Rieccoci con un nuovo commento a un canto della Divina Commedia. A firmare il commento di oggi è la teologa Marinella Perroni. I commenti, tutti insieme, danno vita al Commento Collettivo alla Commedia dantesca, il progetto de L’Indiscreto, curato dal nostro editor Edoardo Rialti.
IN COPERTINA un’opera di Simon Marmion.
di Marinella Perroni
Con il contributo di
Noi credevamo di aver vissuto un unicum storico quando nel 1978, dopo solo trentatré giorni di pontificato, Giovanni Paolo I (Albino Luciani) stupisce il mondo con una morte talmente banale da essere misteriosa. E, invece, dalle rime della Commedia dantesca si affaccia un successor Petri che ci toglie anche questo piccolo privilegio: poco più di 700 anni prima, nel 1276, muore dopo soli trentasei giorni di pontificato Ottobono Fieschi, salito al soglio di Pietro con il nome di Adriano V. Nobile ligure, ricco e colto, sconta secondo la dura legge del contrappasso il suo peccato di avarizia. Non come Niccolò III che, per lo stesso peccato, Dante colloca all’Inferno (XIX canto) perché a differenza di lui Papa Fieschi ha cominciato già in terra a convertirsi dall’avarizia e dall’ambizione che ad alcuni di quelli che vestono “il gran manto” sembrano essere da sempre connaturali.
In realtà, già in vita papa Adriano aveva ripensato al suo attaccamento ai beni e alle glorie mondani, riconoscendo con realistico buon senso che, una volta che si arriva alla sommità della gerarchia ecclesiastica, diviene pressoché impossibile coltivare ulteriori ambizioni. Ciò nondimeno, il suo cammino interiore ha ancora bisogno di un tempo di maturazione e non può sottrarsi a una pena che lo costringe a mimare il proprio vizio. È condannato a una postura fisica che esprima plasticamente la sua colpa e lo obblighi alla consapevolezza di ciò che comporta aver vissuto volgendo al cielo il proprio dorso: adhaesivit pavimento anima mea, aderisce alla terra il mio spirito, perché un occhio, costretto dall’attaccamento a tutto ciò che è terreno a guardare sempre in basso e incapace di volgersi in alto, ha bisogno di un tempo di purificazione prima di poter stare di fronte a Dio.
Che tutto l’itinerario dantesco sia scandito dalla ricorrente denuncia degli uomini di chiesa che, non diversamente dai signori di questo mondo, si sottraggono sistematicamente all’unico aut aut di fronte al quale il profeta di Nazareth aveva messo i suoi discepoli, quello tra Dio e Mammona, è ben noto. E non ci vuole un dottorato in storia della chiesa per sapere che, dai tempi di Costantino in poi, il monito di Gesù “Fra voi però non sia così” (Mc 10,43) è stato sistematicamente smentito perché, con abile maestria, si fa una sorta di “gioco delle tre carte” tra potere, denaro e servizio.
Per la sua tessitura, però, Dante si serve di fili ben più raffinati che quelli di uno sdegnato e, col senno del nostro poi, anche qualunquistico richiamo all’onestà. Un erudito riferimento a San Tommaso d’Aquino gli consente di imputare ad Adriano V non soltanto l’avarizia né soltanto una generica ambizione al potere. Quanto condanna papa Fieschi a restare con mani e piedi legati alla terra e a dar le spalle al cielo fino a quando preghiera e conversione non gli consentiranno di accorciare la distanza che lo separa da Dio è l’avarizia non solum pecuniae sed etiam scientiae, avarizia non solo di denaro ma di conoscenza.
È d’obbligo il richiamo a Ulisse, l’eroe classico protagonista del XXVI canto dell’Inferno, e alle sue parole che da settecento anni, anche dentro le aule scolastiche, vengono tramandate più con enfasi illuministica che con sapienziale accortezza: «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza». Senza virtù, non ci può essere conoscenza: questo filo rosso che da Socrate in poi percorre la storia del pensiero occidentale si intreccia con la grande tradizione sapienziale dell’Oriente antico e, in particolare, con quella israelita che trova in alcune pagine bibliche la sua espressione più alta. Solo se non è autoreferenziale, se non è autoesaltazione del soggetto che, conseguentemente si traduce in disprezzo degli altri, la conoscenza non inchioda alla terra e non volge le spalle al cielo. Solo se è aperta all’infinito da cui viene e a cui ritorna, ed è quindi impossibile bramarla come proprio possesso, la conoscenza rende sapienti. Forse è di questa conoscenza che ha sempre avuto gran bisogno il mondo in cui l’avarizia di pochi costringe molti a viver come bruti.
-->Il canto, integrale
Canto XIX, ove tratta de la essenza del quinto girone e qui si purga la colpa de l’avarizia; dove nomina papa Adriano nato di Genova de’ conti da Lavagna.
Ne l’ora che non può ’l calor dïurno
intepidar più ’l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno
– quando i geomanti lor Maggior Fortuna
veggiono in orïente, innanzi a l’alba,
surger per via che poco le sta bruna -,
mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come ’l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
com’amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
“Io son”, cantava, “io son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!”.
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
“O Virgilio, Virgilio, chi è questa?”,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L’altra prendea, e dinanzi l’apria
fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: “Almen tre
voci t’ ho messe!”, dicea, “Surgi e vieni;
troviam l’aperta per la qual tu entre”.
Sù mi levai, e tutti eran già pieni
de l’alto dì i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni.
Seguendo lui, portava la mia fronte
come colui che l’ ha di pensier carca,
che fa di sé un mezzo arco di ponte;
quand’io udi’ “Venite; qui si varca”
parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca.
Con l’ali aperte, che parean di cigno,
volseci in sù colui che sì parlonne
tra due pareti del duro macigno.
Mosse le penne poi e ventilonne,
’Qui lugent’affermando esser beati,
ch’avran di consolar l’anime donne.
“Che hai che pur inver’ la terra guati?”,
la guida mia incominciò a dirmi,
poco amendue da l’angel sormontati.
E io: “Con tanta sospeccion fa irmi
novella visïon ch’a sé mi piega,
sì ch’io non posso dal pensar partirmi”.
“Vedesti”, disse, “quell’antica strega
che sola sovr’a noi omai si piagne;
vedesti come l’uom da lei si slega.
Bastiti, e batti a terra le calcagne;
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne”.
Quale ’l falcon, che prima a’ piè si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira,
tal mi fec’io; e tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
n’andai infin dove ’l cerchiar si prende.
Com’io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
’Adhaesit pavimento anima mea’
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s’intendea.
“O eletti di Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri,
drizzate noi verso li alti saliri”.
“Se voi venite dal giacer sicuri,
e volete trovar la via più tosto,
le vostre destre sien sempre di fori”.
Così pregò ’l poeta, e sì risposto
poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io
nel parlare avvisai l’altro nascosto,
e volsi li occhi a li occhi al segnor mio:
ond’elli m’assentì con lieto cenno
ciò che chiedea la vista del disio.
Poi ch’io potei di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,
dicendo: “Spirto in cui pianger matura
quel sanza ’l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura.
Chi fosti e perché vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri
cosa di là ond’io vivendo mossi”.
Ed elli a me: “Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri.
Intra Sïestri e Chiaveri s’adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
Un mese e poco più prova’ io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.
La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
Vidi che lì non s’acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.
Fino a quel punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.
Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara
in purgazion de l’anime converse;
e nulla pena il monte ha più amara.
Sì come l’occhio nostro non s’aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse.
Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene,
ne’ piedi e ne le man legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi”.
Io m’era inginocchiato e volea dire;
ma com’io cominciai ed el s’accorse,
solo ascoltando, del mio reverire,
“Qual cagion”, disse, “in giù così ti torse?”.
E io a lui: “Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse”.
“Drizza le gambe, lèvati sù, frate!”,
rispuose; “non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
Se mai quel santo evangelico suono
che dice ‘Neque nubent’ intendesti,
ben puoi veder perch’io così ragiono.
Vattene omai: non vo’ che più t’arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa”.
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
Il canto XIX del purgatorio sarà commentato da Daniele Pasquini.
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