La possessione spiritica non è una malattia mentale



Si tende a ridurre i fenomeni di possessione e i rituali di esorcismo a pratiche mediche primitive, ma questa interpretazione coglie solo una piccola parte di un fenomeno complesso.


In copertina e nel testo: Vinicio Berti, figura di donna, asta pananti in corso

Questo testo è estratto da “Il diavolo in corpo”, a cura di Moreno Paulon. Ringraziamo l’autore e Meltemi per la gentile concessione.


di Jean-Pierre Olivier de Sardan

Sulla trance in generale, e sulla trance da possessione in particolare, si sono sviluppate molte interpretazioni terapeutiche, specialmente lungo i confini fra antropologia, psicoanalisi e psichiatria. Tutte fanno riferimento, ora più ora meno, all’efficacia simbolica dei rituali di possessione in qualità di cura. Sembrerebbe infatti evidente che ci troviamo di fronte a una cura. Il rituale di possessione procurerebbe il recupero, l’equilibrio o la guarigione a un soggetto sofferente, di solito minacciato dalla follia o già colpito da essa. Tale constatazione è il terreno comune di tutte le interpretazioni terapeutiche della possessione. Si offre come una visione neutra, ovvia, basata sulla semplice descrizione di una realtà che incontra il consenso fra l’osservatore e i suoi soggetti, proponendo una realtà organizzata attorno a tre poli apparentemente inconfutabili: un malato (preferibilmente malato di mente), un “terapeuta tradizionale” (un esperto di possessione), una tecnica simbolica di trattamento (il rituale della possessione e i suoi dintorni). Si potrebbe parlare di un’evidenza terapeutica, ma questa non è universalmente valida. Si tratta di una visione della realtà che non è così condivisa come si direbbe a prima vista, tutt’altro. Non lo è né fra gli attori locali né fra gli etnologi sul campo, nella misura in cui i secondi si sono sforzati di rendere conto delle rappresentazioni dei primi. Gli etnologi alle prese con i rituali di possessione generalmente non hanno abbandonato l’evidenza terapeutica, nemmeno quando i dati che raccoglievano se ne discostavano chiaramente. Intendo mostrare che, analizzando da vicino le concezioni indigene sulla possessione (almeno per quanto riguarda l’Africa occidentale e il sistema afroamericano), questa cosiddetta ovvietà non è altro che una sovrainterpretazione importata dall’osservatore. L’evidenza terapeutica è un’illusione. Certamente l’interpretazione è un processo inerente alle scienze sociali. Il problema nasce quando un’interpretazione non ha basi empiriche e si pone in contraddizione con le rappresentazioni native, o emiche. Diciamolo bruscamente (rimedierò più avanti): i seguaci della maggior parte dei culti di possessione africani e afroamericani non intendono assolutamente guarire una malattia mentale. Nessuna interpretazione antropologica può permettersi di ignorare i significati che i fatti studiati possiedono per gli attori interessati. Se l’interpretazione antropologica non può limitarsi a parafrasare l’emica, deve comunque basarsi su di essa e renderne conto. Per quanto riguarda i culti di possessione, dal momento che prestiamo una certa attenzione ai sistemi di significati elaborati dai soggetti, le interpretazioni terapeutiche appaiono presupposti contestabili applicati alla realtà. Senza dubbio esistono dei rapporti fra la possessione, la sofferenza, la malattia, la follia, e sono proprio questi rapporti che alimentano l’illusione terapeutica. Ma simili relazioni non possono darsi per scontate.

Per analizzarle, tratterò un caso specifico: quello delle pratiche e delle rappresentazioni della possessione così come si trovano nelle società islamizzate dei djerma-songhai nel Niger occidentale. Vedremo che i metodi locali di terapia (che in senso lato sono tutte forme di esorcismo) differiscono dalla sfera della possessione (la quale è prima di tutto un’elezione e un’alleanza). Ma poiché a questo riguardo il caso dei djerma-songhai non è l’unico, cercherò di abbozzare le condizioni per la sua estensione a insiemi più vasti, siano essi i sistemi di possessione o i culti di afflizione. In questo modo, cercherò di proporre una soluzione al problema dell’attuale sviluppo delle interpretazioni terapeutiche all’interno di certi culti di possessione. Tornerò anche sull’uso frettoloso del riferimento lévi-straussiano all’efficacia simbolica.

Possessione-elezione e terapia-esorcismo fra i djerma-songhai (Niger)

A grandi linee, il fenomeno della possessione dei djerma-songhai è noto da molto tempo. Queste pratiche si svolgono in una regione che è stata quasi interamente islamizzata (in parte nel Medioevo, ma soprattutto dalla fine del xix secolo) e coesistono pacificamente e/o conflittualmente con tutta una varietà di pratiche magico-religiose o magico-terapeutiche molto differenti. Alla base del fenomeno c’è un insieme di rappresentazioni, ampiamente condivise anche da parte di coloro che sono estranei ai rituali di possessione. Eppure, permettere al lettore di accedere a queste rappresentazioni emiche, per quanto semplici e niente affatto esoteriche, è un compito meno facile di quanto sembri, perché con la traduzione francese delle espressioni djerma-songhai si introduce il rischio di imporre prematuramente delle sovrainterpretazioni.

La traduzione

Come ogni etnologo di campo che svolge di continuo (consapevolmente o inconsapevolmente) una traduzione dei termini indigeni, io posso indurre una lettura “religiosa” oppure una lettura “terapeutica” dei fenomeni grazie ad alcune semplici scelte lessicali. Si consideri un esempio:

Prendiamo il termine djerma-songhai haanyon, usato per indicare l’operazione mediante la quale uno specialista cerca di determinare se uno spirito è la causa delle disgrazie di qualcuno oppure no. Parlare di diagnosi o parlare piuttosto di divinazione indirizza il lettore verso una traccia (quella terapeutica) o verso un’altra (quella religiosa). In realtà, l’accezione comune di haanyon è, molto prosaicamente, “interrogazione”.

Facciamo un altro esempio, attorno a ciò che generalmente chiamiamo iniziazione. Per una settimana un nuovo adepto vivrà in isolamento, circondato da altri seguaci. Imparerà le espressioni e i passi di danza del suo spirito. Una cerimonia finale sancirà la sua nuova abilità di essere posseduto ritualmente. Nelle interpretazioni terapeutiche, questa fase è spesso descritta come cura. Nella lingua djerma-songhai, si parla di gaanendi. Ora, questo termine ha un significato molto chiaro e molto banale, che non evoca né le connotazioni religiose di una “iniziazione” né quelle terapeutiche della “cura”. Gaanendi significa semplicemente “fare una danza”. È vero che si può usare un’altra espressione: hoorendi. Ma hoorendi significa “divertirsi”, “fare festa”. Una qualsiasi danza di possessione in djerma-songhai non si chiamerà “culto della possessione” e nemmeno “psicoterapia di gruppo”, ma molto prosaicamente “divertimento degli spiriti” o “festa degli spiriti” (holle hoore).

Per minimizzare questa distorsione, cercherò di fornire la traduzione più prossima possibile alle nozioni djerma-songhai relative alla possessione, termini che per molti di loro appartengono al linguaggio quotidiano e che quindi dovrebbero essere percepiti nel loro ambiente semantico abituale, invece di essere forzati verso traduzioni accademiche inappropriate. Non sempre è facile.

La filiera della “possessione”

Partiamo dal percorso abituale che definisce la possessione. All’inizio, è incontestabile, troviamo sofferenza, disgrazia, afflizione. Un soggetto è vittima di disturbi: emicranie ricorrenti, infertilità femminile, mal di stomaco, attacchi di paralisi, visioni ossessive, perdita della ragione ecc. L’elenco dei possibili disturbi è lungo. Di questi malesseri del corpo e della mente, davvero pochi si riferiscono a quella che in djerma-songhai viene chiamata “follia”. Inoltre tutti questi disturbi possono avere molteplici cause, oltre all’intervento degli spiriti della possessione: può trattarsi di malattie naturali (sovente chiamate “malattie di Dio”, Irkoy doori, che sono le più frequenti), oppure di malevolenza dei maghi, di attacchi di “stregoni mangiatori di anime”, di attacchi di spiriti importuni… Comincia allora un processo molto pratico fatto di tentativi ed errori, si esplorano diverse filiere, vale a dire si consultano in sequenza diversi specialisti (dispensari, marabutti islamici, maghi, vecchie zitelle, indovini ecc.). Nel corso di questo percorso, per esempio se le soluzioni offerte da altri canali non portano alcun sollievo, può nascere il sospetto che i problemi in questione siano causati dalla possessione di uno “spirito” (holle) e quindi ci si reca a consultare uno zimma, vale a dire un “signore degli spiriti”. A proposito: come si può tradurre il termine djerma-songhai zimma, che non ha altre accezioni nella vita di tutti i giorni? Potrei tradurlo con “sacerdote degli spiriti” assecondando inclinazioni religiose, oppure con “guaritore” sbilanciandolo verso l’ambito terapeutico. Comunque sia, l’introduzione del soggetto presso uno zimma segna l’ingresso nella filiera della possessione spiritica. Imboccato questo iter, troviamo subito un bivio decisivo: è necessario conoscere il nome dello spirito che tormenta il soggetto. Questo accade nel corso di una cerimonia particolare chiamata kaa tare (“portare fuori”, vale a dire nella boscaglia) oppure fimbiyon (“spolverare”, perché la cerimonia si svolge su un formicaio), durante la quale si cerca di innescare la possessione del soggetto da parte dello spirito. Se lo spirito non rivela il suo nome, si tratta di uno spirito “selvaggio” o “maligno” (ganji futu). È sconosciuto, innominato perché innominabile, non “socializzato” (ganji kan sii nda maa: “uno spirito che non ha nome”). In questo caso è da espellere il più presto possibile mediante le procedure tradizionali di esorcismo: fumigazioni, incantesimi ecc. In tale circostanza lo zimma, il signore degli spiriti, “guarisce” il soggetto estirpando il colpevole dal corpo del sofferente, come farebbero gli altri specialisti qualora l’aggressione, invece che da uno spirito, fosse attuata da una forza di loro competenza: in alcuni casi si tratta di stregoni divoratori di anime, altre volte di fantasmi, altrove ancora di certi microbi ecc. Ci troviamo effettivamente all’interno del registro della terapia. Si tratta di espellere un male, vale a dire di esorcizzare. In questo caso, lo zimma esercita la funzione di terapeuta.

Se invece lo spirito rivela il suo nome (parlando attraverso la bocca del soggetto posseduto durante la cerimonia del kaa tare) entriamo in un altro registro: inizia un percorso di “addestramento”, di “assestamento”. Questo è il significato di hanse, un termine molto comune, utilizzato in djerma-songhai per indicare otto giorni di “danze” (gaanendi) insistendo sul rapporto che si instaura fra il soggetto e lo spirito. Ancora una volta ci troviamo distanti dalle connotazioni trasmesse attraverso le traduzioni di “iniziazione” o di “cura”. Lo spirito che tormentava il soggetto è un’entità conosciuta, che ha una sua collocazione nel pantheon djerma-songhai. È uno spirito familiare: si conoscono i suoi motti, i suoi divieti, il carattere, le manie. La “danza”, “l’assestamento”, sono una forma di regolamentazione e di normalizzazione dei rapporti fra lo spirito che “chiama” e il soggetto che “è stato chiamato”. Al termine di questo periodo viene sancita l’alleanza fra i due soci: l’uomo presterà occasionalmente il suo corpo allo spirito, il quale lo invaserà e parlerà attraverso la sua bocca nel tempo di una trance rituale. Si dice anche che lo spirito “monta il suo cavallo” (karu bari). Ma questa metafora equestre non indica un dominio dispotico senza contraltari. La metafora coniugale utilizzata altrove (dove l’adepto è la “sposa” dello spirito) mostra che c’è un margine di negoziazione e che lo spirito, in qualche misura, ricambia il favore: l’adepto domanda un servizio al suo spirito e trae dal suo ruolo di portavoce dei benefici simbolici e materiali che consentono di parlare chiaramente di un’alleanza (waafaku) tra uomo e spirito. In un certo senso è una relazione di patrocinio. C’è un’altra metafora sociale molto comune: quella della schiavitù o della prigionia. L’adepto è “schiavo” dello spirito (holle banniya). Due persone che sono sotto la protezione dello stesso spirito sono in una relazione di kotomo, un termine che normalmente designa la relazione che unisce due schiavi dello stesso padrone. Sappiamo che il termine “schiavitù” non è sufficiente per esprimere le varie forme di servaggio presenti in Africa, e che la relazione servo-padrone (banniyaborcin) presenta spesso gli aspetti di un legame di patrocinio. Le varie immagini utilizzate mostrano comunque chiaramente che il rapporto di un uomo con il suo spirito rientra contemporaneamente nella dipendenza e nell’alleanza. La condizione di “forza” dello spirito e di soggezione dell’adepto non esclude che d’ora in avanti entrambi sentiranno di avere bisogno uno dell’altro. Qui, inoltre, riposa il senso (emico) dei malesseri iniziali mediante i quali lo spirito si è manifestato: lo spirito ha segnalato la sua esistenza, ha espresso il desiderio di stabilire una connessione, e tutti i disturbi che ha inflitto erano solo le figure di una chiamata ad hominem per trovare una persona che occasionalmente gli prestasse il corpo e la voce. Un “dolore attraverso il quale gli spiriti ti afferrano” (holley diyoŋ doori) e un “dolore che sarà seguito da un spirito” (holley ganayoŋ doori): è esattamente con queste espressioni che in djerma-songhai si indicano le malattie, le sofferenze, i disturbi di un futuro posseduto, per distinguerle dalle malattie, dalle sofferenze e dai disturbi di altra natura.

Per quanto riguarda la trance da possessione in se stessa, lungi dall’essere la manifestazione parossistica di un soggetto che si esprime nella sregolatezza “anormale” del suo corpo, essa al contrario è percepita da tutti come una parentesi “normale” nella vita del soggetto, durante la quale il suo corpo è invasato da ciò che gli esponenti della società locale chiamano uno spirito. Mi si dirà che gli spiriti non esistono, e io sono ben d’accordo. Qualcos’altro sta effettivamente parlando al posto loro. Non so che cosa sia, ma so qualcosa di come si manifesta: le parole degli spiriti sono parole eminentemente sociali, i personaggi degli spiriti sono personaggi eminentemente sociali. Si tratta, in altre parole, di ruoli, sempre molto antropomorfi. Ogni spirito ha il suo: molto ben definito, ben strutturato, elaborato intorno a stereotipi costanti. E quando uno spirito “a cavallo” del suo posseduto si libera a tenui variazioni sul tema delle sue solite esortazioni morali, o delle sue stravaganze abituali, richiama irresistibilmente le improvvisazioni della commedia dell’arte intorno a un canovaccio ben rodato. Non ci troviamo né all’interno dell’universo della malattia né in quello della cura. Siamo piuttosto nel dominio classico delle rappresentazioni collettive, nel vero senso dell’espressione: abbiamo infatti uno spettacolo, che presuppone una messa in scena ben costruita, cristallizzata e stabilizzata. Questo spettacolo, occorre sottolinearlo, si evolve nel corso del tempo con la comparsa regolare di nuove famiglie di spiriti che ampliano senza posa il repertorio dei ruoli disponibili.

Vinicio Berti, figura di donna

L’elezione

Come si possono collegare questi ruoli ai soggetti, dal momento che esiste una relazione individuale fra il posseduto e il suo spirito? Forse la psicanalisi potrebbe offrire interpretazioni soddisfacenti, laddove fosse sensibile ai dati empirici e conscia dei rischi di una sovrainterpretazione? Non ho le competenze per rispondere a queste domande. Ma è chiaro in ogni caso che non possiamo vedere in tutto questo una forma di terapia senza commettere un abuso. Tuttavia è vero che c’è una malattia, c’è una sofferenza, e questo esige alcuni chiarimenti. L’iniziale stato di malessere nell’itinerario della possessione spiritica riguarda una malattia che in effetti non viene curata in senso stretto, in quanto non rientra nel processo di espulsione e di esorcismo che, al di là delle varie eziologie culturali, appartiene a ogni processo terapeutico (id est: liberare il più possibile il soggetto da un agente patogeno materiale o simbolico). Queste malattie appartengono piuttosto a una fase di richiamo, che conduce a un’alleanza a lungo termine.

A posteriori, la sofferenza iniziale cambia di senso: si tratta di un’elezione. Naturalmente potremmo osservare che una simile elezione è anormale, straordinaria (come nel caso della mistica cristiana). Potremmo poi osservare che il fatto che questa scelta si esprima per mezzo della sofferenza genera da una particolare perversione (e di nuovo, forse, è il caso della mistica cristiana). Sfortunatamente il contesto locale smentisce formalmente queste dichiarazioni: l’alleanza fra un uomo e uno spirito è di una grande banalità, e l’educazione mediante la sofferenza non ha nulla di sorprendente nelle culture africane. Torniamo nuovamente alle metafore menzionate più frequentemente per descrivere la relazione simbolica che unisce uno spirito e il suo adepto: cavallo/cavaliere, moglie/marito, servo/padrone. Sono tutte di carattere sociale e rinviano a modelli quotidiani, ordinari, comuni. Niente di più banale di un cavallo, di una moglie, di uno schiavo. E niente di più banale di un posseduto. Del resto, una seduta di possessione è uno spettacolo familiare, informale, non privo di umorismo, uno dei rari rituali religiosi in cui si può parlare del più e del meno con gli dèi, nel mezzo del brusio di conversazioni cordiali o di bambini che giocano. Anche le relazioni uomo/spirito sono sociali, in quanto implicano una socializzazione. Vengono insegnate, ma non attraverso un apprendistato formale: a questo riguardo l’iniziazione alla possessione (l’assestamento o addestramento, hanse) non conferisce alcun sapere esoterico particolare, e ancora una volta la parola è inappropriata. Le relazioni fra gli uomini e gli spiriti si apprendono in modo informale (ma strutturato), come un puledro si doma poco alla volta, una giovane sposa si educa, uno schiavo impara a eseguire gli ordini. Restiamo sull’apprendistato. Qualsiasi “maestro”, qualsiasi esperto, che sia un mastro fabbro (zem cire), un mastro griot (jesere dunka), un mastro mago (sohance), vi dirà che nessun sapere, nessun potere si acquisisce impunemente, ma che tutto si guadagna pagando di tasca propria con il sudore della fronte, a volte con il sangue, e che tutti i nuovi apprendisti devono dare prova della loro voglia di imparare offrendosi come schiavi al maestro al quale chiedono la conoscenza. Detto altrimenti, l’alleanza iniqua fra un maestro e un apprendista non può cominciare che nella sofferenza, e non c’è “domanda” autentica che non passi per l’accettazione della sofferenza. A questo proposito la relazione adepto/spirito rientra nella legge comune dei normali rapporti di apprendistato (che sono anche relazioni di patrocinio).

Così siamo indotti a considerare, con i parlanti djerma-songhai, che la sofferenza inaugurale di un itinerario di possessione (la malattia) non sia altro che una richiesta imposta da uno spirito (vale a dire dalle rappresentazioni collettive associate alla parola spirito). Da una retorica della terapia, che esiste nella cultura djerma-songhai come in ogni altra e che dispiega le sue procedure di esorcismo attraverso specialisti magico-terapeutici, eccoci approdati a una retorica dell’alleanza e della conoscenza.

Follia

Qual è il ruolo della follia in tutto questo? Se ritorniamo nuovamente sul campo della semantica locale, esiste un legame diretto tra possessione spiritica e patologia mentale: per dire “pazzo”, il linguaggio djerma-songhai usa spesso hollekom, espressione che significa grosso modo “colui che ha uno spirito” (esistono anche altre espressioni, senza rapporti con la nozione di spirito, come miitante). Quindi, nonostante tutto, il posseduto sarebbe assimilato al pazzo? Le cose non sono così semplici.

Quando Vidal distingue “fra la follia cronica e incurabile e la follia del posseduto”, basandosi sulla traduzione popolare delle espressioni djerma-songhai, sembra fedele al significato emico e si troverebbe quindi legittimato a utilizzare la parola follia a proposito di un posseduto. Il posseduto sarebbe allora un folle episodico e controllato. Ora: nessuno, in nessuna parte del Niger, confonderà mai un pazzo e un adepto della possessione. Un seguace degli spiriti è detto “cavallo dello spirito” (holle bari), oppure “schiavo dello spirito” (holle tam o holle banniya). “Colui che ha uno spirito” (holle kom) non sarà mai sinonimo di “pazzo”. Al di là delle sottigliezze terminologiche, un “cavallo dello spirito” è una persona perfettamente rispettabile, normale e sana di mente. Le rappresentazioni locali sono inequivocabili. Dal fatto che un individuo sia il “cavallo di uno spirito” non si può dedurre a priori che sia più o meno equilibrato di un altro. Un pazzo, d’altro canto, è chiaramente pazzo.

Ma allora quale rapporto lega il folle e lo spirito? Torniamo al processo descritto sopra, più precisamente alla diramazione dove si separano l’esorcismo, vale a dire la terapia che tenta di scacciare gli spiriti senza nome, e l’adorcismo, cioè l’alleanza rituale che conduce allo stato di cavallo dello spirito. L’esorcismo può fallire, e la follia è una delle forme di questo insuccesso. Il folle è qualcuno che è stato afferrato da uno spirito che non ha più lasciato la presa. Non si tratta di uno spirito noto, è uno spirito sconosciuto, e in queste situazioni gli specialisti navigano a vista: a volte l’operazione funziona, a volte non funziona. La follia non è né a monte né a valle della possessione, è un’altra filiera. Il pazzo non può essere posseduto ritualmente, vale a dire in modo socializzato da uno spirito socializzato esso stesso, perché è tenuto permanentemente al di fuori della sfera del sociale ad opera di uno spirito non socializzabile. La possessione rituale è preclusa al pazzo. Su di lui non è possibile attuare l’adorcismo, non si può stabilire un’alleanza. Si deve ricorrere all’esorcismo. Ritorniamo nel dominio della terapia, fondamentalmente aleatoria, e non più in quello della formazione, dell’incorporazione, di un processo di socializzazione molto ben definito e con sbandamenti sporadici. L’adorcismo, l’alleanza rituale fra lo spirito e il suo cavallo, è una tecnica che funziona quasi sempre, se solo si determina che si è alle prese con la chiamata di uno spirito e a condizione che lo zimma sia competente. L’assestamento, questo addestramento che fonda la relazione di patrocinio adepto/spirito, non presenta grandi rischi di insuccesso. L’esorcismo terapeutico, al contrario, è sempre incerto, tanto quello della medicina dei bianchi quanto quello dei vecchi rimedi, quello dei maghi antistregoni come quello dello zimma. Il pazzo, proprio lui, è dalla parte del fallimento. Non è al pazzo che sono rivolti i rituali di possessione, e tanto meno in trance viene cavalcato da uno spirito: è colui al quale è preclusa la filiera della possessione. Posseduto costantemente da uno spirito asociale che non si è potuto espellere, il personaggio del pazzo si oppone a quello dell’adepto dei rituali di possessione, che viene invasato occasionalmente da uno spirito sociale con una funzione familiare. La relazione tra possessione e follia non consiste nel fatto che nella possessione si anniderebbe della follia, ma in quello che sia nella follia sia nella trance c’è “dello spirito”. Ma il rapporto con lo spirito, nell’uno e nell’altro caso, è senza confronto.

Alcune proposte generali

A partire da queste poche considerazioni riferite al caso particolare della cultura djerma-songhai, è possibile proporre alcune affermazioni di portata più generale e con una maggiore estensione? In particolare, possiamo identificare insiemi più ampi regolati ugualmente da una distinzione tra malattia-esorcismo-terapia e malattia-elezione-possessione? La mia risposta sarà positiva. Ma in questo caso, che cosa fare di altri sistemi dove, come nel Maghreb, sembra che un discorso emico terapeutico sia largamente associato alla possessione? Proverò a rendere conto di questa anomalia. È chiaro, tuttavia, che simili domande implicano un’impresa comparativa a lungo termine, di cui mi limiterò a porre qui alcune basi.

1) I sistemi rituali nei quali interviene la trance sono estremamente diversi fa loro, e questo ne influenza le forme e i significati. Bastide ha già notato che i fenomeni di possessione “costituiscono un significante che cambia di significato nel corso del tempo, quindi per comprenderli hic et nunc dobbiamo coglierli nella loro dimensione storica” (Bastide 1972, p. 10). A maggior ragione conviene evitare di fare un amalgama indistinto fra la trance da possessione e altre forme di trance (la trance mistica, l’estasi ecc.) come fra possessione e sciamanismo, quali che siano le affinità e i punti di contatto che collegano queste diverse configurazioni e le fanno spesso coesistere in una stessa cultura locale.

A questo proposito sono molto utili le distinzioni di Rouget (1980), a patto che siano considerate come idealtipi e non come opposizioni strutturali. È paradossale che lo stesso Rouget rivendichi un approccio strutturalista che, a mio parere, non è affatto inerente alle sue analisi e che lo fa cadere nelle critiche di Lewis. Lewis ha in effetti sostenuto, tempo fa, la critica del divario “strutturale” sciamanismo/possessione costruito da de Heusch (e proiettato in termini di aree culturali) mostrando, da una parte, che sciamanismo e possessione possono perfettamente coesistere nella stessa cultura (del resto è il caso dei paesi djerma-songhai), e dall’altra che esistono forme di trance che si collocano a confine fra sciamanismo e possessione, o che li combinano (de Heusch 1971, Lewis 1989). È più difficile comprendere perché sia caduto in una prospettiva inversa ed eccessiva, rifiutando qualsiasi distinzione (anche idealtipica) fra sciamanismo, possessione, estasi e stregoneria, per trasformarle in fasi del medesimo processo (Lewis 1986). Certamente lo sciamano rientra nella malattia-elezione, ma i rispettivi ruoli e le rappresentazioni sociali dello sciamano e del posseduto sono abbastanza diverse per rendere vantaggiosa una distinzione, anche riconoscendo che talvolta si sovrappongono o si confondono. Il fatto che nelle società djerma-songhai esistano degli sciamani (i maghi sohance) ben distinti dai posseduti (i cavalli degli spiriti) e dalle loro guide (gli zimma) non fa che consolidare questo punto di vista.

2) Tuttavia, un certo numero di sistemi di possessione offre caratteristiche comuni sufficientemente vicine da permettere di individuare sequenze simili a quelle che ho citato sopra. In particolare le rappresentazioni sociali locali della possessione, della sofferenza/malattia, dell’apprendistato/alleanza, della follia, dell’esorcismo/terapia e in linea generale degli spiriti sono spesso molto simili in Africa e nelle aree afroamericane. Così in questi differenti sistemi di possessione troviamo, come nel caso djerma-songhai, la seguente costante: un reclutamento mediante la malattia-elezione (o la disgrazia-elezione) assicura l’appartenenza a una sorta di confraternita organizzata intorno alla pratica rituale della trance da possessione. Per esempio, lungo tutta la fascia sudano-saheliana, un’area in gran parte o completamente islamizzata ma in cui le pratiche magico-religiose popolari (a volte preislamiche e più spesso sincretiche) mantengono un forte impulso, le confraternite della possessione funzionano in modo autonomo su un modello di base quasi identico: il rab lébou-wolof (Zempléni 1966), il bori hawsa (Besmer 1983; Echard 1989; Last 1976; 1991; Monfouga-Nicolas 1972; Salamone 1974; 1975), il jine don bambara (Gibbal 1982), lo shaitan del Ciad (Arditi 1971; 1980), lo zâr del Sudan e dell’Etiopia (Constantinides 1985; Leiris 1958), fra gli altri, ne sono un esempio. Nel mondo afroamericano, sotto l’influenza cristiana, i culti di possessione non mancano di offrire caratteristiche simili.

Tutti gli autori citati sopra forniscono descrizioni della filiera della possessione che sono ampiamente correlate e non si allontanano molto da ciò che ho affermato sugli holle djerma-songhai. In altre parole, questi etnologi illustrano dati empirici largamente correlati. Tuttavia ancora molti di loro disseminano qua e là una terminologia relativa all’evidenza terapeutica, dimostrando fino a quale punto non si tratti affatto di un elemento inerente ai dati empirici stessi.

Il lavoro di Monfouga-Nicolas è rivelatore di questa ambivalenza di relazione fra i dati emici e la loro sovrainterpretazione, in quanto oscilla tra l’evidenza terapeutica e la sua negazione. A volte l’autrice si separa dall’approccio terapeutico e oppone i culti di possessione bori alle pratiche magico-terapeutiche: “Gli dèi usano gli uomini per la possessione e gli uomini usano gli dèi per la guarigione” (Monfouga-Nicolas 1972, p. 79). L’autrice assimila questo contrasto all’opposizione tra religione e magia in modo poco convincente, ma soprattutto mette in evidenza il contrasto fra la possessione come processo di identificazione e la malattia come processo di aggressione, che mi sembra molto più interessante (ivi, pp. 302-308). A volte poi, al contrario, ricade in un’interpretazione terapeutica utilizzando in modo quasi meccanico sia un lessico terapeutico ricorrente, sia una teoria psicologica poco convincente che fa della possessione una cura, in quanto fornirebbe una sublimazione permettendo di passare dalla colpevolezza alla persecuzione.

3) Tuttavia, il reclutamento mediante malattia-elezione non è limitato alle confraternite della possessione. Lo ritroviamo sotto varie forme in una categoria più ampia, denominata a volte “culti di afflizione” (Turner 1972, pp. 26-27), in particolare nella cosiddetta Africa animista. Nei culti di afflizione, la possessione è lontana dall’essere il solo collante possibile fra i gruppi, mentre i rituali sono di ordini molto diversi. Ma si tratta comunque di comunità che reclutano i loro seguaci sulla base di sfortune, disgrazie, afflizioni elette ad appello.

4) Va precisato che tutte le società con culti di afflizione (ivi comprese quelle appartenenti al sottogruppo definito dalle confraternite di possessione) hanno ugualmente e parallelamente dei campi terapeutici strutturati, dove hanno luogo tutte le altre afflizioni (siano esse imputate a eziologie magiche o organiche, piuttosto che meccaniche, naturali, divine ecc.). Tutti i responsabili dei culti di afflizione sono anche dei guaritori, e per questo motivo entrano in competizione con altri specialisti di tipo magico-terapeutico (o magico-religioso-terapeutico). Né la malattia-elezione, né la trance da possessione sono mai “la sola” risposta di una determinata cultura alla sofferenza o alla malattia. Questi modi di relazionarsi con la sofferenza e con la malattia coesistono sempre con gli altri presenti all’interno di una certa cultura.

5) Inoltre, la possessione non è necessariamente associata alla sofferenza o alla malattia. Ci sono casi in cui la trance è talmente lontana dalla malattia e dalla sofferenza che si è posseduti per tradizione familiare, per volontà dei genitori, per segni inviati a terzi, per predestinazione ecc. In tali casi, il reclutamento delle confraternite di possessione può passare attraverso meccanismi diversi dalla malattia-elezione. Questa in particolare è la situazione delle società (animiste) lungo la costa africana occidentale, presso le quali la possessione è un elemento importante ma integrato in un sistema religioso con altari e antenati, e dove le varie modalità di reclutamento si combinano (cfr. gli orishas del mondo yoruba, come i vodun del mondo aja-fon: Brand 1973; Herskovits e Herskovits 1933; Le Hérissé 1911; Parrinder 1953; Verger 1957).

6) Infine, ci sono alcuni sistemi di possessione, in particolare nel Maghreb, che presentano tutte le caratteristiche indicate sopra, ma in cui gli adepti stessi propongono spontaneamente una lettura terapeutica: gli spiriti della possessione sarebbero invocati per guarire (esorcizzare) alcune malattie che essi stessi avrebbero provocato. In altre parole, l’interpretazione terapeutica può appartenere, a volte, all’ordine emico. Questo fatto solleva due paradossi.

Primo paradosso: l’agente della malattia è anche quello della cura. Lo spirito che ha mandato la sofferenza è lo stesso che la farà scomparire, contrariamente al processo terapeutico abituale in cui il guaritore che esorcizza è diverso dal responsabile del male da esorcizzare, e in conformità con la filiera della possessione in cui lo spirito infligge sofferenze, di richiamo alle quali metterà fine quando si sarà stretta un’alleanza con lui.

Secondo paradosso: dopo il successo del loro trattamento, i membri di questi gruppi terapeutici continueranno a essere essi stessi posseduti regolarmente dal loro spirito familiare, specialmente quando si tratterà di curare nuovi membri. La cura è quindi un pretesto per perseguire l’alleanza fra uomini e spiriti mediante la possessione, mentre allo stesso tempo la possessione è un mezzo per assicurare il successo della cura. Tutto evoca la malattia-elezione che ritroviamo anche altrove: eppure l’argomento utilizzato non appartiene all’ordine dell’alleanza e dell’incorporazione, quanto piuttosto a quello della cura.

Come rendere conto di questo doppio paradosso, tanto più sorprendente in quanto generalmente i processi di possessione (la filiera) nel Maghreb sono molto simili a quelli che si trovano in Africa nera, di cui sono i discendenti per via della tratta degli schiavi transahariana? Non si può che essere sorpresi dal fatto che tendenzialmente questi discorsi terapeutici autoctoni sono proferiti in contesti di dominazione monoteista e di secolare repressione sociale delle pratiche animiste. Ricordiamo a questo proposito l’ipotesi secondo la quale il tarantismo e la danza del ragno nell’Italia meridionale sarebbero retaggi di riti di possessione, che sono riusciti a sopravvivere alla Controriforma soltanto assumendo la forma dei rituali terapeutici che conosciamo oggi (Rouget 1980, pp. 230-240). Tutti i diversi riti di possessione del Maghreb che si presentano come cure (Crapanzano 1973; Ferchiou 1972; Ouitis 1984) sono altrettanti casi in cui la terapia appare chiaramente come la sola forma possibile di legittimazione per pratiche che altrimenti l’Islam condannerebbe violentemente per il loro paganismo. Se a tratti l’interpretazione terapeutica è condivisa dagli attori sociali e non è solamente una sovralettura antropologica, non è forse perché in realtà riveste il ruolo di pretesto terapeutico?

Nel contesto della Nigeria settentrionale, dove la pressione fondamentalista dell’Islam è più recente e dove il processo di terapizzazione è ancora in corso, Last è giunto a conclusioni pressoché analoghe, salvo considerare la terapizzazione non soltanto come una strategia retorica ma come una pratica efficace, rinsaldando così l’analisi classica in termini di funzioni terapeutiche curative o preventive della possessione.

Allora il bori, non essendo più la religione “ovvia” delle donne, viene marginalizzato nella terapia di chi è davvero turbato spiritualmente, oppure viene banalizzato come spettacolo. In questo contesto riesce così a sopravvivere, anche se solo come parte di una terapia drastica e specializzata nell’intrattabile. Malgrado ciò, le sue intuizioni circa la possibilità di offrire una psicoterapia preventiva – anziché limitarsi a fornire delle cure – sono foriere di un significato più ampio (Last 1991, p. 59).

Lewis, da parte sua, fu senza dubbio il primo ad affrontare il pretesto terapeutico, ma integrandolo nella sua troppo “rigida” teoria dei culti di possessione in terra islamica (culti quasi esclusivamente femminili), come forma indiretta della lotta fra i sessi: “Per chi vi prende parte, il culto della guarigione è una religione clandestina” (Lewis 1989, p. 80).

7) La pressione di un’ideologia religiosa egemonica non è la sola forza capace di spingere verso la terapizzazione, come misura difensiva, le pratiche della possessione. Il prestigio o il peso istituzionale dell’apparato sanitario occidentale può produrre effetti simili, e il caso dell’Africa nera è esemplare. Dai guaritori tradizionali riconosciuti dall’oms ai medici indigeni raggruppati in associazioni nazionali, si osserva lo stesso riscontro dell’approccio terapeutico: tutti i manipolatori del sovrannaturale, siano essi agenti dell’esorcismo o mediatori dell’alleanza, sono ormai chiamati terapeuti. Ci troviamo quindi di fronte a un doppio fenomeno: da un lato la costituzione di un campo terapeutico autonomo, che è un processo contemporaneo legato alla colonizzazione (Fassin 1992); dall’altro si osserva l’amalgama crescente, in questo campo, delle pratiche sociali di tipo magico-terapeutico (le quali condividono con quelle occidentali una medesima logica di esorcismo) con le pratiche del tipo delle confraternite della possessione e dei culti di afflizione, innervate da una logica di elezione-alleanza-incorporazione che le distingue radicalmente dalle prime.

Comunque, gli stessi culti di possessione evolvono. Non solo emergono nuovi ruoli, ma la struttura stessa dei rituali e delle confraternite sta cambiando. Per esempio, le nuove famiglie di spiriti non hanno quasi nessuna funzione collettiva, e i loro seguaci non sono più al centro di cerimonie socialmente valorizzate (Olivier de Sardan 1982; 1986b). Si è parlato di una individualizzazione dei rituali o dei ruoli sociali legati alla possessione, con la crescita, fra le altre cose, delle funzioni antistregoneria dei riti di possessione (Tall 1992; Olivier de Sardan 1982). Si osserva spesso che nell’ambiente urbano certi attori sociali marginali (prostitute, omosessuali, sottoproletariato ecc.) la cui identità sociale pone dei problemi, vengono ora eletti in modo significativo. A questo riguardo i culti di possessione (e in particolare i nuovi culti che si moltiplicano in tutta l’Africa) possono veicolare funzioni terapeutiche inedite (preventive o curative), senza che sia necessario ridurle a questo unico aspetto terapeutico.

Così, la terapizzazione contemporanea di questi culti è un processo multiforme, che può presentare peculiarità ideologiche (di fronte all’Islam), istituzionali (in relazione alla costituzione di un ordine terapeutico) o psicosociali (con riferimento alle difficoltà di inserimento di determinati attori).

Ritorno all’efficacia simbolica

Forse potremmo concludere tornando alle ormai datate osservazioni di Lévi-Strauss sull’efficacia simbolica, osservazioni citate spesso, soprattutto sulle zone di frontiera della psichiatria, della psicanalisi e dell’antropologia.

Il famoso testo del 1949, L’efficacia simbolica, poi incluso in Antropologia strutturale (1958), evoca in questi termini la cura sciamanica: “La cura consisterebbe quindi nel rendere pensabile una situazione che in partenza si presenta in termini affettivi: e nel rendere accettabile alla mente dolori che il corpo si rifiuta di tollerare. […] Lo sciamano fornisce alla sua ammalata un linguaggio» (Lévi-Strauss 1958, pp. 217-218). Non soltanto sono in molti ad aver applicato questo testo alla possessione, ma anche lo stesso Lévi-Strauss (1968, p. xviii) mette esplicitamente sullo stesso piano possessione e sciamanismo, almeno per quanto concerne l’efficacia simbolica. La comparazione fra sciamanismo e psicanalisi all’interno del testo citato sarebbe quindi valida anche per la possessione, che sarebbe anch’essa una tecnica terapeutica avente la medesima posizione strutturale. Nell’ottica intellettualistica propria di Lévi-Strauss, la psicanalisi da un lato e lo sciamanismo e la possessione dall’altro portano senso e quindi ordine laddove proliferano i disordini del corpo.

Evidentemente nel corso degli anni questo testo è sfuggito dalle mani dell’autore e ha fornito, in particolare agli psicanalisti e agli psichiatri attirati dall’interculturalità, una base, o per lo meno un riferimento accademico e una garanzia antropologica, a interpretazioni terapeutiche più o meno frettolose della possessione spiritica.

È vero che nell’Introduzione all’opera di Marcel Mauss, Lévi-Strauss propone un’analisi alquanto differente. Lo sciamano e il posseduto si trovano sì sullo stesso piano, ma si oppongono al nevrotico per quanto riguarda non tanto il loro stato psicologico, quanto la loro posizione sociale. Lévi-Strauss contempla l’ipotesi secondo la quale “i comportamenti indicati con il nome di ‘possessione’ e ‘trance’ non hanno nulla a che fare con quelle che nella nostra società sono chiamate psicopatologie” (ivi, p. xviii). Eppure sembra rifiutarla (purtroppo, dico io…), quando declina l’ipotesi contraria seguendo Nadel (1946): gli sciamani e i posseduti presentano qui disposizioni psicopatiche, ma le mettono al servizio di un sistema sociale che non li considera più come malati e che al contrario riconosce loro, in qualità di marginali, una funzione sociale fondamentale. Sfuggono così alla nevrosi o alla psicosi. In altre parole, nelle società tradizionali lo sciamano e il posseduto convertono la loro malattia in vocazione (Nadel 1946, p. 31), mentre la società moderna recluta malati di mente attraverso procedure in certa misura statistiche.

I rapporti fra patologia da un lato e sciamanismo e possessione dall’altro, per Lévi-Strauss sono quindi più complessi di quanto sembrasse a un primo sguardo. Non assimila la trance sciamanica o la trance da possessione a stati patologici di nevrosi occidentali. Tuttavia, lo sciamano e il posseduto gli sembrano manifestare, malgrado tutto, una marcata propensione alla malattia mentale. In un certo senso la possessione e lo sciamanismo non partecipano più alla terapia, ma alla prevenzione.

In effetti entrambi i modelli sono discutibili, e lo sono soprattutto a causa del livello di generalizzazione del rapporto tra malattia mentale, rituale e trance al quale si svolge il discorso. Da un lato, l’assimilazione della trance sciamanica e della trance da possessione solleva alcuni problemi (vedi sopra). Dall’altro, la dicotomia che contrappone la società occidentale (malattia mentale propriamente detta e psicanalisi) alle società primitive (possessione e sciamanismo) non è più sostenibile, soprattutto se ci si domanda dove occorre collocare l’Africa contemporanea. Ma è soprattutto in considerazione del problema che ci riguarda, il rapporto malattia/follia/sofferenza/possessione, che non è più possibile immaginare un tale livello di decontestualizzazione. In altre parole, esistono almeno due tipi di efficacia simbolica in tutto questo. L’efficacia simbolica magico-terapeutica a cui si riferisce essenzialmente Lévi-Strauss (e che non manca di offrire alcune analogie con quelli che i linguisti chiamano atti performativi, i sociologi profezia che si autoadempie e i medici effetto placebo), questa efficacia che (eventualmente) rende risolutiva una pratica magico-terapeutica (nell’ordine dell’esorcismo in senso lato), può essere confusa con l’altro tipo di efficacia simbolica, che potremmo definire efficacia simbolica di incorporazione (per distinguerla dalla precedente) che è in atto nella possessione, cioè l’interiorizzazione, in uno spettacolo rituale, del ruolo di uno spirito per opera del soggetto in trance.

Più precisamente, l’aspetto terapeutico di un sistema rituale (che esso include come tipo di efficacia simbolica magico-terapeutica) non può essere posto come dato a priori, attribuito senza ulteriori considerazioni ai diversi sistemi di credenze e di pratiche collettive che trattano la sofferenza, la malattia, la disgrazia o l’afflizione (e che talvolta fanno appello all’efficacia simbolica dell’incorporazione). Quindi non possiamo associare la possessione alla malattia mentale in generale, trascurando i sistemi di interpretazione locali e i loro contesti. Certamente la trance da possessione costituisce una struttura rituale formale particolarmente identificabile transculturalmente. È per questo motivo che gli anglosassoni parlano in modo relativamente invariato di uno “stato alterato della coscienza”, che si è tentato a volte di mettere in relazione con la presenza o l’assenza di altri tratti sociali o culturali, secondo la tradizione degli studi di Murdock (Bourguignon 1973). Ma la trance da possessione, come qualsiasi altra struttura rituale, ha senso solo se è integrata in una rete di pratiche locali e inserita in un sistema di rappresentazioni emiche.

Non si tratta quindi di limitarsi all’esame dettagliato di ciascun sistema di possessione nella sua singolarità: è una fase necessaria, ma non sufficiente. È possibile svolgere una comparazione che incorpori i contesti e le rappresentazioni emiche ad essi associate, e che prenda in considerazione le loro varianti. Certamente l’ipotesi sulla terapizzazione, che ho proposto per spiegare queste differenze fra i sistemi in cui l’interpretazione terapeutica è contraddetta dai dati emici e quelli nei quali è condivisa dagli attori locali, resta da convalidare. Tuttavia, mi pare che in ogni caso l’aspetto terapeutico di un sistema rituale debba essere considerato piuttosto come una variabile (relativa al processo storico-sociale) che come una costante, e ancora meno come una prova.

Concluderei citando Leiris:

Per il vudù come per lo zâr, a sorprenderlo sono stati il carattere istituzionale e l’apparenza spettacolare che rivestivano non solo le cerimonie sacrificali, ma anche le sessioni di possessione, integrate in un insieme di pratiche che sarebbe un errore considerare esclusivamente medico-magiche, e ancora di più esaminare semplicemente dalla prospettiva della psicopatologia. In effetti si può vedere che nella maggior parte dei casi i mali attribuiti al malcontento degli zâr, e che si cerca di curare, sono mali di ordine fisico e non di ordine psichico, constatazione che vale anche per il vudù. Osserviamo poi, in secondo luogo, che la possessione rappresenta, più che una malattia da cui il paziente va affrancato, una tecnica tradizionale che presumibilmente gli permetterà di guarire, placando mediante offerte gli zâr interrogati per suo tramite e assegnandogli finalmente uno spirito protettore che definisce il suo posto nel gruppo. Così l’intero processo appare come una sorta di iniziazione, il cui punto di partenza sarà stata la malattia.

1 comment on “La possessione spiritica non è una malattia mentale

  1. Tutto quello che viene detto nel post viene largamente superato nel momento in cui il posseduto verbalizza un suo sogno. La lettura biologica della storia onirica è sovabbondante per identificare e rimuovere la causa della cosiddetta possessione. Tutto il resto risulta inutile e fuorviante. Sempre disponibile per una dimostrazione pratica dal vivo.

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