Perché esistiamo? E perché mai siamo addirittura coscienti? Per rispondere a queste due domande, o almeno per provarci, serve partire da alcune questioni “fondamentali”.
In copertina e lungo il testo un’opera di Paul Klee, Suffering Fruit, 1933
di Marco Mattei
Qualche tempo fa, mi sono trovato a dover tenere una lezione di filosofia senza preavviso – sostituivo un professore che si era assentato all’ultimo momento – ad alcuni studenti del primo anno. Non avevo preparato nulla perché non ero stato avvisato in anticipo e non conoscevo il background degli studenti. Così, un po’ per pigrizia, un po’ per improvvisare un modo per occupare due ore, ho chiesto ai ragazzi e alle ragazze presenti se avessero delle domande. Di qualsiasi tipo: magari c’era qualche argomento che non avevano capito bene, o che per ragioni di tempo non avevano avuto modo di discutere. Al meglio delle mie capacità, avrei provato a risolvere i loro dubbi.
Immediatamente, una ragazza mi ha chiesto nientemeno che il significato di una citazione di Parmenide – ‹‹L’Essere è e non può non essere›› – e poi mi hai incalzato, ‹‹Perché esistiamo?, perché siamo coscienti?››.
Tentare di rispondere a queste domande non è facile come sembra. Un po’, perché la frase parmenidea è una risposta a una domanda notoriamente difficile nella storia della filosofia, tant’è che si è meritata il nome di questione fondamentale della metafisica; un po’, perché per poter davvero capire la domanda – e attenzione, scrivo capire “la domanda” e non “la risposta”! – c’è bisogno di fare un passo indietro, di allontanarsi, di divagare prima di affrontare il punto. È un vizio tipico della filosofia, questo, quello di non affrontare mai le questioni direttamente, ma di andare sempre indietro, di lato, intorno… in inglese i verbi to wander e to wonder sono sorprendentemente simili. Ed è proprio questo, che un po’ racchiude lo spirito filosofico, il domandarsi meravigliati, e il vagabondare nella domanda, l’indugiare nel dare una risposta. Se c’è una cosa che questa disciplina insegna è forse che porre domande è più importante che trovare risposte, e che più che trovare la risposta corretta, è importante trovare la domanda giusta. In questo senso la filosofia è l’arte del chiedersi, e del chiedersi per il piacere di meravigliarsi. To wander, to wonder.
Bisogna fare un passo indietro, dunque, ma per arrivare dove? Un filosofo molto famoso, un austriaco austero e iracondo, ma la cui filosofia, se la si riesce a penetrare, nasconde delle meraviglie e del mistico, si chiama Ludwig Wittgenstein e forse è anche uno dei – se non il – più importanti filosofi dello scorso secolo, scrive ‹‹è così difficile trovare l’inizio. O meglio: è difficile cominciare dall’inizio. E non tentare di andare ancor più indietro››. Bisogna trovare un punto di partenza, ma come ci avverte Wittgenstein ogni punto di partenza è convenzionale… scrive Wisława Szymborska, ‹‹ogni inizio infatti è solo un seguito, e il libro degli eventi è sempre aperto a metà››.
Fortunatamente per noi, questa famigerata domanda fondamentale si è presentata abbastanza presto nella storia della filosofia. Ci sono tuttavia delle cose su cui dobbiamo accordarci, su cui dobbiamo capirci senza possibilità di ambiguità, perché più andremo avanti più il rischio che la confusione terminologica regni sovrana ci sormonta. È bene dunque essere chiari e precisi su cosa significano certi termini: che cos’è la filosofia? Che cos’è la metafisica? Tuttavia, mi è necessario dover dare delle informazioni preliminari, perché in filosofia, spesso, si portano avanti ragionamenti che chiameremmo bizzarri, per usare un eufemismo. Come bisogna approcciarli? Le idee non si incontrano mai nel vuoto, ma sempre in uno spazio di confronto già pregno di informazioni, credenze, giudizi e pregiudizi. Un’aula di filosofia però, come può essere una discussione, un testo, una esplorazione, dovrebbe essere un safe space. Uso questo termine in maniera un tantino diversa da quella a cui potreste essere abituati. Nessun antro del pensiero dovrebbe essere impossibile da esplorare: nemmeno quelli che a prima vista potrebbero sembrare pericolosi moralmente o socialmente. Attenzione però: questo non significa legittimare qualsiasi idea riprovevole o sconsiderata: il filosofo e la filosofa, ed uso ora questi termini per indicare chiunque voglia avventurarsi nelle terre del pensiero, non dovrebbero mai abbandonare una certa visione morale globale riguardo la loro attività. Dico solo che le idee, qualsiasi esse siano, vanno incontrate il più neutralmente possibile. La ricerca della verità non è una ricerca se si sa già dove si vuole andare e cosa si vuole rifiutare. In uno spazio sicuro, sotto la guida di un altro pensatore, specialmente se è un gigante come Parmenide, Wittgenstein, Hegel, o altri che nominerò più avanti, ci si può lasciare andare all’esplorazione di concetti inaspettati, il più delle volte scoprendo meraviglie altrimenti non vedute.
Questi paragrafi ricalcano un po’ quello che un altro importantissimo filosofo tedesco, Hegel, ha chiamato il problema del cominciamento. Come ho già detto, to wander, to wonder. La meraviglia poi, il wondering, è un aspetto fondamentale della filosofia. Secondo un filosofo greco che visse più di duemila anni fa, la filosofia nacque proprio grazie alla capacità peculiare agli esseri umani di stupirsi. A suo parere, il fatto di esistere è così strano per l’essere umano che le domande filosofiche nascono da sole. Senza la meraviglia non si va da nessuna parte:
Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia [thaumazon] riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica.
-->Per far filosofia bisogna meravigliarsi, bisogna che il cosmo in cui si abita sia visto poeticamente. E questo, secondo la filosofa Marìa Zambrano, la filosofia ce l’ha in comune con la poesia. In un certo senso, il bambino è il filosofo perfetto. Per lui – o lei – il cosmo è tutto da scoprire, pieno di misteri. La meraviglia ci mette di fronte la nostra ignoranza. Dunque, un’altra cosa che la filosofia ci insegna è a vedere il mondo con occhi diversi, a vederlo bello, misterioso, a cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della realtà. E la realtà è profondamente misteriosa e meravigliosa… noi esistiamo. Non intendo soltanto dire che io e te siamo qui, qualsiasi cosa questa potrebbe significare, quando saremmo potuti non esserci – i nostri genitori, ad esempio, avrebbero potuto scegliere di non avere figli. No, sto dicendo che io e te, l’albero che hai davanti casa, i pesci, questa penna, il sole, la costellazione dell’Orsa Maggiore, la Via Lattea, il batterio dell’influenza… tutto ciò esiste. Un filosofo spesso sottovalutato, Marco Castoldi in arte Morgan, in una canzone canta:
Se non esistessero i fiori, riusciresti a immaginarli? Se non esistessero i pesci riusciresti a immaginarli? In altre zone di questo universo è facile da realizzare: esiste tutto ciò che io non riesco ancora a immaginare. Se non ci fossero i funghi riusciresti a immaginarli? Se non esistessero le alghe riusciresti a immaginarle? Le stelle che riesco a vedere sono una piccola percentuale. Esiste tutto ciò che io non riesco ancora a immaginare.
È questo lo stupore di cui parla Aristotele, la meraviglia per l’esistente. Ora che forse ci siamo intesi sull’origine della filosofia e dell’importanza delle domande possiamo procedere verso la prossima questione. To wander, to wonder. C’è una domanda che sorge spontanea, che tutte e tutti ci siamo posti, anche voi probabilmente, e prima di voi i vostri genitori e ogni vostro antenato e anche dopo di voi si ripeterà questo rituale. Da dove veniamo? Perché esistiamo? Chi sono? La coscienza è al tempo stesso la più certa di tutte le realtà e il più grande e sublime mistero nel cosmo. Perché siamo coscienti? Perché si prova qualcosa a essere vivi? L’enorme difficoltà di questa problematica è così profonda che il linguaggio si fracassa contro la barriera della coscienza e rimane muto, incapace di esprimere alcunché perché mancante dei termini adatti. La coscienza esaurisce il linguaggio: cosa significa essere coscienti? Descrivere questo fenomeno è un compito per me impossibile. È semplicemente così: per gli esseri viventi esistere significa essere immersi in questo immenso flusso di infinite e meravigliose forme che – per dirla con Darwin – popolano i nostri spazi interiori. Sapori, speranze, parole, dolori, pensieri… Così a lungo si è lottato con questo enigma che in filosofia è noto con un nome inequivocabile: il problema difficile. Tale rompicapo consiste nello spiegare il come e il perché alcuni organismi hanno esperienze – come e perché ci sono sensazioni associate a stati interni, come il caldo o il freddo, la sensazione del blu profondo o di una nota musicale. Come si può spiegare perché c’è qualcosa che intimamente si prova a intrattenere un pensiero o a provare un’emozione? Anche se si accetta che l’esperienza nasca da una base fisica, non è ancora chiaro il perché questa ci sia in primo luogo. La domanda che ci si pone non è solo come sia possibile che siamo coscienti, ma ‹‹perché si prova qualcosa ad essere››? La migliore descrizione di questo fenomeno è, a mio avviso, quella che dà Julian Jaynes, psicologo statunitense:
Mondo di visioni non vedute e silenzi inauditi è questa regione inconsistente della mente! E ineffabili essenze questi ricordi impalpabili, queste fantasticherie che nessuno può mostrare! E quanto privati, quanto intimi! Un teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri, luogo infinito di delusioni e di scoperte. Un intero regno su cui ciascuno di noi regna solitario e recluso, contestando ciò che vuole, comandando ciò che può. Eremo occulto dove possiamo studiare fino in fondo il libro tormentato di ciò che abbiamo fatto e possiamo fare. Un introcosmo che è più me di ciò che io posso trovare in uno specchio. Questa coscienza, che è il me stesso più segreto, che è ogni cosa eppure non è nulla, che cos’è?
Il testo di Jaynes è scritto magistralmente. In poche righe condensa non solo in maniera evocativa quel sapore, l’effetto che ci fa essere vivi; ma anche la sua componente più strettamente occulta, orrorifica. Pensateci: gli interrogativi sul perché siamo coscienti – perché questo sono io? Lo stupore generale per il concetto di essere un sé suggerisce l’ancora più difficile “perché esisto”: l’orrore della coscienza è l’orrore dell’esistenza, e la risposta a questa domanda può svelare ogni sorta di orrore sulla natura della nostra stessa esistenza e dell’universo in generale. Perché, spesso, le domande sulla coscienza portano necessariamente a dover guardare quell’abisso che è la domanda fondamentale – e cosmica – della metafisica: perché c’è qualcosa invece di niente? Perché l’essere anziché il nulla?
Questa domanda, quest’ultima domanda, è la domanda a cui nessun uomo o donna può sfuggire. Una volta posta, non v’è più via di scampo. Per questo bisogna fare attenzione alle domande che si fanno: chiedere è come una maledizione, una volta che si viene gettati nel divagare, nel wondering, da un pensiero, non se ne esce più. In un certo senso, cercare di affrontare una domanda così fondamentale è simile all’essere innamorati. Tutto il resto perde di senso. Come posso sperare di riuscire a pensare o fare altro, una volta che tale questione è stata posta? Così come l’innamorato o l’innamorata non è più in grado di fare qualsiasi altra cosa se non pensare all’amato o all’amata, così l’essere umano, una volta entrato nel giogo della meraviglia dell’esistenza, non può non affrontarne i labirinti. To wonder, to wander. Non c’è domanda più pressante di questa. D’altronde, la filosofia nasconde l’amore – o meglio, l’innamoramento – nel nome. Philos Sophia, l’amore per la conoscenza. Non già la conoscenza in sé – no, quella in greco è la mathema, da cui deriva l’italiano matematica – bensì l’amore, l’innamoramento per la conoscenza. Il filosofo non è colui che sa. E infatti Socrate, il filosofo par excellence, dirà che l’unica cosa che sa è di non sapere. Bensì il filosofo è colui che è in una continua ricerca, in continua tensione verso una conoscenza che non può raggiungere. Di questa tensione ha scritto maestosamente la critica Anne Carson dove suggerisce che la relazione tra il pensatore o la pensatrice e la sophia è:
[u]n limite tra due immagini che non possono fondersi in un unico centro perché non derivano dallo stesso livello di realtà: una è reale, l’altra è soltanto possibile. Conoscerle entrambe, lasciando visibile la differenza è il sotterfugio che si chiama Eros.
Lo stesso Socrate, nel “Simposio” parla di Eros come il figlio di due divinità: Poros, lo stratagemma, l’ingegno, la via intesa come percorso di espedienti, e Penìa, la povertà. Dunque, la condizione di chi fa filosofia è quella di chi ha una mancanza – è povera – e meravigliata, estasiata dalla visione dell’oggetto che le manca ed allora inizia a vagare, in preda a una tensione erotica, tramite stratagemmi e ingegni, percorrendo la via che non la porterà a possedere l’amato ma sarà continuamente intorno a lui, a bearsi della sua vista. Un eterno innamoramento, o, in altre parole… il desiderio. Questo è il percorso della filosofia, dalla meraviglia al desiderio, senza mai passare per la soddisfazione. To wonder, to wander. È una visione dinamica, magica, insaziabile. È questa la portata della domanda, e in quanto amanti, in quanto innamorati, in quanto umani… nessuno può sfuggirvi.
Così, spero di aver trasmesso il carattere urgente della questione, e del perché è ritenuta la domanda fondamentale. Ripeto, in filosofia spesso è molto più importante capire le domande che le risposte. Un’ultima cosa che c’è bisogno di dire, prima di affrontare il discorso di Parmenide, è qualche piccola spiegazione sulla metafisica. Che cos’è la metafisica? Da un certo punto di vista, la domanda “Che cos’è?” è la domanda metafisica più importante. Tì estì; diceva Aristotele. Etimologicamente, “metafisica” è una parola buffa. Nel primo secolo avanti cristo, circa tre secoli dopo la morte di Aristotele, un uomo di nome Andronico di Rodi stava sistemando gli scritti aristotelici in una biblioteca, in modo tale che tutti potessero consultarli. Decise di raggruppare gli scritti per tema, così mise gli scritti sulla biologia tutti insieme, gli scritti sulla religione tutti insieme e via dicendo, fino agli scritti sulla fisica. Fino a quando, si accorse che erano avanzati una manciata di fogli che non parlavano di niente in particolare. Si riferivano a una generica questione sull’esistenza delle cose e della materia. Indeciso su come catalogarli, Andronico li sistemò tutti insieme, sull’ultimo scaffale rimasto libro: quello dopo la sezione sulla fisica. E in greco, “la sezione dopo la sezione sulla fisica” si dice proprio così metà tà physikà, o, abbreviato metafisica. Perciò, non ci si può aspettare molto da questa disciplina, con un inizio così insensato. Però, metaforicamente, possiamo dire che la metafisica studia tutte quelle cose che sono al di là della fisica, ossia quelle questioni che la fisica deve necessariamente presupporre per esistere. Questioni come l’esistenza e i principii generali delle cose… appunto questioni che riguardano l’Essere… perché l’essere anziché il nulla? La scienza non può rispondere a questa domanda, perché la scienza dà l’Essere per scontato. L’Essere… che cos’è? Di nuovo una domanda metafisica. Non ci soffermiamo troppo su questa domanda. Utilizziamo Essere con la lettera maiuscola per distinguerlo dal fatto che esistono cose particolari: esiste questo pc su cui sto scrivendo, esisto io, esisti tu, esistono molte cose. Ma chiamiamo Essere, con la E maiuscola il fatto generalissimo che le cose esistono, che c’è qualcosa… indichiamo con Essere in generale la materia, l’energia… il generalissimo e meraviglioso fatto che “esiste l’esistere”. Ora, si potrebbe pensare che la risposta alla domanda fondamentale sia questione di opinioni, ma non è così. La metafisica – la scientia prima – come era nota tra i medievali, nasce con una pretesa di verità. È Aristotele stesso a dircelo: a un certo punto, nell’antica Grecia, le persone smettono di raccontarsi miti, e iniziano a ragionare. Si passa, si dice, dal mythos al logos. Ovviamente, anche questi filosofi che ragionano dicono cose false – il mondo non è fatto di acqua come voleva Talete, primo filosofo. Ma la differenza è che mentre al mito si crede, al logos si discute, si dubita, si indaga, si divaga e si meraviglia. To wonder, to wander. La parola logos ha molti significati, in greco antico, si può tradurre come discorso o ragionamento, ma anche come proporzione, relazione, numero, rapporto, verbo. In italiano la troviamo ancora nei nomi delle discipline scientifiche, come ad esempio psico-logia, zoo-logia, archeo-logia. Il logos è alla base della riflessione occidentale. Nella genesi raccontata dal Vangelo di Giovanni, in lingua originale, si dice en arché en o logos, in principio era il verbo. “Verbo” che sta a significare ragione, razionalità, ma anche motivo. Dio non pone il mondo a caso, così deve esservi una risposta razionale alla domanda perché l’Essere anziché il nulla?, una risposta indagabile tramite la pura ragione, andando al di là della fisica e dei suoi metodi.
Esiste un uomo, secondo me, che è riuscito a dare una risposta a questa domanda. La soluzione all’enigma è talmente semplice da risultare insensata, banale; ma, se la si comprende appieno, rivela un cosmo di meraviglie ed estasi. L’uomo di cui sto parlando apparì per la prima volta in quest’universo duemilacinquecento anni fa, nell’odierna Campania, allora parte della Magna Grecia. Il suo nome è Parmenide. L’insegnamento parmenideo è racchiuso in due semplici frasi: ‹‹L’Essere è, e non è possibile che non sia; il Non-Essere non è, e non è possibile che sia››. La potenza di questa tesi è così alta, che lo stesso Parmenide, ritengo, non ne riconobbe le reali implicazioni. Procediamo con ordine. È nella natura dell’Essere il fatto di be’… essere; di esistere. Non preoccupiamoci ora di capire cosa si intenda precisamente con Essere – che tipo di entità sia. Basti pensare che per Essere con la E maiuscola ci si riferisce semplicemente al fatto che qualcosa di enormemente generico esiste – al fatto che c’è qualcosa. È concepibile pensare all’essere come non esistente?
Chi si occupa di filosofia, spesso, ama ragionare per controfattuali. Un controfattuale è un’asserzione su come il mondo non è. Ad esempio, mio nonno è francese, dunque io sarei potuto nascere in Francia. Di fatto, sono nato in Italia, ma la frase “sarei potuto nascere in Francia” è intuitivamente vera: non c’è nessuna ragione concettuale per cui dovrebbe essere falsa. Così dalla verità del controfattuale possiamo ricavare un insegnamento metafisico: essere nato in Italia non è una caratteristica essenziale della mia esistenza. È quella che viene chiamata una contingenza. Una cosa che è accaduta ma che sarebbe potuta benissimo non accadere, senza intaccare la natura profonda della mia persona… del mio essere. Al contrario “l’acqua potrebbe non essere H2O” sembra falso. Se qualcosa non fosse H2O non sarebbe acqua. Essere H2O è una caratteristica necessaria dell’acqua, fa parte della sua essenza. Dal fatto che qualcosa è concepibile come diverso, è possibile concludere la sua contingenza, ma, se qualcosa è inconcepibile allora ci siamo scontrati contro una sua proprietà essenziale.
Dunque, ritorniamo alla domanda iniziale: è concepibile pensare l’essere come non esistente? La risposta è no. Se c’è una sola proprietà che l’esistenza di una qualsiasi cosa in generale ha è che esiste. “Essere” è un predicato necessario, forse l’unico, dell’Essere. Se l’Essere non fosse, be’… non sarebbe. Allo stesso modo, se l’unica cosa che possiamo dire del Non-Essere (cioè del Nulla) è che non è, allora questo Non-Essere non-è essenzialmente. Con questo ragionamento forse difficile da leggere, ma facilissimo, banale anche, una volta realmente compreso, scopriamo che necessariamente c’è qualcosa invece che il nulla. Non potrebbe essere altrimenti. Se non ci fosse nulla, allora l’essere non sarebbe – ma questa è una contraddizione metafisica, oltre che logica! L’esistenza è implicata già dalla stessa natura dell’Essere. L’errore di Parmenide è stato pensare che questo implicasse la completa immutabilità dell’essere. Per il filosofo greco, infatti, dire che l’essere è e non può non essere, significa anche dire che qualsiasi cosa l’essere sia, lo è eternamente ed immutabilmente. L’Essere è in maniera assoluta. Ossia: un seme, prima o poi diventa una pianta. Però una pianta non è un seme: il cambiamento implica sempre una alternanza tra essere e non essere; x, nel diventare y, smette di essere x. Per Parmenide, dunque, l’essere è in maniera assoluta, non c’è alcun mutamento. Al contrario, è Eraclito il filosofo del tutto scorre. La posizione parmenidea è, a mio avviso, una caratterizzazione errata del principio. Dire che ‹‹l’Essere è e non è possibile che non sia››, non implica nessun tipo di impossibilità di movimento, perché con “Essere” non dobbiamo identificare un attributo delle cose che esistono, ma il fatto che esistono. ‹‹L’Essere è›› vuol dire che c’è qualcosa che esiste, e che questo qualcosa c’è necessariamente. Il nulla non esiste, il non-essere non è. Questo principio però rimane in silenzio su cosa sia (ricordi il tì estì?) quello che c’è. Possiamo notare, però, che in tutti i mutamenti, in tutte le trasformazioni possibili, c’è in effetti un qualcosa, un’entità che continua ad essere, ed è sempre identica ed immutata. Un sostrato che soddisfa tutte le condizioni dell’Essere parmenideo, a dispetto delle apparenze cangianti eraclitee. Sto parlando della materia. La materia è, in un senso molto forte di essere: tutto il cosmo è fatto da materia; la materia si conserva nel tempo e nei mutamenti; la materia è ciò che non può non essere. La materia, in breve, come precondizione per il suo emergere, non può essere emersa essa stessa, e quindi deve essere primordiale ed eterna. Argomentando in un modo molto simile a questo, il filosofo arabo del decimo secolo Ibn Sina, meglio conosciuto come Avicenna, affina logicamente la dottrina aristotelica della materia increata, proprio a partire dal concetto di possibilità. Il tipo di possibilità che precede la realtà presuppone un soggetto che contiene in sé la possibilità del proprio emergere. La materia è dunque un’essenza eterna, e in nessun modo un semplice essere che ha fatto a meno del proprio Essere; piuttosto, essa è, rispetto al divenire, il substrato delle sue predisposizioni, e anzi, include già le sue manifestazioni specifiche.
Scrive Ernst Bloch, un filosofo tedesco:
Per questo, dice Averroè nella frase decisiva della sua Destructio Destructionis: ‹‹Generatio nihil aliud est nisi converti res ab eo, quod es potential ad actum››, la generazione di una cosa non è altro che la trasformazione della sua potenzialità nell’attualità che già esisteva in essa. E le forme che prende emergono solo dalla materia stessa – lo sviluppo è “eductio formarum ex materia”. Così, l’orientamento della sinistra aristotelica emerge attraverso la ricostruzione del rapporto materia-forma come un rapporto che coglie chiaramente la materia come una forza attiva, non solo come qualcosa di meccanicamente inerte. Al posto di un Dio che ha creato il mondo c’è il potere creativo della natura naturans verso la natura naturata. Non sarebbe nemmeno dovuto essere così difficile spingere in avanti, attraverso il concetto di sviluppo, il problema di una natura-supernaturans e di conseguenza di una natura-supernaturata. Entrambi avrebbero posto il cielo, cioè una forma spirituale non più fluttuante proiettata nel futuro, sui suoi possibili piedi. Eppure, la “eductio formarum ex materia” è stata sufficiente, sia come provetta che come tesoro latente, per mettere le mani su un nuovo concetto di materia.
In breve, nel presente esistono sempre tracce reali di un futuro possibile. La materia è un segno di ciò che sarà. Abbiamo però finora semplicemente scoperto perché le cose esistono e appurato che cambiano, ma non abbiamo ancora risposto alla domanda principale: perché il divenire? Riprendendo il discorso parmenideo, ci si potrebbe chiedere come mai allora l’essere non sia statico – tutto quello che può esistere esiste contemporaneamente, e basta. Come mai invece noi sperimentiamo un costante divenire delle cose? Questo divenire non implica un continuo passaggio dall’Essere al non-Essere? Ci stiamo per scontrare con la caratteristica meravigliosa del cosmo. In un certo senso l’Essere è sempre, ed è immutabilmente. Però, così come il niente annienta, la materia materializza.
Per capire quest’ultima espressione, bisogna fare un ulteriore passo indietro. Il Nulla, il Non-Essere è qualcosa di assoluto. ‹‹Il niente nientifica››, per usare un’espressione di Heidegger infelicemente tradotta. Più chiaramente ‹‹Il niente annienta››: ciò che questo sta a significare è che se alla fine di tutto – alla fine del tempo e del cosmo – ci sarà soltanto il nulla allora la potenza ontologica di questo nulla sarà eterna e retroattiva. Non ci sarà mai stato niente. Per questo, dice Ray Brassier, filosofo inglese, la fine del mondo c’è già stata; anzi, il mondo non c’è mai stato. L’arrivo del nulla cancellerà tutto, non ci sarà mai stato alcunché. Das Nichts Nichtet. Il Nulla annulla. Se il Non-Essere è contagioso, e porta alla cancellazione totale, ritengo che l’Essere abbia lo stesso potere al contrario. La vita genera altra vita. La materia genera altra materia. La materia materializza. Il parallelismo non è perfetto perché in italiano non esiste un’espressione adatta per il processo in questione. Si potrebbe dire, usando perifrasi oscure, che l’Essere fa’ che si sia, che il fatto che si è porta ad essere. La formula che utilizzerò è che l’Essere aumenta. Questo aumentare non è da intendere in senso quantitativo, ma qualitativo. Cerco di spiegarmi meglio. Dire che il niente annienta vuol dire che il Nulla, il vuoto, è retroattivo. Una volta che si ha il Nihil, questo svuota di senso tutto ciò che l’ha preceduto. Il vero nulla annulla tutto quello che è venuto prima. Allo stesso modo, l’Essere – che qui abbiamo identificato con la materia – porta all’essere, è un impulso, una forza creatrice. La vita genera altra vita: l’essere fa accrescere. Questo non è da intendere in senso letterale, ovvero che l’esistenza si moltiplica numericamente – aumenta il numero degli esseri; piuttosto, è da intendere in senso qualitativo: aumenta il modo dell’essere. La materia genera nuove forme di vita, nuove forme di esistenza: il seme genera la pianta, la pianta genera l’albero, l’albero il fiore e il fiore il frutto. Alla fine del processo non si hanno cinque enti diversi – non c’è stata una moltiplicazione dell’essere – si ha un solo ente che ha subìto un accrescimento: l’essere del seme è passato in tutti i suoi modi di esistenza. Il filosofo italiano Emanuele Coccia, nella sua opera Metamorfosi, spiega benissimo questo principio: omnia mutatur, nihil interit; tutto muta, nulla perisce. Coccia scrive che nel cosmo siamo tutti la stessa medesima vita. Gli atomi che compongono il nostro corpo erano parte di una stella, ora sono parte di noi, dopo la nostra morte si dissolveranno e andranno a formare chissà quale altra entità. Quando mangiamo inglobiamo materia estranea che diventa noi. Respirare, invecchiare… sono tutti processi tramite i quali tutta la materia del cosmo si scambia, si penetra, metamorfizza; in breve, va attraverso tutti i modi dell’essere, tutte le forme di esistenza. Questo è il vero senso della frase l’Essere aumenta. C’è un impulso nella materia che la rende viva, che la spinge a diventare sempre nuove forme. Così, l’essere è immutabile nel senso che, per ogni istante di tempo, l’Essere è immutabilmente ed eternamente tutto ciò che può essere. L’Essere è sempre al massimo. Ma ecco che già subito nell’istante successivo la materia ha materializzato; l’Essere è aumentato, ha generato nuove forme che ora non possono non essere, appunto perché l’Essere è sempre e massimamente. O, in altre parole, l’Essere è essenzialmente utopico. Da ciò derivano due corollari: (1) è che il tempo è una derivazione dell’Essere. Il tempo esiste perché c’è la materia – il tempo è la dimensione sensibile dell’aumento dell’Essere. (2) è che, sebbene l’Essere sia sempre massimamente, nel momento in cui viene ad esistere una coscienza anticipatrice, ossia che è in grado di comprendere il futuro, allora la realtà le si rivela sotto il suo aspetto fondamentale: ossia come l’entità incompleta per eccellenza. Quest’idea fu esplorata per la prima volta nel 1923, da C.D. Broad, un importante filosofo inglese, che la chiamò Growing Block Universe. Scrive Broad:
Si osserverà che una teoria come questa accetta la realtà del presente e del passato, ma ritiene che il futuro non sia semplicemente nulla. Non è successo nulla al presente diventando passato, se non che nuove fette di esistenza sono state aggiunte alla storia totale del mondo. Il passato è quindi tanto reale quanto il presente. D’altra parte, l’essenza di un evento presente non è che quella di precedere gli eventi futuri, ma che non c’è letteralmente nulla con cui abbia una relazione di precedenza. La somma totale dell’esistenza è sempre crescente, ed è questo che dà alla serie temporale un senso e un ordine. Un momento t è successivo a un momento t’ se la somma totale dell’esistenza a t include la somma totale dell’esistenza a t’ insieme a qualcosa di più.
L’immagine che viene alla mente è quella di un verme la cui estremità frontale continua a crescere all’infinito – questa è la forma del cosmo. Secondo la teoria del growing block universe, quindi, il passato e il presente esistono entrambi, mentre il futuro non esiste ancora. Il presente è una proprietà oggettiva. Con il passare del tempo, una parte maggiore del mondo viene ad essere; pertanto, si dice che l’universo è in crescita – l’Essere aumenta. Si suppone che la crescita avvenga nel presente, una fetta molto sottile di spazio-tempo, dove sempre più spazio-tempo sta nascendo.
Questo impulso generatore dell’Essere è stato spesso chiamato dai filosofi natura naturans – natura naturante – ossia natura che crea nuova natura (realtà). Altre volte è stato chiamato realizzazione, nel senso etimologico del termine “realizzare” – ossia far divenire reale; pensate all’espressione “realizzare un’opera d’arte”, significa far esistere una cosa che non c’era. Affrontiamo ora la questione della generazione del cosmo, dall’inizio. Nel continuo generare nuove forme dell’Essere, il cosmo è dovuto passare attraverso un momento in cui da Uno è diventato molteplice – due, tre, diecimila, ecc. Col tempo, dalle infinite forme realizzate dal cosmo, sono nate le forme vive, gli esseri viventi come siamo noi. Esseri viventi che sono in grado di porre il problema di fondamentale della metafisica. A questo punto, abbiamo tutti gli strumenti per rispondere. Dal fatto che la vita esiste dobbiamo per forza concludere almeno che la vita è una possibilità dell’Essere, ossia che è una sua forma possibile. Poiché l’Essere è massimamente, ossia deve realizzare tutto quello che può realizzare, allora il cosmo deve evolvere necessariamente nella direzione che gli permette seguire questo piano. Ma questo è assurdo!, potrebbe obiettare qualcuno. È assurdo perché implica che il Cosmo sappia in anticipo tutte le possibili conseguenze del suo sviluppo, ed il Cosmo non è il tipo di entità a cui possiamo attribuire stati mentali come conoscenza, capacità di azione, pianificazione e quant’altro! Questa critica è completamente fuori fuoco. Ricordiamo che il Cosmo non subisce l’impulso ad aumentare come qualcosa di esterno – l’Essere aumenta. Il Cosmo è il suo impulso ad accrescere. Cosmo, Essere, Materia… nomi diversi per indicare la totalità dello stesso fenomeno. Accrescere è la natura del Cosmo, il suo realizzare è una attività non una passività. Così come i cianobatteri hanno generato nuovi modi di vivere, modellando un mondo aerobico; così come l’artista rende materiale un’immagine, una traccia dapprima esistente solo nella sua mente, così il Cosmo genera nuova materia, nuove potenzialità. Essere significa agire, scriveva Nietzsche. Generare nuovo Essere è l’essere dell’Essere.
L’impulso ad aumentare è una forza che permea tutto l’Essere, e possiamo trovarla anche in noi: è questo che io chiamo desiderio. La brama che cresce in noi, che a volte chiamiamo amore, la volontà di potenza, un’immagine che dal futuro ci raggiunge, ci penetra e ci maledice con la possibilità che viene ad annunciare – esiste un mondo a venire! – a volte tormentosa, a volte mozzafiato, un pugno sulla bocca dello stomaco; questa violenta potenza che è il manifestarsi in noi della consapevolezza di un futuro concreto la cui possibile realizzazione è sono nelle nostre mani, questa è la forza creatrice del cosmo così come noi la sperimentiamo. Il desiderio, infatti, non è mai dell’impossibile. Sarebbe una consolazione troppo grande per gli agenti potersi schermare dietro questa velata scusa. No, il desiderio è sempre desiderio di qualcosa di possibile, perché il desiderio crea le condizioni di possibilità del suo esaudirsi. Per questo disattendere alla nostra brama è così doloroso: non perché irraggiungibile, ma perché riconosciamo che quel mondo futuro esiste già – c’è sempre stato da quando è venuto ad interpellarci – ma noi l’abbiamo fatto scivolare via. In questo senso, il desiderio è sempre un’epifania ed è sempre un essere-interpellati: ci mostra un non-ancora del mondo. Il desiderio è quindi l’angelo che annuncia, e come tale non ha un destinatario obbligato, può rivolgersi a un individuo così come a un popolo. L’immagine dell’angelo mostra anche la normatività e l’aspetto irrimediabilmente agente del desiderio: questo è infatti una vera e propria chiamata. Quando l’angelo annuncia il mondo a venire sta all’ascoltatrice o all’ascoltatore pronunciare il fiat – sia fatta la sua volontà, ossia che questo desiderio si realizzi, che io possa agire per realizzare il futuro che mi è stato mostrato. Il desiderio, dunque, viene dal futuro: l’innamoramento, la brama, l’impulso utopico… altro non sono che impulsi dal non ancora, visioni di altri modi di essere possibili. Questa però è solo la prima forza dialettica dell’Utopia. Se infatti l’angelo viene dal futuro al presente, c’è un’altra figura che compie il percorso inverso: ad esso si contrappone la speranza. La speranza ribalta l’ordine temporale angelico-utopico, ripercorrendo al contrario la strada, andando dal presente al futuro. Se l’Utopia mostra una via, la Speranza è ciò che la percorre. Così ogni desiderio è un conflitto, una dialettica tra una visione e una speranza. È da questo scontro che nasce l’azione.
Polemos è padre di tutte le cose. Il conflitto dunque non è eliminabile, è anzi l’elemento costitutivo del divenire-reale del cosmo. Se vogliamo farne un discorso metafisico, infatti, il conflitto convive con il mutamento, se l’essere è un processo, è inevitabile che ci sia conflitto ovunque. Il desiderio, ad esempio, è conflittuale al livello più fondamentale. Bisogna essere fortemente scettici rispetto a tutte quelle filosofie che vogliono eliminare qualsiasi forma di scontro, che rifuggono a qualsiasi forma di potere, dal sesso alla vita politica. Eliminare il conflitto, e quindi eliminare il desiderio, significa narcotizzare la vita. Tangenzialmente, il problema del pessimismo filosofico, e quindi di una particolare forma di disincanto del mondo, nasce proprio da una incapacità di gestire il conflitto che il desiderio genera col mondo: si tende a vivere questo scontro come qualcosa che non dovrebbe esserci e quindi si cerca di eliminare la causa del conflitto, un totale disengagement. Eros, la tensione amorosa è infatti la più immediata e devastante manifestazione dell’impulso utopico. La violenta rivelazione della possibilità di una nuova forma di vita – l’innamoramento – è una coazione ad agire così forte che il soggetto ne è passivo, deve attivamente resistergli se non vuole realizzarla. Da qui ci si manifesta una verità controversa sul rapporto tra desiderio e potenza: il desiderio inverte i rapporti di potere. Vale a dire: si è vittime del desiderio. Desiderare è una passività – l’oggetto del mio desiderio, il miraggio del futuro che è venuto ad interpellarmi, è questo che ha un ruolo attivo nella relazione desiderante. L’amante, nel desiderare l’amato, gli si subordina. Ed infatti il desiderio amoroso è sempre non desiderio dell’altro ma desiderio del desiderio dell’altro: io desidero che tu mi desideri; desidero farmi oggetto del tuo desiderio. Solo così posso recuperare la mia agentività e sperare di avere potere su di te. Nel desiderarti, mi annullo. Questa passività non è legata all’innamoramento, ma è onnipresente nella concezione angelica dell’utopia, perché in quanto interpellati dal futuro siamo agiti dal desiderio: ne siamo sottomessi. Ovviamente, è importante non confondere innamoramento e amore: se il primo è l’angelo, la visione, il secondo è la speranza, l’azione. L’innamoramento viene dal futuro, l’amore è la pratica, l’esercizio dell’innamoramento. L’esempio della sfera amorosa non deve trarci in inganno: l’amore è solo una sfera – ma la più comprensibile – dell’impulso a realizzare del cosmo.
C’è un rapporto interessante tra desiderio e tempo che va indagato. Nel growing block universe non esiste futuro: c’è solo il passato e il presente. Il presente, per la precisione, è un attimo ineffabile, istantaneo; quel momento del ‹‹Verweile doch, du bist so schoen›› faustiano. Il presente è quello spazio temporale in cui sempre si vive ed in cui eternamente si è immersi eppure che ha profondità nulla. E però, è nel presente che accade l’aumento del cosmo. Nel momento in cui arriva l’angelo del desiderio ad annunciare un futuro, è nel presente che quel futuro esiste. Così, la dimensione temporale del presente è più simile ad un frattale, un doppiofondo: è nel presente che il futuro esiste, il futuro quindi aumenta il presente, lo rende maggiore, più ampio. Attraverso il desiderio, cioè desiderando, il nostro presente diventa più vasto. Per questo a volte possiamo sperimentare il desiderio non come una chiamata dal futuro, ma come un improvviso allargarsi ed aprirsi della dimensione temporale attuale: futuro e presente si compenetrano, l’uno dà aria all’altro. La ricchezza del presente dipende solamente dalla quantità di futuro che il desiderio vi immette. Dunque, questo fenomeno estatico che è l’aumento dell’Essere noi lo sperimentiamo intimamente nella vita vissuta desiderando, nella vita desiderante. In quest’aspetto si cela anche uno dei segreti della vita incantata: perché tramite il mondo possiamo scoprire la salute dei nostri desideri. Se il mio desiderare castra la potenza del mio essere, diminuisce il mio mondo, mi soffoca, asfissiante, allora la mia vita sta perdendo il suo senso, si sta annullando. D’altro canto, se il mio desiderio aumenta la quantità di presente che esperisco, arricchisce l’istante, allora la potenza del mio essere è rigogliosa. Il futuro soffia nuova vita nel presente attraverso il desiderio. To wonder, to wander.
A questo punto si può rispondere all’altra domanda: come mai siamo coscienti?
La coscienza è il punto di rottura. Una filosofia che voglia rendere possibile un atteggiamento ottimista verso il futuro deve ripartire da qui. L’unico paradigma possibile, in questo caso, è il panpsichismo. Per dirla in modo poetico, il panpsichismo è la visione che ‹‹Il mondo è sveglio››. Fuor di metafora, i suoi sostenitori dicono che la coscienza – la nostra capacità di avere sensazioni, nel senso più ampio possibile dell’espressione, o il fatto che ci sia qualcosa che si provi a essere noi – è fondamentale e onnipresente in tutto l’universo. Il “sentire” è una proprietà connaturata alla materia, non c’è niente di speciale nell’essere umano. È proprio la materia, infatti, l’entità più bistrattata dalla filosofia occidentale. La domanda sulla psiche è sempre stata: come è possibile che questo mondo meraviglioso che è la coscienza emerga da materia inerte? E così, da Platone ai giorni nostri, sono fiorite le dicotomie. La più famosa è, naturalmente, quella proposta da Cartesio, quella tra res extensa e res cogitans. Per il filosofo del cogito, la mente deve essere una sostanza diversa dalla sostanza che costituisce tutte le altre cose fisiche. Eppure, questo atteggiamento è profondamente cieco: quando ci chiediamo com’è possibile che da materia inerte emerga la coscienza stiamo effettivamente negando la realtà. Non c’è nulla da spiegare: porsi questa domanda significa implicitamente accettare che dalla materia non può nascere una mente, ma questo è un pregiudizio; per di più, un pregiudizio che si scontra con la realtà immediata. Perché noi siamo materia inerte e siamo coscienti. Se c’è qualcosa che l’esperienza di tutti i giorni ci dice, mentre dormiamo e mentre siamo svegli, è che la materia può dar vita a cose meravigliose. Io sono l’oggetto materiale che più intimamente conosco e così mi scopro materia cosciente. Non c’è più alcun mistero. Perché presuppore che la materia non può essere cosciente quando tutta la materia che conosciamo più immediatamente – e cioè noi stessi – ci dice che la materia è cosciente? In effetti, riconoscendo come vero il materialismo che la scienza ci consegna, non esiste materia che noi percepiamo come inerte, visto che qualsiasi interazione che abbiamo con il cosmo deve essere necessariamente mediata dalla coscienza della materia di cui sono fatto e che sono. Così, la domanda “come può la mente emergere da un mondo a-psichico?” è insensata. Che la materia pensi è il più certo di tutti i fatti.
Il poeta italiano Giacomo Leopardi scrive delle pagine illuminanti nello Zibaldone:
Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perché noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto, perché noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perché noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene p. [sic] lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo
Galen Strawson, importante filosofo inglese, ha scritto a tal proposito:
Ogni giorno, sembra, qualche persona molto intelligente ci dice che non sappiamo cosa sia la coscienza. La natura della coscienza, dicono, è un mistero impressionante. È il problema difficile per eccellenza. L’attuale voce di Wikipedia è da esempio: “la coscienza è l’aspetto più misterioso della nostra vita”; i filosofi “hanno lottato per comprendere la natura della coscienza”. Trovo questa descrizione molto strana. Soprattutto, perché sappiamo esattamente cos’è la coscienza – dove per “coscienza” intendo ciò che la maggior parte delle persone intende in questo dibattito: esperienza di qualsiasi tipo. È la cosa più familiare che ci sia, che sia l’esperienza dell’emozione, del dolore, del capire ciò che qualcuno dice, del vedere, dell’udire, del toccare, del gustare o del sentire. È infatti l’unica cosa nell’universo di cui possiamo pretendere di conoscere la natura intrinseca ultima. È qualcosa di assolutamente non misterioso.
La natura delle cose fisiche, al contrario, è profondamente misteriosa, e la fisica diventa sempre più strana di ora in ora. O meglio, più accuratamente: la natura delle cose fisiche è misteriosa, tranne nella misura in cui la coscienza è essa stessa una forma di materialità. Questo punto, a prima vista forse sorprendente, è stato sostenuto ardentemente da Bertrand Russell negli anni ’50, che nel saggio “Mente e materia” scrisse: ‹‹Non sappiamo nulla della qualità intrinseca degli eventi fisici tranne quando questi sono eventi mentali di cui facciamo direttamente esperienza››. Nell’avere esperienza cosciente, sostiene, impariamo qualcosa sulla natura intrinseca delle cose fisiche: perché l’esperienza cosciente è essa stessa una forma un modo di essere delle cose fisiche.
Il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz espresso questo punto di vista in modo molto vivido nel 1714. La percezione o la coscienza, scrisse, è inesplicabile su principi meccanici, cioè con forme e movimenti. Se immaginiamo una macchina la cui struttura la fa pensare, sentire ed essere cosciente, possiamo concepirla ingrandita in modo tale da poterci entrare dentro come un mulino. Supponiamo che lo facciamo: visitando le sue viscere, non troveremo mai nulla se non parti che si spingono a vicenda – mai nulla che possa spiegare uno stato cosciente
È vero che la fisica e la neurofisiologia moderne hanno notevolmente complicato il nostro quadro del cervello, ma il punto fondamentale di Leibniz rimane intatto.
Il panpsichismo, però, non implica che le opere d’arte, gli smeraldi e i droni abbiano esperienze interiori complesse, insicurezze, desideri e speranze; quello sì che sarebbe bizzarro e inaspettato. Piuttosto, ciò che la teoria presuppone, è che alcune forme di coscienza siano onnipresenti e fondamentali in tutto il cosmo, per la ragione fondamentale che ex nihilo nihil fit.
Vi propongo questo esperimento. Immaginate di poter ripercorrere al contrario l’albero dell’evoluzione animale, dai suoi rami odierni verso le radici perse nel tempo profondo, immergendovi di volta in volta in una creatura antenata, cercando di esperire il mondo attraverso il suo corpo. Si proverebbe sicuramente qualcosa ad essere un ominide. Non dico credenze o desideri particolari (è difficile – forse impossibile, ma non ne sarei troppo sicuro – avere questi costrutti psicologici senza un linguaggio). Però sicuramente vedresti meravigliosi colori, e udiresti incredibili suoni e invitanti odori. Andando più indietro ancora, miliardi di anni verso l’origine, potremmo ritrovarci nel corpo di un quadrupede, uscito dalla vita marina da solo qualche milione di anni. Anche qui, è incredibile pensare che per questo essere la vita non abbia nessun sapore. Uno schermo buio e sordo. Nessun suono, nessuno stimolo. Sicuramente la sua vita mentale sarà stata meno complessa della nostra, ma la sua sensibilità doveva essere sicuramente altrettanto ricca. Torniamo dunque ancora più indietro negli eoni, arriviamo alla prima creatura, qualunque essa sia, per la quale non siete disposti ad ammettere che sia cosciente. Di cosa stiamo parlando? Forse di una primitiva forma di vita marina? Una specie di alga? O forse un semplice organismo multicellulare? Qualunque essa sia, adesso andate mentalmente alla prima creatura per la quale siete disposti ad ammettere una forma di coscienza, per quanto semplice, e chiedetevi: cosa succede tra queste due creature? Prendi, ad esempio, il diretto antenato evolutivo precedente della prima creatura cosciente e chiedetevi quali differenze ci sono tra le due entità. Il mistero della coscienza, allora, deve racchiudersi interamente in quelle piccole differenze. Forse un paio di neuroni? Una mutazione in un solo gene? Qualsiasi sia la differenza, quando si inquadra il problema in quest’ottica, spiegare la coscienza così diventa assurdo. Un solo neurone, un gene modificato, un tratto in più non possono spiegare la comparsa ex nihilo di un fenomeno così complesso come la coscienza: quello sì che sarebbe misterioso. L’unico modo per comprendere quest’evento allora sarebbe davvero identificarlo come un miracolo e chiedersi se non esista un’entità altra in grado di spiegarlo. Purtroppo, a me questa spiegazione non convince per niente. Ritengo che il cosmo funzioni perfettamente così, autonomamente, senza il bisogno di dover ricorrere a entità sovrannaturali. E quindi, qual è la mia proposta? Quello che voglio dire è che per quanto indietro si possa tornare, la coscienza non sparisce mai. Nemmeno per quanto riguarda gli organismi multicellulari – d’altronde persino i parameci sono in grado di orientarsi e muoversi nello spazio per avvicinarsi ad un nutriente, quindi devono sentirlo in qualche modo. Nemmeno per quanto riguarda gli organismi unicellulari, e nemmeno quando si scavalla il reame del biologico, per entrare in quello del puramente fisico, la coscienza scompare. Leibniz amava affermare natura non facit saluts. La natura procede per gradi e non per salti.
Dire che gli elettroni sono coscienti, ovviamente, significa semplicemente dire che se potessimo cambiare posto e assumere il punto di vista di un elettrone – non come avremmo accesso al mondo se fossimo quell’elettrone, ma come quell’elettrone stesso accede al mondo – allora proveremmo qualcosa. Si tratterebbe sicuramente di una sensazione incredibilmente semplice, debole, piuttosto confusa e diffusa: ma non nulla; la coscienza non svanisce mai completamente, ma si presenta in gradi. Così essere panpsichisti significa, in un certo senso, semplicemente accettare l’ovvio: quando spieghiamo le proprietà fondamentali del cosmo, oltre a menzionare carica, spin, magnetismo, dobbiamo includere anche la psiche. Al livello fondamentale della materia, qualunque esso sia – quark, campi, o qualche entità che verrà scoperta dalla fisica futura – a quel livello esistere significa anche essere coscienti, dove ovviamente per coscienza si intende coscienza fenomenica, ossia la sensibilità, non capacità di ragionamento. Forse, chi lo sa, anche i sistemi auto-organizzati più grandi sono coscienti, in un senso radicalmente differente rispetto al modo in cui gli esseri umani sono coscienti, ma ci sarebbe comunque qualcosa che provano: quei sistemi più complessi potrebbero essere per esempio rocce, stelle, alveari, forse il cosmo nella sua interezza.
Se pensate che questa idea sia profondamente antiscientifica, vi sbagliate di grosso. Ma come si può difendere formalmente l’idea che tutti gli esseri viventi, dai funghi ai gufi, dagli elettroni all’universo intero siano coscienti? Per esempio, si potrebbe sostenere che, data la chiusura causale materialista della fisica, e il problema mente-corpo, il panpsichismo è l’unica sintesi che potrebbe seguire: è un discorso che ho già accennato all’inizio. Le scienze fisiche ci dicono che la materia è tutto ciò che c’è. Inoltre, ci informano anche che il fisico è chiuso causalmente (cioè, tutto ciò che accade può essere spiegato usando solo concetti provenienti dalle scienze fisiche). D’altra parte, noi sperimentiamo direttamente e innegabilmente l’esistenza di una volontà, di una mente, di una soggettività dentro di noi… allora l’unica conclusione è che la mente deve essere un fenomeno materiale. In altre parole, il materiale e il mentale sono due aspetti dello stesso tipo di entità, e quindi la mentalità è ineliminabile dal fisico. Alcuni tra i filosofi e gli scienziati più importanti del ‘900 arrivarono a questa stessa conclusione: tra di loro ci sono ad esempio Alfred North Whitehead e Bertrand Russell, autori della monumentale opera Principia Mathematica, e Sir Arthur Eddington, l’astronomo che per primo confermò la verità della teoria della relatività einsteiniana. Questi pensatori non usavano il termine panpsichismo per identificare questa teoria – termine che al tempo si portava dietro dei pregiudizi negativi – bensì la chiamavano monismo neutrale: “monismo” perché esiste una sola sostanza al mondo, “neutrale” perché né esclusivamente mentale né esclusivamente fisica, ma entrambe. Nomi diversi, stessa teoria.
Uno dei progetti di panpsichismo meno conosciuti oggigiorno, è stato sviluppato da Konstantin Tsiolkovsky, filosofo e scienziato russo, cosmista, noto per i suoi contributi scientifici a quello che oggi potrebbe essere descritto come il campo dell’astronautica e della tecnologia aerospaziale. È stato il pioniere della meccanica dei viaggi interplanetari, dell’astrobiologia, della chimica e della geofisica. Dal punto di vista filosofico, Tsiolkovsky potrebbe essere caratterizzato come un monista: per lui tutti i componenti dell’universo, anche i più lontani, hanno la stessa natura e sono soggetti alle stesse leggi naturali. Scrive infatti:
Non sono solo un materialista, ma anche un panpsichista che riconosce la sensibilità dell’intero universo. Considero questa proprietà inalienabile dalla materia. Tutto è vivo, ma convenzionalmente consideriamo vivo solo ciò che dimostra un potere di sentimento sufficientemente intenso. Poiché tutta la materia, in condizioni favorevoli, può sempre entrare in uno stato organico, in teoria possiamo dire che la materia inorganica è potenzialmente viva.
Da panpsichista, Tsiolkovsky considerava le persone e il cosmo come formati dagli stessi costituenti di base: gli atomi. Ogni atomo ha, almeno potenzialmente, una sensibilità e una propria esistenza individuale che non può mai finire. L’argomento che Tsiolkovsky presenta a favore del panpsichismo è tratto un appello a quello che oggi chiameremo il principio di continuità della natura:
Tutto è continuo; tutto è uno. La materia è una cosa sola, così come la sua reattività e la sua sensibilità… Se un evento meccanico come la reattività non cessa, perché la sensibilità – un fenomeno erroneamente identificato come mentale, cioè che non ha nulla in comune con la materia – dovrebbe cessare?
L’interrogativo di Tsiolkovsky è sconvolgente. L’argomento che presenta è il classico argomento di leibniziana memoria, ma con un originale tocco tecnologico e teleologico. Secondo la teoria di Tsiolkovsky, la materia decaduta si rinnova ogni volta in nuove configurazioni di atomi, riproducendo la vita in modo sempre più perfetto. La morte è quindi un fenomeno illusorio. Nelle forme inferiori dell’esistenza la sensibilità è quasi latente, mentre in quelle più evolute diventa spirito manifesto e continua a svilupparsi all’infinito fino a espandersi oltre i confini materiali in forme di pura energia. L’universo per Tsiolkovsky è quindi un universo con un obiettivo ultimo, razionale e gerarchicamente organizzato, corrispondente ai diversi stadi di evoluzione raggiunti, a partire dagli stessi atomi comuni a tutto l’universo, dai diversi esseri che lo abitano. Potrebbero quindi esserci nell’universo esseri felici che hanno già raggiunto uno stadio di sviluppo molto avanzato, semi-divino, infinitamente più intelligenti dell’umanità e potenzialmente in grado di condizionare la loro vita in modi a noi completamente sconosciuti.
Il panpsichismo, va specificato, si presenta il più delle volte sotto forma di micropsichismo, la tesi per la quale la psiche si trova al livello fondamentale della fisica (in questo senso, i quark o gli elettroni o qualsiasi altra particella o campo futuro possa essere considerato fondamentale è portatore di coscienza). Questo perché, nel modo di pensare contemporaneo, noi consideriamo la fisica la scienza che ci informa sui fondamenti della realtà. E la fisica ci dice che la realtà è fatta di particelle – dunque è nel micro che si trova il livello fondamentale della coscienza. Questa tendenza a guardare alla fisica per una superiorità ontologica, però, può apparire sospetta a molti filosofi, che preferirebbero forse la biologia – o una futura scienza ancora inesistente che mescoli biologia e fisica – come scienza fondamentale. Affronteremo questo argomento più tardi. Per ora, attenendoci al progetto di Tsiolkovsky, è possibile costruire un dialogo fruttuoso tra il panpsichismo all’interno del cosmismo russo e il panpsichismo contemporaneo.
Se il micropsichismo, in un certo senso, è pienamente compatibile con ciò che la fisica ci dice sulla realtà, esso ignora un aspetto fondamentale dell’universo in cui viviamo, l’aspetto cosmista per eccellenza: il tempo evolutivo (e aggiungerei, storico). Il cosmo non è un oggetto immobile, non è sempre stato come è ora. Quando si applica il modello micropsichista a tutta l’evoluzione dell’universo, si è costretti ad arrivare a un punto in cui c’era solo una singolarità, e l’universo, per così dire, era uno. La differenza ha bisogno di identità; analogamente, la molteplicità ha bisogno di singolarità. Il principio secondo il quale la natura si evolve gradualmente senza salti o rotture può essere applicato anche a livello cosmologico per affermare che il cosmo viene all’esistenza continuamente, come una sorta di progressione geometrica. Perché ci siano più cose differenziate, deve esserci una sola cosa semplice, indifferenziata, unica. La coscienza fenomenica di questo universo incredibilmente antico, incredibilmente semplice, è identica all’intero universo. Cioè, quando l’universo era uno, la sua mente era la mente di tutto (ciò che esisteva fino ad allora). I filosofi e le filosofe amano le tassonomie, dare nomi ad ogni piccola riflessione: questa teoria è nota come “monismo prioritario”, tesi più ampiamente sviluppata dal filosofo Jonathan Schaffer:
Presumo che ci sia un massimo oggetto concreto reale – il cosmo – di cui tutti gli oggetti concreti reali sono parti… Quando parlo del mondo – e difendo la tesi monistica secondo cui il tutto è antecedente alle sue parti – parlo del cosmo materiale e dei suoi pianeti, ciottoli, particelle e altre parti proprie.
Il monismo prioritario sostiene che esiste un solo oggetto fondamentale, cioè il cosmo. L’esatto opposto della tendenza al micro della fisica. Il filosofo inglese Sam Coleman – di cui trovate in esergo una simpatica citazione – ha chiamato smallism (“piccolismo”) la tendenza che abbiamo a pensare che i costituenti fondamentali della realtà devono essere piccoli. Un po’ come un puzzle: il disegno è composto da piccoli pezzettini; niente pezzi, niente puzzle. Così, la fisica ci dice: niente particelle, niente cosmo. Schaffer accetta la critica di Coleman e quindi ribalta il discorso: il livello fondamentale è il livello macro. Il puzzle non è fatto da piccoli pezzi, il puzzle è anzitutto un disegno, grande ed intero, che viene successivamente rotto in piccoli pezzettini per poterci giocare. Tuttavia, all’origine, c’è il disegno interno, non i suoi pezzi. Mutatis mutandis, applicando questa metafora a quello di cui stavamo parlando quindi, ciò significa che il cosmo è più fondamentale di altri oggetti concreti: è ontologicamente anteriore o ontologicamente più basilare di altri enti. Tutti gli oggetti concreti, tutto il resto che esiste, sono derivati dal cosmo.
Il monismo prioritario può sembrare inizialmente controintuitivo, perché in diversi casi si tende spesso a pensare che un insieme non sia ontologicamente anteriore alle sue parti: per esempio, i granelli di sabbia che costituiscono un cumulo sembrano essere anteriori al cumulo o le tessere di un mosaico sembrano essere anteriori al mosaico. Allo stesso tempo, però, come sottolinea Schaffer, ci sono molti altri esempi in cui pensiamo che un tutto sia, di fatto, antecedente alle sue parti. Un cerchio è anteriore ai due semicerchi che lo compongono, un corpo è anteriore agli organi al suo interno.
Questo perché noi distinguiamo tra “semplici aggregati” e vere e proprie unità – che Leibniz chiamava “monadi”: un mucchio di granelli di sabbia e un mosaico sono semplici aggregati di entità, mentre un cerchio, un corpo e il cosmo sono unità monadiche, presentano una certa integrità organica.
L’intuizione che il cosmo è un’entità monadica è supportata proprio da un ragionamento controfattuale: possiamo perfettamente immaginare un cosmo senza di noi, mentre è difficile immaginare noi senza il cosmo. Cioè, possiamo concepire l’universo esistente senza vaste parti di ciò che l’universo è oggi, ma non possiamo concepire nulla che esista senza l’universo. L’universo, o il cosmo, è ontologicamente più fondamentale di qualsiasi altra cosa che esiste. Quindi, se la coscienza esiste al livello fondamentale, e il livello ontico fondamentale è quello del tutto, è il cosmo nella sua interezza che è fondamentalmente cosciente; e noi siamo coscienti in quanto ne siamo parte.
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