La “gente” trascende il singolo, eppure resta individualista: qualcosa non torna. Un’analisi di La gente di Leonardo Bianchi
Leonardo Bianchi è uno dei più puntuali commentatori della cronaca nostrana: se in questi anni avete seguito Vice Italia sicuramente vi sarete imbattuti in suoi reportage , articoli di debunking o ricostruzioni del dibattito politico ). Lo stile di Bianchi è immersivo, riccamente documentato, e tende a mettere in luce le incomprensioni linguistiche, o ideologiche, che alimentano gran parte dell’opinione pubblica italiana. In un contesto giornalistico in cui la partigianeria sembra mistificare ogni ambizione di imparzialità, quella di Bianchi appare come una delle poche voci in grado di raccontare un fenomeno a trecentosessanta gradi.
Nell’ultimo quinquennio il lavoro di Bianchi si è concentrato sul racconto del gentismo, una particolare forma di populismo che viene spesso evocata come maledizione o etichetta non meglio identificata, ma che in realtà necessita di un’esegesi ben più approfondita. La gente è la sistematizzazione dell’attività giornalistica dell’autore: un tentativo di organizzare la cronaca dei nuovi populismi in maniera filologica, per mettere in luce non solo le istanze di un fumoso soggetto sociale, ma anche sviscerarne l’immaginario, evidenziare come il fascino della semplificazione abbia contaminato i segmenti più disparati del discorso pubblico.
Ma quali sono le caratteristiche del gentismo? Bianchi le sintetizza in questo modo:
1) La contrapposizione tra la Gente e la Casta, contrassegnata dal mito perenne di una «Rivoluzione» che spazzi via quest’ultima.
2) L’«indignazione» o l’«esasperazione» come fattori primari di mobilitazione del «cittadino indignato» o «esasperato», una figura che si presenta sempre e comunque slegata da qualsiasi fazione politica (anche se spesso non è così);
3) La creazione di «realtà parallele» – come possono essere l’«ideologia gender», certe teorie del complotto o «Gentelandia» (la parte gentista dell’internet italiano). Idee che non solo strutturano una visione del mondo antitetica alla «realtà ufficiale», ma hanno la capacità di provocare effetti assolutamente concreti.
Il gentismo si fonda sulla dinamica del prosuming – il consumatore che diviene egli stesso produttore: in questo caso l’indignazione verso una non meglio specificata classe che presiede le istituzioni origina il tentativo del singolo di proporsi quale attore nella scena politica. L’opposizione fra Gente e Casta è simile a quella fra Noi e Loro, una lettura della realtà che adotta un fallace rasoio occamiano per leggere fenomeni troppo complessi. Ed è proprio sul piano delle credenze – dunque dell’immaginario – che si definisce il tratto fondamentale del gentismo, ovvero la creazione di una narrazione che trascende il singolo, pur preservandone il desiderio di affermazione personale tipico della retorica da self-made man capitalista, per connettere gli individui in un insieme sociale che si pone come ridefinizione del popolo. La composizione di classe all’interno della galassia gentista è variegata, per questo un gruppo sociale così eterogeneo è tenuto insieme dal ruolo delle aspirazioni e dal tentativo di reagire al declassamento che ha investito le società occidentali dopo la crisi economica. Dai piccoli imprenditori che sperimentano gli effetti della crisi sulla propria attività, alle fasce basse private degli ammortizzatori sociali, passando per i lavoratori a partita IVA ormai in una situazione cronica di precariato, e per gli impiegati pubblici a cui è stato imposto il giro di vite delle riforme pensionistiche e sindacali: si tratta di sacche della popolazione che faticano sul mercato del lavoro; per questo si appellano a rivendicazioni-ombrello che tengono insieme esiti anche contrastanti fra loro.
Se nel proletariato il gentismo si configura come reazione alla sensazione di “essere invasi” dai nuovi poveri delle migrazioni, nella classe media è lo sfogo all’impoverimento, la presa di coscienza di non poter più mantenere il tenore di vita acquisito in un cinquantennio di capitalismo in ascesa. In tutti i casi c’è un tentativo di rivalsa, un odio verso il potere (ubiquo e onnicomprensivo, da migliore tradizione postmoderna) che vessa chi non è in cima alla piramide.
Nel 1991 Don DeLillo rifletteva sui centri di produzione dell’immaginario occidentale, nel romanzo “Mao II” scriveva:
Da qualche tempo ormai ho l’impressione che i romanzieri e i terroristi stiano giocando una partita che si conclude zero a zero. Quello che guadagnano i terroristi, lo perdono i romanzieri. Il potere dei terroristi di influenzare la coscienza di massa è la misura del nostro declino in quanto forgiatori di sensibilità e del pensiero. Il pericolo che essi rappresentano è pari alla nostra incapacità di essere pericolosi.
-->Per DeLillo la perdita di influenza sul simbolico da parte delle classiche istituzioni (politiche, morali, artistiche) va a favore di variabili impazzite, quali i terroristi o le fluttuazioni del mercato finanziario: dinamiche e fattori la cui incidenza è casuale, ma non per questo meno traumatica. Allo stesso modo i centri di potere divengono delocalizzati, difficili da individuare. Ma cosa succede se la produzione di immaginario subisce un’ulteriore frammentazione? Nella contemporaneità – complice l’accesso di massa alle nuove tecnologie – siamo noi stessi a produrre la nostra narrazione, lo facciamo ogni giorno sui diversi social (e lo facciamo nella vita reale quando parliamo della nostra identità online). La cosa vale anche per chi decide di porsi fuori dal recinto di internet perché, di fatto, si sta sottraendo a una dinamica generalizzata, dunque sta operando una scelta che lo definisce. In un contesto di tale moltiplicazione è difficile definire o descrivere le istituzioni fisiche che regolano i rapporti di forza del reale, il potere è il sistema stesso di cui abbiamo assorbito le modalità di occultamento. Con chi prendersela, allora?
Per mascherare l’impotenza, la retorica del gentismo generalizza il nemico, lo individua nella categoria del “potere” – una scatola vuota a cui dare significati specifici a seconda delle circostanze – e fa propria la figura della vittima. Il vittimismo è il modo di demandare a cause esterne le criticità della propria condizione, dunque è una pratica che appone una cesura ideologica sulle reali dinamiche socio-economiche. In Critica della vittima Daniele Giglioli indica nel vittimismo una fra le principali figure retoriche del nostro tempo:
La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subíto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto.
La retorica del vittimismo ben si sposa con quella – altrettanto abusata – del complotto. Il complotto è il tentativo di ricondurre a un senso compiuto una realtà contraddittoria, la paranoia è il modo di approcciarsi alla realtà del discorso complottista, essa è un sintomo della doppiezza della contemporaneità: se l’immagine del reale ci sfugge, l’unico modo per preservarne l’integrità è dubitare di qualsiasi cosa. Così la massa si modella sulla forma del gentismo: una moltitudine frammentata in cui l’individuo si associa per tornaconto personale, non più un soggetto sociale con rivendicazioni univoche ma una sacca mutevole che agisce solo in base al risentimento. D’altronde la categoria linguistica in cui si riconosce il popolo gentista è “io sono la gente”, non un plurale ma un singolare che mette in luce la componente individuale di un discorso che, essendo politico, dovrebbe vertere alla pluralità. Bianchi, riprendendo Mauro Trotta, delinea così la frammentazione ontologica della galassia gentista:
I valori veicolati dalla «nuova incarnazione del populismo», afferma Trotta, sono quelli del «capitalismo più aggressivo all’insegna del “Dio mercato”: la competizione, il successo a tutti i costi, i soldi, il consumo, gli status symbol». Il tutto risulta soffuso da un’aura di gentilezza e in ultima analisi di impotenza: «è sempre stato così», «questa è la vera natura dell’uomo». La tradizione, pur essendo in realtà finta, da Mulino Bianco, viene accettata e introiettata perché rassicura, compensa la perdita della vecchia identità – fondata sulla vecchia struttura sociale e sul lavoro – con una nuova, fittizia: «io sono la gente».
Impegnati nella ridefinizione della categorie marxiste, Hardt e Negri rielaborano la lotta di classe come una dialettica fra Impero e Moltitudine, la caratterizzazione della moltitudine secondo il pensiero di Negri presenta in nuce ciò che abbiamo ravvisato nel modello gentista:
La moltitudine è una molteplicità di singolarità, che non può trovare in nessun senso unità rappresentativa; popolo è invece una unità artificiale che lo Stato moderno esige come base della finzione di legittimazione; la massa è, d’altra parte, il concetto che la sociologia assume alla base del modo capitalistico di produzione (sia nella figura liberale che in quella socialista di gestione del capitale), in ogni caso un’unità indifferenziata. Per noi invece, gli uomini sono singolarità, una moltitudine di singolarità. Un secondo significato di moltitudine deriva dal fatto che noi la opponiamo a “classe”. Dal punto di vista di una sociologia del lavoro rinnovata, il lavoratore si presenta infatti sempre più come portatore di capacità immateriali di produzione. Il lavoratore si riappropria dello strumento/utensile del lavoro. Nel lavoro produttivo immateriale, lo strumento è il cervello (e così ha termine anche la dialettica hegeliana dello strumento). Questa capacità singolare di lavoro costituisce i lavoratori in moltitudine, anziché in classe. Di qui, di conseguenza, un terzo terreno di definizione, che è quello più specificatamente politico. Noi consideriamo la moltitudine una potenza politica sui generis: è rispetto ad essa, cioè rispetto ad una moltitudine di singolarità, che vanno definite le nuove categorie politiche.
É interessante notare come la bipartizione Impero/Moltitudine riecheggi quella ben più grossolana Casta/Gente. Se l’analisi di Hardt e Negri si concentra sul bersaglio reale – ovvero la disuguaglianza fra sistema economico e classi sociali che lo abitano – la retorica gentista non prende in considerazione i rapporti di forza insiti nei modi di produzione e riduce la dialettica a uno scontro fittizio fra soggetti falsati.
La narrazione populista si origina da un vuoto di immaginario che non si manifesta nell’assenza bensì – al contrario – nella saturazione. Il merito del libro di Bianchi è ricostruire la cronaca degli ultimi anni con minuzia di particolari. Questo ci dà la possibilità di individuare i vettori del populismo nostrano. Dalla ricostruzione si evince un presente ballardiano in cui il discorso politico è saturo dell’immaginario pop postmoderno. In Londra chiama proprio Ballard – poco prima di morire – ci ammoniva sui pericoli del consumismo assurto a unico orizzonte cognitivo delle società occidentali:
Ecco dove la gente vota oggi, non più nell’urna elettorale. Dove le persone vanno a votare ogni giorno, anche più volte al giorno, è al seggio delle casse, votano per Mc Donald’s, se sono ricchi per Prada. È una società completamente dipendente dai consumi e dalle merci, il che è comprensibile perché viviamo immersi nella cultura dello spettacolo. È tutto ciò che abbiamo, comprare cose è il nostro divertimento. Quando andiamo a fare shopping, è come se acquistassimo dei giocattoli che regaliamo a noi stessi. La cultura dello spettacolo che abitiamo ci sta infantilizzando, ci obbliga a tornare bambini.
Quando Bianchi racconta un fenomeno ne mette in luce la grammatica narrativa e l’immaginario di riferimento: dalla storia di Spider Truman – un presunto insider di Montecitorio che si fregiava di “svelare i segreti della Casta” debitamente mascherato – si evince l’utilizzo di un’estetica complottarda, a metà fra il cyberpunk e il giustizialismo di V per Vendetta. Allo stesso modo nella ricostruzione delle “rivoluzioni” fallite del Movimento dei Forconi si individua il ritorno delle parole d’ordine e dell’immaginario fascista, così come nel caso Stacchio si racconta un Nord-est fatto di villette e piccole proprietà private da difendere, un universo sottilmente guerrafondaio in cui la retorica machista si fonde con il mito del cowboy.
L’immaginario populista conferisce un nuovo significato a temi e figure della cultura pop, una dinamica che si iscrive nel più vasto movimento di sedimentazione del discorso postmoderno nel paesaggio culturale. L’unione di realtà e finzione nella realtà spettacolarizzata che viviamo tutti i giorni è ormai acclarata, basti pensare alla strumentalizzazione politica del fenomeno delle fake news o all’onnipresenza dello storytelling – dalle campagne pubblicitarie, ai programmi televisivi a metà fra talent e reality, passando per la gestione della nostra identità online. Secondo Baudrillard la nostra cultura è «un gigantesco ologramma, nel senso che l’informazione totale è contenuta in ciascun elemento», la saturazione simbolica della cultura contemporanea porta a svuotare il significato della pienezza. Nel libretto “America” Baudrillard fa ruotare le proprie considerazioni sugli Stati Uniti attorno alla figura del deserto: per il filosofo francese lo spazio vuoto del deserto si oppone al flusso di significati decodificati della cultura occidentale, eppure – nota Baudrillard – l’America appare come la «società primitiva attuale». In una cultura che ha fatto della mercificazione il fondamento della propria prosperità, persino un luogo che dovrebbe incarnare il concetto di vuoto – ovvero il deserto – è costretto nella grammatica del turismo, dunque viene “riempito” dal significato simbolico del consumo. Se anche il vuoto è spettacolarizzato, allora non vi interstizio cognitivo in cui il linguaggio non sia omologato. Questa dinamica uniforma ogni luogo al discorso della cultura ufficiale, e pone l’artificio della merce come realtà di base in cui si muovono le società occidentali. Baudrillard conclude che «tutta l’America, in questo senso, è per noi un deserto. La cultura è selvaggia: ha sacrificato l’intelletto e ogni estetica, trascrivendosi letteralmente nella realtà». Nelle riflessioni di Baudrillard sull’America possiamo ritrovare la dinamica della cultura occidentale globalizzata, il dibattito sulla postmodernità è finito non perché si è esaurita la spinta propulsiva, ma perché quell’immaginario si è liquefatto nel reale, diventandone parte integrante. Da questi cambiamenti si origina la nuova massa frammentata della galassia gentista, un altro merito del libro di Bianchi – oltre all’aspetto prettamente giornalistico – sta proprio nel delineare l’autoreferenzialità dell’immaginario a cui si uniformano le esperienze gentiste.
Di nuovo Ballard nell’incipit del suo ultimo romanzo – “Regno a venire” – scriveva «i quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti dai benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l’arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione». In politica questi vettori irrazionali si manifestano nelle pratiche semplificatorie del nuovo populismo, un fenomeno che porta l’intero dibattito pubblico a confrontarsi con livelli sempre più bassi del discorso ideologico e linguistico. Questa dinamica è sfruttata dai partiti politici per propiziare la propria ascesa e il gentismo si trova – da fenomeno marginale qual era – ad acquistare centralità nel palcoscenico democratico. Come ci ricorda Bianchi: «partito dai margini negletti e oscuri, il gentismo si è ormai preso il centro della scena politica italiana. E non ha alcuna intenzione di abbandonarlo». Definito il problema sorge spontanea la domanda successiva: come fare a combatterlo?
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