli scantinati dall’ambiente romano dei tardi Novanta come figli abortiti che si prendevano a cinghiate per divertimento, e di parvenu affaristi che non avevano trovato spazio altrove. Suo nonno, Amilcare Palumbo, lo guardava torvo ormai da tempo, sbiadendo nella fotografia che lo ritraeva al fianco di Leo Longanesi a Milano, quando collaborava con Il Borghese. Era stato uno dei primi allievi della scuola geopolitica italiana, segretario fidato di Giorgio Roletto ed Ernesto Massi alla seminale rivista di settore voluta e sostenuta dal gerarca Giuseppe Bottai, di cui divenne amico personale. Italiano ben oltre la fierezza, fascista dall’alba al crepuscolo, intellettuale raffinato e uomo di grande ambizione, dopo essere scampato a ben due fucilazioni nel Triangolo della Morte, rubando l’identità a un povero contadino reggiano, il nonno era riuscito a tornare in Sicilia alla fine della guerra, dedicando tutte le sue energie alla formulazione di una strategia geopolitica in grado di restituire il paese al suo posto di elezione nella Storia, anche nel compromesso scenario post-Yalta. Teorico dello Spazio Vitale Mediterraneo, quello che i politologi marxisti definirono un licenzioso tentativo di scopiazzare il Lebensraum di Karl Haushofer, Amilcare Palumbo passò i successivi tre decenni, fino alla morte, scrivendo ed elucubrando, mantenuto grazie ai gravidi proventi dell’antica fabbrica di pasta di mandorle di famiglia, che presto mise in mano al figlio, il padre di Domenico, un uomo cerebralmente modesto ma dal grande spirito gregario e imprenditoriale, che perfezionò un’innovativa formula di produzione, garantendo ai Palumbo l’immortalità economica. Pochissimi dei pamphlet prodotti dal nonno furono effettivamente pubblicati, per ovvio ostracismo politico, e alla sua morte il giovane Domenico trovò quasi 10.000 pagine di materiale da analizzare. Non l’ha ancora fatto, perché troppo distratto a contenere gli ardori dell’ormai ex moglie, ma custodisce tutti i faldoni nella teca centrale del suo studio-museo, ed è proprio per l’orgoglio di discendere da una mente destrorsa così raffinata e visionaria, che Domenico non può più accettare la contemporaneità. L’agorafobia è una forma di protezione che il suo corpo ha creato per guidarlo là dove la mente distratta non arrivava. Concentrarsi sulla Storia, conservare la Memoria. Fare da mantice alla flebile brace che rischia di spegnersi per sempre, in attesa di una nuova generazione di veri patrioti. Ora si accanisce su un’incrostazione da terreno calcareo che infesta tutta la parte superiore di una delle sue Eihandgranate 39, strofinando con un cotton fioc intriso di miscela Ballistol, ma non riesce a mantenere la mente lucida. La noia è un’emozione contagiosa, un’erba infestante per il cervello, e maledice l’indolenza di Gagliano, il piccolo italiano inconsapevole che instilla dubbi capziosi perché preferisce le scampagnate coi figli piccoli alla dedizione nei confronti di un progetto comunitario. Un involontario svincolo sinaptico lo riporta con la memoria al giorno in cui vide per la prima volta la figlia della sarta di Enna, con le sue caviglie sottili, le tibie leggermente rivolte in dentro, la mandibola stretta e severa, la pelle chiara. Servirono diverse orzate estive in omaggio, e ambasciate di amici e conniventi a testimonianza del patrimonio in espansione dei Palumbo, per convincerla a passeggiare insieme a lui lungo il Belvedere Marconi. Il precipizio biochimico lo fa capitombolare, e adesso si trova in un campo buio, sotto la figura filiforme di un acerbo pioppo bianco, nella notte arsa in cui si avverò il loro primo coito futurista: rapido, pieno di grugniti, violento, attentamente disinteressato al piacere femminile: come aveva tramandato il Duce e insegnato nonno Amilcare, noto anche come “l’Umberto Boccioni del talamo”. Rivoli di sudore lungo le tempie, il rumore elastico della biancheria risistemata, la richiesta insistente di un’orzata. La voce perentoria del doppiatore dell’Istituto Luce, senza che Palumbo se ne sia accorto, sta raccontando la catastrofica fine dell’assedio di Bastogne e l’inizio della controffensiva angloamericana. Non è chiaro quale sia la causa scatenante, se la voce di Iago dell’avvocato o quella terminale del doppiatore Luce, ma Palumbo subisce nel suo scantinato un grave attacco di panico con contrazioni a uncino degli arti – dovuta ad una poderosa e improvvisa iperventilazione – che gli fa staccare la spoletta di quella bomba a mano che, adesso, spera sia un falso. Il suo orecchio da collezionista specializzato sente lo sfrigolio dell’acciarino nel cono d’innesco, diretto alla fiala di donarite, e istintivamente allontana dal corpo la bomba, intrappolata nelle mani a uncino, come se la stesse alzando al cielo. Riesce a voltare la testa di lato, ma l’esplosione – depotenziata da decenni di pace omertosa – gli trancia entrambe le braccia all’altezza dei gomiti, e diverse schegge gli si conficcano nello stomaco e nelle gambe, proiettandolo all’indietro contro il muro. Lo shock sta rimandando il vero dolore, nonostante sia rimasto cosciente, ma Palumbo si rende conto di perdere francamente troppo sangue dalle braccia dimezzate. Quello di cui non si è reso conto a prima vista, però, è che le fiamme di espansione provocate dallo scoppio della bomba sono arrivate fino alle carte topografiche del tavolo, che sono disidratate da una lunga conservazione in soffitte molto secche, le quali hanno preso fuoco immediatamente, e adesso minacciano la generosa bottiglia di soluzione Ballistol ancora aperta a pochi centimetri di distanza. Spinto dall’ispirazione di Emilio Bianchi, come un manichino da esposizione che ha preso vita, Palumbo si rialza e incitandosi da solo – con parole magnifiche – si fionda verso il tavolo, tentando di allontanare le carte infuocate con la punta di un piede. Lo stordimento per la diminuzione del volume sanguigno, però, comincia ad essere debilitante per la coordinazione locomotoria, e una volta alzata la gamba Palumbo slitta di 180 gradi su se stesso, rovesciando il tavolo e provocando l’inconveniente incontro tra il liquido e le carte infiammate, sul pavimento, e creando una pozzanghera di fuoco che si spande sotto la teca ancora aperta delle bombe a mano collezionate da Palumbo. 76 granate in tutto, acquistate con i generosi proventi del lavoro e degli investimenti avveduti del padre. Prima di venire investito dalle onde concatenate di fuoco e metallo che lo uccidono, e bruciano per sempre i pamphlet per un riscatto imperiale, Palumbo fa in tempo a girarsi verso la fotografia di nonno Amilcare e a urlare: “Viva l’Italia!”.
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