Nel 1993, il filosofo Franco “Bifo” Berardi esplorava in un saggio l’emersione di tutte quelle politiche identitarie e populiste che oggi hanno preso pienamente possesso della scena politica e sociale globale e le interpretatava come manifestazioni psicopatologiche. A distanza di trent’anni pubblichiamo un estratto da questo saggio corredato da un’intervista di Enrico Monacelli.
In copertina e nel testo, Eclissi di sole, di george Grosz
L’estratto è tratto da “Come si cura il nazi”, di Franco “Bifo” Berardi. Ringraziamo Edizioni Tlon per la gentile concessione.
di Franco “Bifo” Berardi ed Enrico Monacelli
Arduo resistere al desiderio.
Tutto quello che vuole lo compra, a spese dell’anima.
Eraclito, Frammento 85
Con l’espulsione dei mori e degli ebrei dalla Spagna ricristianizzata, nel 1492, la persecuzione razziale diviene un elemento integrante e fondativo dello Stato moderno. La società spagnola del Secolo d’Oro è tutta modellata sull’ossessione della purezza, dell’integrità razziale. Il sentimento barocco nasce dalla proliferazione delle prospettive di senso. In questa proliferazione si avverte il diffondersi di una locura, di una follia, di una perdita inarrestabile del senso.
La reazione aggressiva, autoritaria, razzista, persecutoria che si scatena nella Spagna della Riconquista manifesta un aggrappamento disperato a una fonte di identità, che l’accelerazione comunicativa ed esperienziale dell’epoca aveva fatto esplodere. Il Seicento comincia a percepire la dimensione sociale della psicopatologia, e la collega immediatamente all’inflazione del senso. José A. Maravall collega la percezione di una locura del mondo con il diffondersi dell’inflazione, nella Spagna seicentesca:
Tutto è una confusione in cui non si può essere certi di nulla. Ma da dove viene questa confusione? Tutto è valutato a prezzi eccessivi: l’inflazione, è qui il fantasma. Grave in tutta Europa, ma soprattutto in Spagna, si trattava di un fenomeno che era già conosciuto ma non aveva mai avuto quella estensione.
Quando l’uomo dell’epoca barocca parla del mundo loco traduce con queste parole una serie di esperienze concrete del secolo della crisi, il terribile Seicento. Il secolo precedente ha moltiplicato gli orizzonti, allargato enormemente la gamma delle merci e quindi dei bisogni, ma in Spagna non agisce il filtro del protestantesimo, il filtro di una cultura del risparmio e dell’investimento. La cultura spagnola si estasia di fronte a quell’arricchimento dell’esperienza che il salto economico cinquecentesco ha reso possibile: sperpera ed enfatizza. Ma così accelera e presagisce la direzione dell’esaurimento della modernità. La cultura spagnola vive in modo vertiginosamente accelerato e contratto la parabola del fiorire e dello spegnersi della spiritualità moderna. Per questo il disinganno barocco vede la modernità dal lato della sua locura. La Spagna del Seicento è catapultata nella modernità attraverso una proliferazione dei segni che ha la sua origine nell’esplosione del Cinquecento. Il Barocco è un regime della comunicazione sociale caratterizzata dall’inflazione del segno distintivo: «Si proibisce che gli ufficiali, semestrali contadini, carpentieri, fabbri e lavoratori di qualsiasi altro ufficio somigliante a questi più bassi, e gli operai e i lavoratori e i giornalieri possano portare della seta».
-->La legge interviene per limitare il segno distintivo, nel caso appena citato la seta. Ma naturalmente, la legge non riesce quasi per nulla a fermare la diffusione del segno distintivo, anzi forse accelera la diffusione della seta proprio perché ne sancisce il carattere simbolico. E l’inflazione è sostanzialmente questo: una proliferazione del segno rispetto al suo referente effettivo, un perdersi del referente e un’incontrollabile proliferazione dei segni.
È da questo gioco della proliferazione dei segni distintivi che nasce la moda come gioco infinito dell’apparenza. Ciascuno prende i segni dell’altro e li usa per segnalare se stesso. La moda diviene questo gioco del presentarsi come qualcosa d’altro.
Nel nostro tempo il gioco giunge a confondere tutti i codici, quando i ricchi occidentali cominciano a prendere per sé i segni dei poveri dell’India o del Perù, e i piccolo borghesi cominciano a prendere a prestito i segni dei ricchi, e i proletari cominciano a prendere i segni dei borghesi, e i borghesi quelli dei proletari, e così via. Ma all’origine di tutto sta un’inflazione del segno, una crescente polisemia (e quindi ambiguità) dei segni.
L’ingresso nella società borghese è caratterizzato da uno sconvolgimento dei codici d’interpretazione dell’appartenenza. Chi sei, da dove vieni, di chi sei figlio, qual è il tuo ruolo, quanto vali: nella società tradizionale tutto questo si sapeva, ma con l’ingresso nella modernità i percorsi e le appartenenze si ingarbugliano. Il denaro, la moda, il travestimento di tutto con tutto creano una forma di panico nella società spagnola (e del resto in tutte le società che attraversano in forme diverse il medesimo processo). La modernizzazione si presenta fin dall’inizio come ingarbugliamento del senso e dell’origine, come contaminazione e perdita di identità, come deriva.
In un saggio dal titolo Dalla Santa Inquisizione al nazismo, David Meghnagi descrive l’altra faccia della medaglia: la faccia ebraica. Gli ebrei, espulsi dalla Spagna dopo secoli di persecuzioni e di conversioni forzate, emigrarono in larga parte verso il Nord Europa, oltre che nelle regioni dell’Impero ottomano e nel Nordafrica. Le comunità ebraiche cercarono di mantenere, riuscendoci in parte, il filo della loro tradizione, che durante le persecuzioni spagnole si era allentato. Ma il rapporto della cultura ebraica con le società moderne sarà generalmente improntato a un atteggiamento di dissimulazione:
La dissimulazione divenne la regola di vita, la doppiezza una necessità per sopravvivere. Gli elementi originari subivano in questo processo un sincretismo inevitabile, fatto di rivolte e trasgressioni continue contro le due fedi, quella ebraica, di cui si perdeva progressivamente il senso e la continuità, e quella imposta con la forza e le minacce di morte, i cui riti finivano però con l’imporsi col passare delle generazioni.
Dalla prolungata guerra religiosa la Spagna conserva un’ossessione di purezza che la perseguiterà e che, attraverso la Controriforma, si diffonderà dovunque:
Agli occhi dell’Inquisizione la vittima conservava sempre, in luoghi talora a lei stessa estranei, la traccia di un passato che non passava, vivendo sempre nell’incubo di un processo che poteva costare il rogo. L’acquisto di un certificato di purezza del sangue diventava un imperativo; era ancora richiesto in Spagna nel 1772, tre secoli dopo l’espulsione degli ebrei, per poter esercitare l’avvocatura, per insegnare e per svolgere l’attività di escribano. Soltanto nell’anno della rivoluzione francese i cittadini spagnoli vennero autorizzati a leggere il Vecchio Testamento. Nell’ordine dei gesuiti, che di questa campagna fu l’artefice, ancora nel 1923 per essere accettati i novizi dovevano dimostrare che non avevano sangue ebraico sino alla quarta generazione.
La purezza del sangue è la semplificazione più immediata di un discorso ossessivo sull’origine, sulla paranoia identitaria che colpisce un organismo sociale in preda al panico, alla paura di perdersi, di non trovare il senso della sua identità. L’organismo reagisce allora irrigidendosi, cercando di espellere ciò che non è puro, ciò che appare come prodotto di una contaminazione. La definizione dei confini tra identico e altro è naturalmente del tutto aleatoria, immaginaria. Ma proprio su questo si esercita la fantasia persecutoria. Perseguitare, escludere, demonizzare: in questo modo diviene possibile definire l’altro. In questo modo diviene possibile proiettare il fantasma della propria identità, credere aggressivamente in questa illusione.
Psico-nazi
Perdita dell’identità sociale e del senso stesso dell’attività, paralisi dell’erotismo, aggressività, paura della deriva planetaria e dell’ubiquità telematica: questi sono alcuni dei flussi fondamentali che influenzano l’ondata naziskin. Secondo l’Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari, la storia moderna è un processo di deterritorializzazione. E che significa questo? Significa che la Storia moderna mette in moto processi di spostamento di enormi masse umane sul piano geografico, sociale, culturale, così da mettere in crisi le loro identità, le loro certezze, le loro prospettive. Così può definirsi l’effetto essenziale del capitalismo. I codici della tradizione perdono efficacia, stravolti e ingoiati da codici più potenti come quello del denaro, della tecnica, della comunicazione.
I due punti estremi della storia sono le tribù primitive e la società capitalista. Nella prima tutto è codificato, ci sono regole per tutti i gesti, le circostanze della vita, le parti del corpo, gli istinti, gli eventi sociali. La società capitalista, invece, inventa l’individuo privato, proprietario del suo corpo, dei suoi organi, che dispone liberamente della sua forza lavoro.
Il capitalismo dovrebbe allora liberare l’uomo dai suoi vincoli simbolici, ma in realtà lo sottopone a vincoli simbolici ben più stringenti, perché più astratti: il denaro, la competizione, l’efficienza. Il capitalismo è un sistema cinico che non fa appello a nessuna credenza, a nessuna sacralità per funzionare. E al tempo stesso il capitalismo si rivela come la più grande repressione della produzione desiderante mai vista nella Storia. Esso infatti scatena una produzione illimitata di desiderio (illimitata perché sono stati distrutti i vincoli simbolici premoderni), ma così facendo non crea affatto le condizioni della felicità. Al contrario esso produce, attraverso l’emancipazione di tutti i flussi, un mondo di incubo e di angoscia.
Perché accade questo? Il fatto è che la deterritorializzazione si accompagna a una perpetua riterritorializzazione, al bisogno di marcare definitivamente il proprio territorio pur nella deriva permanente di tutti gli elementi sociali. Ecco allora che, quanto più forti sono il terremoto e lo spostamento, e la contaminazione e la deriva, tanto più ritornano gli Stati, le patrie, le famiglie, le tribù, gli integralismi.
Croci uncinate sui muri, stelle di Davide appese alle porte delle botteghe romane, scritte dei tifosi di calcio in cui l’avversario viene insultato con l’appellativo di “ebreo”. I sondaggi ci dicono che nella Germania ex orientale, se si votasse domani, Schonhuber, il capo dei neonazisti, otterrebbe il 39% dei voti. Nel 1932 la nsdap, il partito di Hitler, ottenne alle elezioni soltanto il 33,1%. Dobbiamo pensare a una riedizione degli anni Trenta con tutto il loro corredo di orrori inenarrabili? Sarebbe ingenuo pensare che la storia stia per ripresentarci lo stesso film. Quello a cui stiamo assistendo è un film nuovo, e non è detto che sia migliore.
Naturalmente, quando si parla di nazismo e di fascismo si fa riferimento a un processo di irrigidimento che ha origini per gran parte sociali, politiche, economiche. Ma al tempo stesso stiamo parlando di un processo di impazzimento, di malattia psicotica, di sofferenza, frustrazione, automutilazione, che poco alla volta si estroflette, si rovescia verso l’esterno, trasformandosi in aggressività e violenza. Ora, se questo è vero per ogni fenomeno sociale di tipo autoritario che si sia manifestato nel corso della Storia, vorrei dire che è particolarmente vero attualmente, in un momento in cui l’intero processo sociale tende a spostare le sue energie dalla sfera della produzione materiale alla sfera della produzione mentale. Allora chiediamoci: in cosa consiste la psicosi che prende nome nazismo, come nasce, come si diffonde, come dilaga fino a divenire maggioritaria e incontenibile?
Nell’epoca moderna assistiamo a un gigantesco processo di sradicamento: i gruppi umani sono strappati ai luoghi geografici delle loro origini (grandi migrazioni, deportazioni, spostamenti, conquiste e sottomissioni). Ma soprattutto sono strappati ai luoghi psichici della loro identità. Non solo perché vengono proiettati lontano dal loro luogo di nascita, ma perché vengono sottoposti al dominio di un codice astratto e omologato, il codice del denaro, del lavoro, dello scambio che azzera le differenze linguistiche, tradizionali, mitologiche, antropologiche sulle quali si fondano le identità.
La perdita d’identità produce una reazione di paura, d’insicurezza psichica, e può mettere in moto processi di ricerca disperata di un’identità nell’unico modo che resta possibile: attraverso l’aggressione nei confronti dei diversi, attraverso una riaffermazione artificiosa ma violenta di un rapporto con l’origine, con la radice, con il mito di superiorità che l’omologazione capitalistica ha inesorabilmente cancellato.
Questo processo Deleuze e Guattari lo chiamano “riterritorializzazione”, per intendere la ricerca (del tutto fantasmatica) del territorio immaginario dell’origine, del territorio in cui si può ricostruire la comunità, l’omogeneità differente del popolo. Il popolo, nella sua accezione romantica, è una finzione della nostalgia, una simulazione proiettata verso l’origine, un’illusione che genera risentimento e aggressione.
Ma, nelle sue forme più disperate e aggressive, il bisogno di identità andrebbe studiato come una vera e propria psicopatia, come una malattia dell’affezione, della relazione all’altro. Perché a un certo punto si manifesta questo disperato bisogno di difendersi dall’altro, di proteggere la propria identità da ogni contaminazione? Come nascono i deliri pseudoscientifici sulla necessità di proteggere la razza, sul pericolo di una degradazione provocata dalla contaminazione? Come è possibile che queste assurdità acquistino forza di convinzione e si diffondono fino a diventare vere e proprie mitologie dell’identità? Wilhelm Reich risponde così a queste domande:
Poiché il nazionalsocialismo è un movimento elementare, non lo si può attaccare con degli argomenti. Gli argomenti sarebbero efficaci solo se il movimento si fosse sviluppato attraverso gli argomenti. I discorsi nazionalsocialisti si distinguono per l’abilità con cui fanno leva sui sentimenti della massa e per l’abilità con cui evitano il più possibile qualsiasi argomentazione obiettiva.
La forza di convinzione del nazionalsocialismo deriva dal fatto che esso si rivolge a un bisogno elementare, che produce un irrigidimento della personalità e del comportamento. Il bisogno di ricostruire identità attraverso il rapporto con l’origine, con il territorio e la comunità territoriale è affermato dal nazismo nelle sue principali formulazioni dottrinarie. Il decreto sulla riorganizzazione della proprietà rurale, del maggio 1933, è a questo proposito assai esplicito: «Il legame indissolubile fra sangue e terra è la premessa indispensabile per la vita sana di un popolo. La fattoria è eredità inalienabile del ceppo rurale avito». La Germania democratica del dopoguerra non si è liberata da questa ossessione: il diritto di cittadinanza resta legato al sangue.
L’inalienabilità della proprietà originaria fa tutt’uno con la mitologia della radice. E questa mitologia diviene tanto più forte quanto più il movimento reale dell’economia e della comunicazione provoca deterritorializzazione, e quindi perdita d’identità.
Ma al tempo stesso si sta manifestando una vera e propria malattia del desiderio, una specie di paralisi, una contrazione della capacità di godere del rapporto con l’altro. Secondo Reich si deve parlare di un vero e proprio disturbo sessuale, che sta all’origine della
brutalizzazione della sessualità, e della formazione di rigidi tratti caratteriali. La costrizione al rigido autocontrollo sessuale, al mantenimento della rimozione sessuale, porta allo sviluppo di idee irrigidite, caratterizzate da accenti emotivi di onore e dovere, di coraggio e di autocontrollo. La persona sessualmente repressa, contraddittoria nella sua struttura sessuale, deve continuamente ricordarsi di dominare la propria sessualità, di difendere il proprio onore sessuale, di resistere alle tentazioni. Ogni adolescente attraversa la lotta contro la tentazione della masturbazione. In questa lotta si sviluppano tutti gli elementi strutturali dell’uomo reazionario.
Ma possiamo utilizzare oggi queste categorie interpretative, nate per spiegare il nazismo storico? Solo in parte, perché se vogliamo spiegare il fenomeno nella sua forma attuale dobbiamo considerare il fatto che il nazismo si definisce oggi in rapporto alla trasformazione telematica, alla potenza deterritorializzante della comunicazione elettronica.
Il fenomeno naziskin nasce oggi come commistione fra diversi elementi: la rivendicazione dell’origine proletaria come appartenenza alla comunità bianca, originaria, territoriale, la brutalità e l’aggressività caratteristiche di un disturbo dell’affettività, di una paralisi del desiderio, di una vera e propria contrazione della capacità di estroversione e di contatto.
La genesi della sottocultura skin in Gran Bretagna ha sicuramente un carattere proletario, e questo movimento ha tratti culturali simili a quelli che emergono per tutto il decennio Ottanta dal movimento di difesa dell’identità operaia della comunità di villaggio che si stringe intorno ai minatori che non vogliono assolutamente rinunciare al loro lavoro orribile, perché in esso trovano la loro identità, e non saprebbero dove trovarla altrove.
La sottocultura skin ha caratteri essenzialmente difensivi, ed è segnale di una paura disperata, anche se si manifesta attraverso un’estroversione aggressiva. Scrive Hebdige:
Lo stile skinhead è l’asserzione difensiva dell’essere bianco, così come il rasta è celebrazione delle radici culturali nere. Entrambe possono essere viste come tentativi genuini di tirar fuori qualcosa dal nulla, tentativi di ottenere qualcosa, magari solo una risata, da una vita di disoccupazione lavori di merda, e scontri continui con la legge. Sia lo skin che il rasta possono essere visti come tentativi di ottenere qualche tipo di dignità.
Ma tutto questo non basta a spiegare l’aggressività riemergente nella società degli anni Novanta, se non teniamo conto della malattia del desiderio, della paralisi psicotica che si diffonde oggi nel corpo e nella mente, dello spostamento dell’energia dall’erotismo alla competizione, dal contatto al confronto, dalla tenerezza all’indurimento. Possiamo parlare a questo proposito di investimenti nazi del desiderio. Ma all’origine dell’investimento nazi del desiderio sta quell’immensa pressione psichica che è stata esercitata sulla mente collettiva dal modello economico ipercompetitivo che si è affermato nel decennio Ottanta. Inoltre l’identità maschile, nel tardo Novecento, ha raggiunto un punto di crisi senza precedenti a causa della liberazione del desiderio femminile, del prevalere dell’Immaginario sul Simbolico nell’epoca della televisione e della pubblicità. Ma questo ha messo in moto processi di reidentificazione, di riaffermazione aggressiva dell’identità maschile disgregata.
Il fascismo è un aspetto di questo disperato riaggregarsi dell’identità sessuale maschile. Per Wilhelm Reich il fascismo nasce dalla paura del contatto con l’altro, dalla paura del piacere, dalla paura di quella perdita d’identità che si manifesta appieno nell’orgasmo. Ora, anche se Reich aveva un’idea naturalistica e sessuocentrica del desiderio che può essere discussa e rivista criticamente, il pensiero di questo libertario perseguitato dal fascismo, dallo stalinismo e dal maccartismo deve essere oggi riletto e riproposto con grande urgenza.
Psicopatologia della politica
Che cos’è la politica? Senza troppe pretese definitorie possiamo dire che la politica è l’arte e la tecnica del conoscere per prevedere, e del prevedere per governare. Nella politica è essenziale il gesto del decidere: tagliare un futuro tra i molti possibili, seguendo la curva di una volontà, ma anche di un’ipotesi sul probabile. La politica è il sapere che governa il rapporto tra l’organismo cosciente e la sfera tecnica e comunicativa, l’ambiente socializzato. Ora, questo sapere funziona: nell’epoca moderna si rivela efficace e permette di perseguire e di realizzare dei progetti.
Che cos’è un progetto? È un piano di proiezione reale della decisione, il taglio operato sull’universo dei segni per ricavarne un insieme pratico coerente, finalizzato e funzionale. Ma questo è ancora vero? Saul Wurman scrive (in Information Anxiety), che una persona nel Seicento riceveva nell’arco della sua intera esistenza tante informazioni quante una persona del nostro tempo ne riceve in una sola settimana attraverso la lettura del quotidiano «New York Times». Ecco: la massa di informazioni di cui dispone chiunque del nostro tempo rende sempre meno possibile esercitare un criterio, una selezione tra ciò che si può considerare rilevante e ciò che non lo è.
Che cosa significa rilevante? Rilevante è ciò che ha un significato specifico in relazione al contesto e alla finalità. Nella tarda modernità l’universo rilevante deborda, perché la massa dei segnali che richiedono attenzione si sovraccarica fino al punto di farsi indecifrabile. In queste condizioni diviene impossibile riconoscere i segni dotati di un valore essenziale per gli scopi che ci prefiggiamo: perciò l’organismo cosciente è posto in condizioni di indecidibilità. Sia ben chiaro: il mondo reale è stato sempre infinitamente complesso per l’intelligenza umana. Ma la modernità ha saputo ritagliare (per forza di decisione) una sfera del rilevante nel caos infinito della natura. La società civile è la sfera di questa rilevanza nelle relazioni comunicative, il lavoro industriale è la sfera di questa rilevanza nel rapporto tecnico con la natura, il sapere scientifico è la sfera di questa rilevanza nell’universo del conoscibile.
Ma, a un certo punto, la proliferazione dei segni (tecnici, informativi ecc.), moltiplicata e accelerata dalla duplicazione e dalla simulazione elettronica, rompe i limiti di distinguibilità della sfera del rilevante. Per l’umanità tardomoderna diviene costituzionalmente impossibile distinguere i segni rilevanti dal rumore di fondo. In questa condizione l’arte e la tecnica del governare – distinguere, prevedere, progettare, realizzare scenari almeno parzialmente simmetrici rispetto alle intenzioni – diviene impraticabile. La politica giunge alla fine del suo latinorum.
Naturalmente si può continuare a fare progetti: ma quanto più questi progetti hanno carattere generale tanto più improbabile diviene la loro realizzazione. Il rapporto tra le intenzioni e gli scenari reali che risultano diviene sempre più asimmetrico, imprevedibile, perché divengono sempre più aleatorie e imprevedibili le parabole degli eventi concorrenti alla nostra intenzione. La cultura politica questo non può assolutamente capirlo, perché in effetti nell’universo aleatorio ipercomplesso la politica ha esaurito la sua funzione, come modalità di relazione tra organismo cosciente e ambiente socializzato. Ecco allora il penoso spettacolo del ceto politico intento a ripetere litanie progettuali sempre più vuote e inconsistenti, incapace di riconoscere che il lavoro della politica è obsoleto e che anche i politici dovrebbero, come gli operai dell’industria siderurgica, andarsene in cassa integrazione.
La coazione a ripetere della politica inevitabilmente produce delle psicopatie. La condizione di sovraccarico informativo, e quindi di indecidibilità, provoca naturalmente delle condizioni psicotiche anche all’interno del sociale. La psicopatologia del sociale tende verso il panico. Parlerei a questo proposito di cyber-panico, incapacità di distinguere nel cyber-spazio i segnali che hanno valore di sopravvivenza da quelli che rappresentano unicamente simulazione.
Anche il fascismo tardonovecentesco (il cyber-fascismo) nasce da queste condizioni di psicopatia da sovraccarico. Bisogna cominciare a decostruire e dissolvere la coazione a ripetere del decisore, e riconsiderare alla radice il funzionamento dell’intenzionalità (o progettualità) sociale. In condizioni di sovraccarico ogni tentativo di governo globale è destinato alla psicopatia o al cyber-fascismo.
Si tratta allora di agire molecolarmente. Il governo potrà essere soltanto governo su microsituazioni comunitarie. La simmetria tra intenzione e scenario realizzato si deve ricostituire nella sfera subsociale, come azione estetica, come costruzione di situazioni creative. Bisogna rinunciare a ogni progetto che implichi un rapporto di determinazione con l’intero sociale, e al tempo stesso si tratterà di valorizzare simbolicamente le esperienze locali facendone principio esemplare di contagio. La rinuncia alla nevrosi della decisione è la premessa indispensabile per liberare la vita sociale dal panico e dalla psicosi maniacodepressiva che la pervadono, e per cominciare a intravedere modalità di progetto non autoritario, ma esemplare. Ci può essere salvezza nella solitudine, ci può essere salvezza nell’amicizia, nella comunità elettiva.
Nella legge non c’è salvezza.
Della rudezza
In tutto il pianeta gli uomini si ribellano disperatamente contro la deriva del postmoderno, che toglie loro sicurezze e identità. Incapaci di elaborare nuove forme culturali, nuove concatenazioni produttive e nuove attese di consumo che mettano a frutto le potenzialità tecniche che si sono sviluppate, ecco i gruppi umani abbarbicarsi disperatamente a ciò che, nella tradizione, nel passato, nella memoria, può produrre identità: sicurezza tribale, ansia aggressiva per dominare lo spaesamento, ricerca di una famiglia, di un gruppo, di una chiesa, una camorra, un dogma.
Terrore della singolarità, del nomadismo, della sorpresa, dell’imprevisto. Il panorama che si disegna è terribilmente perimetrato, recintato: il bisogno di appartenenza ritorna primordiale e immediato. Non esiste più un orizzonte di speranze condivisibili, non esiste più la prospettiva di un futuro migliore, e perciò le appartenenze non possono essere più ideologicamente motivate, politicamente finalizzate. Divengono così appartenenze cieche, motivate dal culto dell’origine, fondate sull’interesse sociale più immediato, o sulla rassicurazione. Chi non appartiene a una banda si sente solo nella guerra di tutti contro tutti. Non contano più nulla le idee, le argomentazioni, le opere, i discorsi: conta solo l’appartenenza, la difesa della propria parte. Ecco da dove nasce la rudezza contemporanea.
Chi sono i rudi? Rudi sono quei gruppi umani che non sanno navigare nella deriva, non sanno sciogliersi nel flusso di deterritorializzazione indotto dalla fine della modernità industriale. Individui terrorizzati dalla singolarità e dall’indeterminatezza. Rudi sono coloro che si ribellano disperatamente, aggrappandosi a brandelli di identità passate: le identità arcaiche della nazione, della razza, della fede religiosa, che oggi riprendono forza nell’Immaginario collettivo, ma anche le identità moderne residuali, le identità politiche novecentesche del tardocomunismo ormai crollate. Identità fondate sul rancore contro il fluire, contro la mutazione, contro la deriva. Rudi sono coloro che si corazzano contro la dissoluzione, il divenire e il mutamento.
Vediamo oggi formarsi un fronte di rigidità e di resistenza nel quale si fondono paradossalmente (ma non poi tanto) il nazionalismo fascista e il revanscismo comunista. Osserviamo quello che accade in tutto il mondo: integralismi religiosi e politici si collegano. Saddam Hussein fonde la violenza nazionalista e militare con la retorica antimperialista. Nella Russia devastata dal socialismo realizzato, antisemitismo e stalinismo fanno fronte comune, nazionalismo aggressivo e rivendicazione di un ritorno ai valori del comunismo si saldano.
Non sempre la disperazione rende stupidi: i rudi sono stupidi perché non hanno il coraggio di riconoscere la loro sofferenza, la loro impotenza, e reagiscono con la patetica arroganza degli sconfitti: cercano sempre qualcuno più debole di loro, più disarmato di loro, per poter finalmente godere di un’ora di supremazia, per mostrare che loro possiedono muscoli nonostante tutte le scoppole ricevute dalla sorte.
Un’intervista su “Come si cura il Nazi”
Enrico Monacelli: I tuoi libri, pamphlet e le tue incursioni nell’attualità sono sempre scritti in un presente estremamente carico ed enfatico: la maggior parte dei tuoi lavori, probabilmente tutti i tuoi lavori, parlano di un qui ed ora drastico e sono scritti come se non ci fosse nessun altro momento all’infuori di questo momento presente denso e concreto. Non mi viene in mente nulla di tuo che indugi nel passato o che receda nell’eterno, nell’imperituro e nell’incondizionatamente vero. Tutti i tuoi scritti sono mossi dall’urgenza di affrontare il presente, e portano il marchio del momento in cui sono stati scritti.
Questo è specialmente vero per quanto riguarda Come si cura il nazi, un libro che porta in bella mostra le cicatrici dell’anno in cui è stato scritto. Questo libretto ruota intorno a un 1992 mitico e nefasto, un anno segnato da grandi tragedie e grandi scoperte – personali e politiche. Leggere le sue prime pagine ora è davvero come leggere le cronache di quello che nel libro chiami «l’impero del Peggio». Il prologo di una post-storia barbarica; un’epoca in cui nulla cambia davvero, ma in cui tutti diventa progressivamente sempre peggio. Non c’è modo di districare questo libro e la sua strana e a volte complessa posterità da quel preciso momento storico, in momento che, in un batter d’occhio, compirà trent’anni.
Inoltre, il 1992 brilla di una luce particolarmente mitica per una persona come me, nata un anno dopo e priva di qualsiasi esperienza di prima mano di epoche che non siano questa ingloriosa fine dei tempi. Incombe proprio alle mie spalle, e proietta presagi che non so decifrare. Leggerti scrivere una prosa così sofferta sul 1992 mi fa chiedere cosa sia successo, come se stessi parlando di una maledizione che mi preme addosso.
Infine, giusto per peggiore un po’ di più le cose, il libro si apre con una dichiarazione d’intenti che lo radica ancora più profondamente in quel preciso momento. Sin dalle primissime battute affermi che il tuo obbiettivo non è presentare una teoria dell’allora nascente neo-estremismo di destra, ma curarlo. Un processo di guarigione collettiva che sradichi il nazi triste e paranoide che giace dormiente in ognuno di noi. La difficoltà maggiore di questo proposito è, ovviamente, che, non avendo altri punti di partenza possibili, questo processo di cura non può che partire da te, Franco, e dalla tua storia personale. Questo implica che non è possibile leggere questo libro senza leggere l’auto-esorcismo del 1992 di Franco Berardi!
Lasciami, quindi, partire da qui: puoi dirci qualcosa in più sul 1992? Cosa l’ha reso un anno così apocalittico e, dunque, rivelatorio? Com’è cambiato nella tua memoria dopo trent’anni? È diventato solo un lieve inciampo in un percorso catastrofico fra i 2008, 2016 e 2020 del recente passato?
Franco Bifo Berardi: Ho letto il primo libro di Félix Guattari nel 1974. L’edizione italiana si intitolava Una tomba per Edipo (l’edizione francese porta il titolo Psychoanalyse et transversalité). Comunque, l’introduzione era firmata da Gilles Deleuze e ricordo che in quel frangente notava come nel nome del giovane psicanalista che Deleuze aveva incontrato nel 1968 c’era un presagio, una profezia. Pierre Félix Guattari era il suo nome intero. Ma Félix era il suo segno distintivo. Il termine “felix” in latino significa felice, e nei miei circuiti neuro-affettivi incarnava la filosofia che ci serviva. Una filosofia che rende la felicità pensabile. In quel periodo ero convinto che la felicità fosse l’unica insurrezione che contasse qualcosa. Félix morì alla fine dell’estate del 1992.
Vidi la notizia in televisione, tornando a casa. Il filosofo francese Félix Guattari è morto stamattina…
Sentii che la morte di Félix (penso che Félix salutò la morte come un’amica) ci stava dicendo qualcosa sul futuro della felicità. Scrissi il testo di un manifesto che affissi in giro con degli amici. È stata forse decretata la fine del piacere per il pianeta Terra?
Ho sempre fatto un gioco ironico col fare profezie. La profezia non è un atto volontario di pre-visione. Non vedi il futuro quando ti capita una profezia. Vedi le interiora del presente, e in quelle interiora (o nelle pire in riva al Gange, nella folla nella stazione della metro a London Bridge, quello che vuoi…) vedi ciò che sta prendendo forma nella sostanza mentale dei tempi imminenti.
Dal punto di vista politico, il 1992 marca la prima esplosione della guerra sul territorio europeo. La guerra civile in Jugoslavia, il ritorno dei mostri peggiori, pulizia etnica, orgoglio nazionalista, divisioni religiose, violenza fascista. Nel 1992, il primo summit mondiale sul clima fu tenuto a Rio de Janeiro, il presidente americano George W. Bush senior dichiarò che lo stile di vita americano non era negoziabile. Queste parole avevano il suono di una profezia alle mie orecchie. Una profezia terribile per la precisione. Ma il 1992 fu per me anche il primo anni in cui potei navigare il cyberspazio di cui tanto avevo sentito parlare nei romanzi fantascientifici di Gibson e Sterling.
Ero eccitato dalla prospettiva dell’implementazione tecnologica del rizoma, la metafora guattariana che mi aveva permesso di pensare il mondo come un processo di divenire multicentrico. Negli anni successivi presi parte alla creazione dell’immaginario della rete. A fine anno andai a Palermo, e rimasi solo in quella città enigmatica, e scrissi il libretto che uscì nel 1993 per Castelvecchi, un nuovo editore. In realtà, Come si cura il nazi fu la prima pubblicazione di Castelvecchi, un editore che giocò un ruolo importante nel diffondere le sottoculture punk e cyber nel panorama italiano.
EM: Uno dei tratti distintivi di Come si cura il nazi è certamente la sua militanza anti-identitaria. Se c’è una cosa che ai tempi avversavi in ogni modo è l’idea di identità e tutti coloro che restano attaccati alle proprie auto-identificazioni nevrotiche. Non è un’esagerazione affermare che nel libro tratti l’identità come una condizione psico-chimica terrificante e assuefacente, un’abitudine parassitica che si nutre di qualsiasi forma di vitalità. Per come la vedo io, mi sembra che i motivi principali per cui eri così fortemente contrario all’identità erano la sua tendenza a portare la vittima all’annichilimento, come ogni dipendenza, e il suo basarsi sulla ricerca spasmodica di un nemico in cui investire tutto il proprio odio e desiderio. Che ci si identifichi nella buona morale dei buoni cittadini o nel sangue e nella terra del peggiore dei nazi, si finisce nelle fauci di un narcisismo patologico e distruttivo. In parole povere, l’identità è una trappola.
Pensi ancora che l’identità sia un limite patologico per la nostra esistenza? Dovremmo curarci dall’identità?
FBB: Mi chiedi se io sia ancora convinto che l’identità sia un limite patologico per la nostra esistenza.
Beh, non sarei così drastico. L’identità è un concetto problematico, che si riferisce a qualcosa che sfugge per definizione. La psicologia ti direbbe che l’identità è ciò che persiste in te allo scorrere del tempo. Aggiungerei: ciò che persiste di te negli occhi degli altri. L’identità implica l’altro (Erwin Goffman ha scritto molti libri su questa attribuzione teatrale dell’identità), per cui l’identità scivola sull’alterità, ed è definita dalla differenza.
Pensa all’immunità: il sistema di auto-preservazione deve costantemente evolversi e mutare per riconoscere l’altro, il virus.
Ma sorgono problemi seri quando si parla di identità trans-individuale. A questo punto l’identità, come immunità collettiva, diventa una profezia auto-avverante di guerra. La condizione dell’identità collettiva è l’inimicizia. Non è una patologia: è un dilemma, un dilemma pericoloso che può condurre a patologie aggressive. Non voglio fingere di poter risolvere questo dilemma, non credo che dovremmo sopprimere il bisogno interiore di un’identità psicologica. Dobbiamo essere consapevoli che potrebbe essere una trappola.
Qual è la radice dell’ossessione identitaria degli ultimi trent’anni? La globalizzazione, la deterritorializzazione stratificata dell’economia, dell’immagine, della percezione, ha messo in moto un ciclone. La grande accelerazione ha privato le persone di un panorama riconoscibile, di un modo riconoscibile di auto-identificarsi. La cara vecchia nevrosi del soggetto borghese freudiano è stata sostituita dalla esternalizzazione dell’inconscio, dall’ingiunzione di guardare di più, sentire di più, annusare di più, consumare di più.
Alle masse lo spettacolo piaceva eccome, poi sono diventati tristi, perché si sono resi conto che era una messa in scena. Una baracconata, uno spettacolo, una continua eccitazione senza piacere, senza contatto. Le masse sono state vittima di una dis-identificazione brutale, accompagnata dall’incitamento ad affermarsi, ad affermare la propria identità.
Pensa alla pubblicità: tu non sei ciò che credi di essere, tu sei il prodotto che ti sto vendendo.
Non prendertela con le vittime. Il ritorno farsesco del fascismo è la reazione della vittima, il tentativo della vittima di ritrovare un’identità.
EM: Un effetto collaterale potenzialmente scandaloso dell’anti-identitarismo di Come si cura il nazi è il tuo identificare (pun intended) la sinistra come uno dei pazienti più infetti dalle peggiori patologie del complesso identitario. D’altronde, una delle preoccupazioni più pressanti che esprimevi in quel libro era la ricomparsa di una forma estremamente specifica di narcisismo tipica dell’inconscio politico di sinistra, una forma mentis che Mark Fisher ha definito il super-io leninista: una compulsione che porta il malcapitato ad identificarsi con un’impossibile identità trascendente – un Partito inesistente, il comunismo reale di qualche lontano paese o un’identità costruita intorno ad una forma molto specifica di oppressione, spesso vissuta da qualcun’altro. Tutti oggetti naturalmente e non problematicamente opposti ad ogni male del mondo. Questa compulsione porta il soggetto ad andare a scovare un Nemico, la radice assoluta della nostra oppressione.
Mi sembra un discorso estremamente rilevante per la nostra vita politica contemporanea, così spesso catturata da battaglie terminalmente online, moraleggianti e rivolte quasi esclusivamente verso nemici sostanzialmente ininfluenti. Mi viene spesso in mente quella volta, nel pieno dell’ascesa di Donald Trump, in cui molte persone di sinistra, io incluso, fecero meme fino allo sfinimento su Richard Spencer che veniva preso a pugni. Non eravamo in grado di cambiare le sorti del mondo, ma potevamo sfogarci virtualmente sul viso di Spencer, agente politico oggi totalmente irrilevante. Uno strano sostituto masturbatorio di un reale conflitto sociale, e un segno di spettacolare impotenza.
Qual è la tua opinione della sinistra oggi? E che forma potrebbe assumere quella politica libertaria e anti-produttiva che animava Come si cura il nazi?
FBB: Tocchi un punto interessante quando parli di super-io leninista.
Lenin è l’avatar principale del super-io moderno che fu concettualizzato per la prima volta, credo, da Niccolò Macchiavelli. Nel Principe Macchiavelli definisce la potenza e il potere come controllo del femminile. Sostiene Macchiavelli (paragrafo 25) che il potere politico è basato sulla sottomissione della Fortuna capricciosa e imprevedibile, che (ovviamente) è una femmina a cui piace essere sottomessa (e presa a pugni, scrive il Segretario Fiorentino).
Qui vedo la matrice della pulsione moderna di soggiogare l’altro: la natura, i popoli selvaggi, e alla fine anche il tempo. Guardando questi cinque secoli di capitalismo moderno e la conquista del mondo degli imperialisti bianchi venuti dall’Europa uno potrebbe pensare: “Wow. È stata un’idea davvero efficace, in senso faustiano”. Dopotutto, Mefistofele ha dato a Faust la capacità di sottomettere Fortuna, ma non di ucciderla. E ora torna travestita da Chaos. Per questo la gente tende ad essere nervosa: perché sente che la loro identità basata sulla loro potenza sta traballando. L’impotenza prevale quando il disordine circostante sfugge dalle grinfie della volontà razionale.
Appartengo all’ultima generazione che ha ricevuto quell’imprinting leninista. Nel ’68 condividevamo l’idea che la volontà razionale dovesse prendere il controllo del corso della storia e ristrutturare la totalità delle attività sociali in maniera egualitaria e anti-autoritaria. Il ’68 fu l’ultimo tentativo credibile di sottomettere Fortuna, ma attrasse proprio Fortuna e gli eventi e l’immaginazione proliferarono oltre il punto di non ritorno, e il ’68 fu divorato dall’accelerazione liberata dallo slogan soixanthuitard “tout le pouvoir à l’imagination”.
L’immaginazione divenne il motore del potere, cristallizzandosi nell’Immaginario. E Lenin fu abbagliato e stordito dal turbinio.
Nel mio libretto del 1993 tentavo di mettere in questione le politiche della colpa, basate sull’onnipotenza della volontà.
La radice del fascismo è qui: se le cose vanno male ci deve essere un responsabile del nostro dolore. Chiamiamola soggettivazione del Male. Ovviamente, so che c’è gente cattiva, è un fatto psicopatologico e, anche, con la dominazione di classe. Ma la soggettivazione del Male è la macchiaveliana iper-sopravvalutazione della volontà razionale.
Le teorie della cospirazione sono endemiche a questa soggettivazione. Non nego che ci siano cospirazioni. Ci sono certamente moltissime cospirazioni, emergono e confliggono e si uniscono e si confondono nell’eterogenesi dei fini. Per questo tutte le cospirazioni falliscono – tutte. Alcune tracce persistono, e si mischiano con tracce di altre cospirazioni. Come si fa ad identificare un colpevole?
Quando dico cattivo non intendo un disordine morale, ma quel genere di azioni che generano dolore in qualsiasi essere vivente e sensibile. Qualsiasi azione che aumenta anche solo di un milligrammo il dolore dell’universo sensibile è cattivo.
La sofferenza è l’effetto degli automatismi sociali, e della potenza del caos.
Il fascismo deve essere considerato come una sorta di organizzazione sistematica del dolore. Da dove proviene questa organizzazione? Certamente non dalla volontà del fascista, ma dallo stato psicopatologico di coloro che si identificano come fascisti per non ritrovarsi completamente persi.
Mi chiedi cosa penso dello stato attuale della sinistra. Non penso nemmeno per un secondo alla sinistra. È l’ultima delle mie preoccupazioni. Il mio cruccio è lo stato della soggettività sociale.
Diciamolo senza giri di parole, la sinistra che abbiamo ereditato dal diciannovesimo secolo è sparita. L’unica sinistra che vedo calcare la scena globale è…ehm…ehm… Joe Biden. La sinistra si è dimostrata così schifosamente mansueta davanti all’assalto neoliberale da aver perso ogni credibilità, e ogni dignità aggiungerei. Amen.
Il problema è la soggettività sociale, la possibilità di creare nuovi legami di solidarietà sociale, di internazionalismo. Questa è la mia più grande preoccupazione oggi, dato che la pandemia ha sabotato l’ultimo rimasuglio del movimento progressista: la vicinanza fisica. Stiamo attraversando una soglia che sta ristrutturando l’inconscio collettivo. La ricomposizione sociale dovrà partire dal problema di reinventare il desiderio, la cortesia e il piacere.
EM: Sospetto che un altro aspetto di Come si cura il nazi? potrebbe risultare scandaloso per il lettore contemporaneo: la tua aperta avversione per quella che potremmo chiamare modernità e, in un certo senso, per il concetto stesso di ragione. Una delle colonne portanti del libro è l’idea che: «il fascismo appartiene alla storia normale della modernità». In altre parole, per un comunista libertario come te non c’è modo di distinguere la società industriale tardo-moderna, l’Illuminismo e il fascismo, è giusto una questione di qualche grado di separazione. La ragione incontrollata nasconde in sé un innominabile sete di dominio e distruzione, una pulsione psicotica che la lega indissolubilmente ad uno stato di guerra permanente. Ovviamente questo non vuol dire che tu voglia rigettare tutto il mondo moderno e rinnegare i suoi molti successi come farebbe un pensatore reazionario qualsiasi, ma ci consigli di imparare a curare le manie di controllo e annichilimento che la ragione nasconde nel suo bassoventre.
Solleva questa questione anche perché il razionalismo ha vissuto un piccolo rinascimento accademico dal 2010 in poi. Se c’è un trait d’union che unisce gli accelerazionisti, i realisti speculativi e altre scuole hip nel dibattito filosofico contemporaneo è questa fede incrollabile, un po’ Carl Sagan-esca, nella ragione e nella pianificazione. La tua posizione potrebbe sembrare un po’ passe, se non addirittura pericolosa.
Come descriveresti oggi l’irrazionalismo, per così dire, di Come si cura il nazi? Che nazi stiamo curando quando curiamo la ragione?
FBB: Nelle prime pagine della Dialektik den Aufklarung Adorno e Horkheimer scrivono che se la ragione moderna sarà incapace di vedere il lato oscuro degli effetti prodotti dalla ragione stessa sarà destinata ad essere travolta dall’oscurità. L’onnipotenza della ragione (e della volontà) è la superstizione che genera la rabbia degli impotenti quando l’impotenza emerge come tratto sempre più essenziale dell’azione umana.
Capisco cosa intendi quando parli del ritorno di un certo razionalismo negli ultimi decenni, ma credo che l’accelerazionismo sia una cosa un po’ più complessa. Nell’acclerazionismo di sinistra c’è uno spirito immanentista che condivido, ma c’è anche una certa cecità per quel che riguarda la soggettività.
L’evoluzione non è una linea dritta verso il meglio. Non è solo il progresso della conoscenza, ma anche l’emergenza dell’ignoto, dell’inconoscibile. E la ragione non regna nell’universo. La radice latina del termine ragione (ratio) significa misura, e il problema della misura è cruciale per capire l’umanismo, e la potenza della volontà politica moderna.
Protagora è il vero progenitore del razionalismo moderno, e gli si attribuisce la frase: « L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono, e di quelle che non sono per ciò che non sono». In effetti, il capitalismo moderno e lo stato-nazione moderno sono solo una questione di misure. La misurazione economica del lavoro, la misurazione economica dell’accumulazione, la misura politica della legge. Ma oggi il paradigma di Protagora è fuori uso, i processi cruciali della nostra epoca sono tutti smisurati. Il virus è fuori da ogni misura della conoscenza, e della predicibilità. Le radiazioni sfuggono ad ogni misura di controllo cosciente. Il cambiamento climatico è fuori dalla portata dell’azione politica. E così via.
EM: Per finire, un problema frivolo. Uno degli aspetti più affascinanti di Come si cura il nazi? è la sua estetica barocca. Il libro è pieno di creature sottoculturali – dagli hacker ai naziskin – che appaiono da tutte le parti come schegge tossiche di un regno dorato e marcescente. Eppure, nel libro esprimi un giudizio molto duro sulle sottoculture. Le consideri forme di defezione ironica fondamentali, ma sostanzialmente inefficaci. Non cambiano nulla, in parole povere. Questo mi fa sorgere la domanda: che farcene delle sottoculture a questo punto? Come affrontare questi sintomi del mondo contemporaneo?
Te lo chiedo principalmente perché stavo ascoltando un’intervista che Lana del Rey ha rilasciato alla BBC prima del lancio del suo ultimo disco, in cui dice che Donald Trump è stato a suo modo necessario perché è stato: «il riflesso del problema più grande del mondo contemporaneo, che non è il cambiamento climatico, ma la sociopatia e il narcisismo». Tutta l’intervista gira intorno a questo senso di malessere collettivo, questo timore di vivere in un clima culturale brutale e tremendamente impoverito. È ovviamente una forma di marketing e va trattata come tale, ma, detta così, potrebbe anche sembrare, paradossalmente, una lettura un po’ banale del tuo libro.
Come possiamo confrontarci con Lana del Rey? Dobbiamo far nostro il suo messaggio, magari con una certa ironia? O dobbiamo evitare la cultura pop in tutti i modi?
FBB: Il barocco è una figura culturale che dovremmo rileggere sotto la luce nera del fascismo.
In un libro del 1925, L’Europa vivente, Curzio Malaparte afferma che il fascismo (il vero fascismo che per lui è latino e non tedesco, cattolico e non protestante) è essenzialmente il ritorno dello spirito barocco. Ha ragione, fino a un certo punto. Cos’è il barocco? La resa cinica della vita davanti alla forza allucinatoria dell’immagine, dello spettacolo.
Il barocco è una crisi dell’identificazione. La storia della Spagna dopo il 1492, l’espulsione dei moriscos e la scoperta del nuovo continente è la storia di una drammatica deterritorializzazione, di una perdita d’identità collettiva.
Lo spettacolo multimediale ha rimesso in scena la condizione barocca, con una potenza moltiplicata dalle tecnologie neuro-estetiche. Il fascismo è il tentativo disperato di riconquistarsi un’identità davanti alla fantasmagoria. Questo non significa che dovremmo evitare la fantasmagoria sottoculturale e le sue mitologie. Vuol dire che dovremo rimanere sempre ironici perché l’ironia è il migliore antidoto contro il fascismo.
Non conosco l’intervista a Lana del Rey, ma ha ragione quando dice che il nostro problema più grande non è il cambiamento climatico o la guerra nucleare, ma la svolta psicotica che ha preso la psicosfera. La condizione mentale delle masse è essenziale se vogliamo evitare l’estinzione – se la mente sociale è ossessionata dall’avidità e dall’identità siamo finiti.
“Indiani, Indiani ovunque…”. Sembra un po’ la sindrome del Generale Custer