In questo testo il celebre studioso esplora, con la sua caratteristica chiarezza e senso dell’umorismo, il principio alla base di tutte le grandi religioni dell’India e dell’Asia orientale, dal jainismo, all’induismo, al buddhismo e al taoismo: la trascendente Anima del mondo.
IN COPERTINA e nel testo: Shiva Pancha-vaktra, anonimo 1730/1730
Questo testo è un estratto da “Miti di luce” edito da Venexia, che ringraziamo per la concessione.
di Joseph Campbell
Oriente e Occidente
Alcuni anni or sono ebbi il privilegio di partecipare a una serie di incontri tenuti presso la Columbia University da Martin Buber, il teologo austriaco naturalizzato israeliano. Era il genere d’uomo che non passa inosservato: di bassa statura, con una testa imponente e una straordinaria eloquenza. Raramente avevo sentito qualcuno discorrere con altrettanta maestria e naturalezza di concetti tanto complessi, cosa ancor più sorprendente se si considera che l’inglese non era la sua lingua madre.
Con il procedere delle lezioni, tuttavia, e malgrado le doti espositive dell’illustre relatore, crebbe in me l’incertezza sul senso esatto da attribuire a una parola che compariva spesso sulle sue labbra. La parola in questione era nientemeno che “Dio” e inutilmente mi sforzavo di capire se Buber si riferisse alla fonte trascendente e misteriosa del nostro universo, o al Dio dell’Antico Testamento, colto in una o nell’altra fase del suo dispiegamento, o ancora a qualcuno con cui intratteneva un dialogo personale.
Una volta il filosofo si interruppe nel bel mezzo di una lezione e, con sguardo malinconico, disse: “Mi addolora parlare di Dio in terza persona”. Quando in seguito riferii l’episodio a Gershom Scholem, questi scosse la testa e commentò: “Martin ha la tendenza a esagerare”.
Giunto al terzo incontro, trovai il coraggio di alzare la mano. Buber mi interpellò con estrema cortesia: “Dica pure, signor Campbell”. “Sì, bè…”, esordii. “C’è una parola che le ho sentito ripetere spes
so e che non capisco, non so a cosa si riferisca.”
“Qual è la parola?”
“Dio.”
Buber sgranò gli occhi e con sincero stupore mi chiese: “Non sa
cosa significa Dio?”.
“Non so cosa lei intenda con la parola Dio”, risposi. “Diceva
poco fa che Dio ha nascosto il suo volto. Io sono appena tornato dall’India e lì le persone vedono e sentono Dio ininterrottamente.”9 “Se ho ben capito, mi sta chiedendo di fare un confronto…”
Sfortunatamente il nostro scambio di opinioni non si accordava con lo spirito ecumenico dell’incontro e il moderatore intervenne bruscamente dicendo: “No, il signor Campbell vuole semplicemente sapere che cosa è per lei Dio”.
Buber ricadde sullo schienale della sedia e con la più grande noncuranza, come se si trattasse di una questione da niente, disse: “Ognuno deve uscire dal proprio esilio da solo”.
A colpirmi di questa affermazione, senza dubbio legittima e sensata dal punto di vista di Buber, fu il suo contrasto con la sapienza e la mitologia orientali secondo le quali non siamo in esilio perché Dio è dentro di noi. Possiamo non avvedercene, possiamo vivere senza aprire la nostra coscienza al divino che è in noi, ma non potremo mai esserne esiliati.
Si tratta di un discrimine fondamentale tra la tradizione orientale e quella occidentale. Se volessimo individuare queste due aree culturali e religiose su una mappa geografica, la linea di confine che le separa passerebbe attraverso quella che un tempo fu la Persia, 60° a est di Greenwich. A est della linea troviamo due fiorenti e prestigiosi centri culturali: uno è l’India, l’altro è l’Estremo Oriente, composto da Cina, Giappone e Sud-est asiatico. Mi riferisco a civiltà evolute, dedite alla scrittura, all’architettura monumentale e via dicendo. Anche a ovest della linea si annoverano due centri di cultura: il Medio Oriente, o Levante, di cui fa parte anche l’Egitto, e l’Europa.
Se si osserva il versante orientale, si noterà che le due regioni culturali sono distanti tra loro e isolate dal resto del mondo. L’India è chiusa a nord dall’Himalaya e circondata per il resto da vasti oceani. La Cina, a sua volta, confina a ovest con grandi distese desertiche e con gli oceani Indiano e Pacifico sugli altri lati. Ne consegue che gli influssi culturali esterni hanno stentato a raggiungere queste civiltà e, quando lo hanno fatto, più che conquistarle sono stati gradualmente assimilati dalla cultura preesistente.
Al contrario, l’Europa e il Medio Oriente vantano una lunga storia di contatti e scambi culturali. Le vie di comunicazione che attraversano le due aree, il Mediterraneo e il Mar Nero che ne lambiscono le coste, il Danubio e gli altri fiumi navigabili hanno reso da sempre aperti i confini del mondo occidentale.
Storicamente, le principali invasioni subite dalle roccaforti della cultura in Occidente sono state quella dei cosiddetti barbari, popolazioni nomadiche e bellicose provenienti dall’Europa settentrionale che misero a ferro e fuoco i territori dell’Impero romano, e quella delle tribù semitiche, non meno combattive, provenienti dal deserto arabosiriano e sciamate nelle fertili pianure dei bacini fluviali del Levante.
Le incursioni di questi popoli agirono reiteratamente sui modelli culturali preesistenti provocando un’alternanza di disintegrazioni e reintegrazioni, ossia un progresso. Quella dell’Occidente è una storia di cambiamenti drastici e ininterrotti. L’incontro tra popoli diversi ha generato influenze reciproche e scambi proficui così come conflitti e rotture insanabili.
Quando dal complesso mondo occidentale, con la sua densa storia filosofica e religiosa, ci si volge a quello orientale, si ha l’impressione di entrare in un regno dove la vegetazione, se mi è concesso dirlo, è fatta di sole palme. Alberi di palma diversi, ma tutti essenzialmente riconducibili a una stessa famiglia. La cultura orientale è innervata da pochi concetti fondamentali che si ritrovano un po’ ovunque e che vantano un’origine antichissima.
Di quale antichità stiamo parlando? La tradizione culturale indiana ebbe inizio intorno al 2500 a.C. con la civiltà della valle dell’Indo. Quella dell’Estremo Oriente vide la luce in Cina con la dinastia Shang, attorno al 1600 a.C.10 Siamo in entrambi i casi in piena Età del Bronzo.
Ciò detto, la vera culla della civiltà fu il Medio Oriente con i suoi grandi regni di Egitto e Mesopotamia dove, a partire dall’8000 a.C., si diffusero l’agricoltura e la pastorizia. Prima di allora, per quanto ne sappiamo, gli uomini in ogni angolo del mondo vivevano esclusivamente di caccia e raccolta. Ed ecco all’improvviso instaurarsi un’economia propriamente detta e un insieme di società sempre più articolate e complesse. Intorno al 4000 a.C. le valli del Tigri e dell’Eufrate erano costellate di città piuttosto grandi e popolose, tra cui Sumer, Ur e Akkad, dove vigeva un’ordinata distribuzione del lavoro: c’erano uomini di governo, sacerdoti, mercanti, agricoltori, tutti con ruoli e compiti ben definiti. La specializzazione dei mestieri produsse un avanzamento incredibilmente veloce del sapere, delle tecniche e delle competenze.
Tra le tante conoscenze fiorite in Egitto e Mesopotamia, quelle che più ci interessano riguardano gli ordini sacerdotali. Fu in quest’epoca, per l’esattezza attorno al 3500 a.C., che nacquero l’arte della scrittura, il calcolo matematico, l’osservazione astronomica e il sistema tributario. Anche l’idea di un potere accentrato nelle mani di un unico sovrano, quale elemento unificatore all’interno di una società composita e differenziata, fece la sua prima comparsa in questi anni.
Una delle più folgoranti intuizioni dei sacerdoti dell’epoca fu che i pianeti, le sette sfere visibili che tutti noi conosciamo, si muovessero nel cielo a una velocità matematicamente calcolabile, sullo sfondo delle stelle fisse. Quest’idea ispirò una concezione totalmente nuova dell’universo, che diventava ora un cosmo ordinato da leggi regolari e misurabili.
Al dio antropomorfo che aveva fino allora retto le sorti dell’universo, si sostituì una potenza invisibile che scandiva con matematica precisione l’alternarsi del giorno e della notte, i cicli lunari, le stagioni dell’anno e il lungo tempo dell’eone, che segnava la rotazione completa del cosmo. Questa l’idea che ispirò i miti sorti nell’Età del Bronzo e che è ancora oggi al cuore delle filosofie orientali.
Il concetto cinese del Tao si riferisce a un ordine cosmico di carattere impersonale, dove la luce e le tenebre alternano la loro intensità, la loro forza e i loro influssi in un ciclo cosmico continuo e regolare. Anche il dharma indiano, il concetto di maat dell’antico Egitto e i me della mitologia sumerica incarnano lo stesso principio di ciclicità cosmica. Sono tutte figure che rinviano a un ordine universale e impersonale al cui interno le divinità agiscono, per così dire, da burocrati.
Più che organismi di controllo, gli dèi sono amministratori incaricati di gestire un processo anonimo. Hanno diversi ambiti di competenza e agiscono in rappresentanza delle forze naturali che operano nel mondo e nell’universo così come dentro di noi. Ciò significa che le divinità sono al tempo stesso esterne e interne alla natura umana.
È questo il nobile principio che ispira il modello di società ieratica: la vita collettiva si organizza in modo tale da rendere visibili i principi archetipici attraverso le arti, l’architettura e la filosofia. In questo modo, la società stessa diviene una specie di icona, una traduzione simbolica delle leggi cosmiche. I sistemi mitologici dispiegano un vasto immaginario poetico che, come sempre accade in poesia, risale il corso del tempo e affonda le sue radici in un’antichità misteriosa e ineffabile. Siffatte tradizioni svolgono quattro funzioni fondamentali.
La prima consiste nell’introdurre nella vita della comunità una dimensione misteriosa e imperscrutabile che resiste a ogni tentativo di analisi o di argomentazione e che si presta unicamente ad essere sperimentata sia fuori che dentro di noi.
La seconda funzione è quella di offrire un’immagine dell’universo capace di collegare la sfera trascendente con quella dell’esperienza quotidiana. La raffigurazione cosmica deve essere tale da riflettere il mistero, cosicché le stelle e tutti gli animali, gli alberi e le montagne appaiano come diverse espressioni di una stessa dimensione insondabile.
La terza funzione è quella di stabilire un ordine sociale ispirato ai misteri del cosmo. Il re, pertanto, siederà al centro del sistema, come principio ordinatore della città-stato. Da lui si irradia la luce: la sua corona simboleggia i raggi del sole (o della luna). La corte gli ruota attorno come una solenne girandola di pianeti, personificazione dei vari corpi celesti. È un simbolismo ancora presente negli odierni cerimoniali di corte.
La quarta e ultima funzione della mitologia è quella di indirizzare il singolo individuo nel corso della sua vita, conducendolo dalla dipendenza dell’infanzia alla responsabilità dell’età adulta, fino alla vecchiaia e al transito nell’Aldilà.
In tal modo, il macrocosmo dell’universo, il microcosmo individuale e quello che a volte chiamo il “mediocosmo” sociale risultano tutti integrati in una grande unità, protesa verso una dimensione misteriosa. È questo il principio su cui si fonda la bellezza dell’Oriente e che dona fascino alle sue città così come alle sue filosofie e alle sue opere liriche e artistiche. Viaggiando in quelle terre lontane è facile restare turbati dalla miseria della gente e dal degrado ambientale, eppure questo principio ordinatore rischiara segretamente ogni vita umana, fosse anche la più indigente, ammantandola con la luce del mito. Stupisce vedere come le persone accettino docilmente lo stato delle cose, per la gioia della casta sacerdotale e la disperazione degli operatori sociali; si ha l’impressione che la gente si inchini di buon grado al cosiddetto volere divino, ottenendo in cambio un fulgore che ne illumina l’esistenza.
Al fondo di tutte le filosofie orientali vi è il l’idea che la verità assoluta, quella che tutti noi inseguiamo, sfugga a ogni definizione. Non c’è forma di pensiero o slancio di immaginazione che possa afferrarla. Interrogarsi sulla bontà, la misericordia e la giustizia di Dio, invocare il suo amore e dividere gli uomini tra eletti e dannati significa, dal punto di vista orientale, trastullarsi con questioni puerili e tradurre in illusorie forme antropomorfiche un mistero che trascende ogni categoria, comprese quelle dell’essere e del non essere. I costrutti logici, i modi di appercezione del tempo e dello spazio non sono che funzioni della mente umana; il mistero cui mirano riposa altrove. La convinzione è totale: l’assoluto trascende ogni facoltà intellettiva.
Se in Occidente il termine “trascendente” significa al di fuori dal mondo, in Oriente è inteso come al di fuori del pensiero. Dal punto di vista orientale, quindi, discreditare una certa definizione di Dio perché lontana dal mistero equivale ad abbandonarsi all’idolatria. Ciascuno ha il dio che si merita, giacché l’idea che abbiamo di Dio non è che un riflesso della nostra capacità di concepire il divino. E poiché gli individui dispongono di facoltà diverse, la concezione di Dio varia da uomo a uomo.
Il cristianesimo, l’induismo e il buddhismo condividono il precetto teologico secondo cui solo Dio può conoscere se stesso. È il concetto che troviamo alla base della Trinità: per conoscere il Padre occorre essere a propria volta Dio. È il caso del Cristo che, in quanto Dio, ha accesso alla conoscenza del Padre per tramite dello Spirito Santo. Per giungere al Padre, quindi, i cristiani anelano alla perfetta conoscenza del Figlio.
La teologia orientale, pur condividendo questo principio di base, intende la conoscenza in termini diversi: ciò che oltrepassa ogni sapere è l’essenza del nostro essere; la trascendenza è immanente in ciascuno di noi. Troviamo questo precetto già nell’VIII secolo a.C., nel Chāndogya Upaniṣad, sotto la forma Tat tvam asi, “tu sei ciò”, ossia tu sei la verità ultima che desideri conoscere. È importante non confondere questo “tu” con il pronome personale che ci identifica, con quella forma fenomenica calata nel tempo e nello spazio che ci rappresenta e che può essere nominata, individuata e descritta. Non di questo si tratta. Non c’è attributo del “tu” che possa condurre alla verità. Al contrario, solo eliminando tutto ciò che può essere nominato si potrà accedere alla vera conoscenza. È la singolare equazione posta dalla teologia orientale: se a è il “tu” e x è il mistero, allora a = x. Il mistero sei tu, salvo che non si tratti del “tu” che credi di essere. La verità non è ciò che pensi di essere, ma il “tu” che trascende ogni tuo pensiero. In questo paradosso risiede tutto il mistero dell’Oriente.
Diversa è l’impostazione delle tradizioni fiorite in Medio Oriente: per il giudaismo, il cristianesimo e l’islamismo, Dio ha creato il mondo, e poiché il Creatore non coincide con il creato, ogni tentativo di eguagliarsi al divino è considerato empio. Non per caso Cristo pagò con la morte in croce la sua dichiarazione: “Il Padre e io siamo una cosa sola”, e la stessa sorte toccò novecento anni più tardi al grande mistico sufi al-Hallaj, accusato di blasfemia. La verità è che al-Hallaj aveva compreso il più profondo dei segreti. Diceva infatti che il mistico aspira all’unione con il divino e perciò lo paragonava a una falena che, nell’oscurità della notte, vede brillare una lampada e, ansiosa di congiungersi con la fiamma che arde al suo interno, le vola incontro e non si stanca di sbattere le ali contro il vetro. Il mattino successivo torna dalle sue compagne e dice: “Se sapeste che cosa mi è successo stanotte, che cosa meravigliosa ho visto!”. Al calare del sole la falena si dirige nuovamente verso la lampada e stavolta trova uno spiraglio per entrare e diviene un tutt’uno con la fiamma. Lo stesso accade al mistico. Ad aprirgli lo spiraglio che gli dà accesso al divino sono i conservatori ortodossi che lo condannano a morte. Cristo espresse lo stesso concetto quando, morente sulla croce, disse: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Quanto a noi, condannati all’esilio, non ci è dato immolarci sulla pira sacrificale, come molti mistici hanno fatto, per unirci al misterioso e trascendente elemento x. La nostra religione ci consente al massimo di entrare in rapporto con la x. Detto altrimenti, per il giudaismo, il cristianesimo e l’islamismo è possibile rapportarsi ma non congiungersi con Dio. Alla domanda su come fare a stabilire un legame con il divino, ognuna delle tre religioni monoteiste risponde a modo suo.
Per il giudaismo, Dio ha stabilito un’alleanza esclusiva col popolo d’Israele. Per diventare membri della “nazione eletta” occorre essere nati da madre ebrea e onorare nel corso della vita l’alleanza stretta con la divinità.
Nel cristianesimo, la relazione con il Creatore si stabilisce tramite Gesù Cristo, che è vero Dio e vero uomo. Il principio d’identità immanente delle filosofie orientali si proietta sul piano trascendente e diventa un miracolo religioso. Partecipando delle due nature, il Figlio è l’anello che congiunge il credente al Padre. Come si entra in contatto con il Cristo? Tramite il sacramento del battesimo. Come per il giudaismo, anche nel caso del cristianesimo il rapporto è stabilito da un’istituzione sociale.
Quanto all’Islam, l’uomo si rapporta ad Allah tramite la sua legge, ossia il Corano, e tramite il suo profeta Maometto. Il musulmano, quindi, prega rivolto verso la Mecca non perché vi riconosca la presenza di Dio, ma perché è lì che Maometto ricevette la parola rivelata. Se si pensa che lo stesso termine “Islam” significa “sottomissione”, appare chiaro come nella più giovane delle religioni levantine la perfezione spirituale si ottenga tramite il completo abbandono al potere divino, sottomettendosi ad Allah e alla sua legge.
In conclusione, nelle tradizioni occidentali i fedeli sono vincolati a delle istituzioni sociali, siano esse il popolo eletto, la santa madre chiesa o la legge coranica. Le pretese che tali istituzioni hanno accampato nel corso dei secoli sono state messe in discussione in epoca moderna da certi fatti che avremmo preferito non dover riscontrare. Come risultato, il mondo odierno è corroso dal dubbio e minacciato da un’instabilità che attraversa tutto l’Occidente, rimasto privo dei suoi punti di riferimento.
La recente diffusione di influenze orientali ha segnato una svolta importante nella nostra società accecata, favorendo un recupero del nostro antico retaggio culturale. È un fenomeno ravvisabile già negli scritti degli studiosi europei e dei trascendentalisti americani del XIX secolo, che riconobbero nel pensiero buddhista e induista elementi riconducibili all’Occidente precristiano, e in particolare alle tradizioni greca e romana e alle mitologie dei Celti e dei Germani, tutte incentrate sull’idea del bosco sacro, della natura che è insieme dentro e fuori di noi. La mitologia degli antichi non era un resoconto di avvenimenti pseudostorici ambientati in terre ignote, bensì una rivelazione poetica dell’eterno mistero che dimora in noi.
L’io e il tu
Vorrei ora prendere in considerazione un mito originario dell’Età del Bronzo e giunto fino a noi in tre versioni, ciascuna tramandata da una diversa tradizione. La prima versione risale alla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, databile attorno al IX secolo a.C.
Al principio… Ovviamente non c’è alcun principio, giacché ogni idea di inizio si colloca all’interno di uno schema temporale e la mitologia non va mai presa alla lettera, come erroneamente fa la tradizione giudaico-cristiana. Leggete un mito come se fosse il resoconto di un cronista, e non ne trarrete nulla; leggetelo come fosse una poesia, e ne sarete illuminati.
Ma torniamo a noi. In principio, che poi principio non era, non esisteva altro che il Sé. E il Sé a un certo punto – un punto che dobbiamo immaginare fuori dal tempo – disse: “Io. Ahaṃ. Ego”. Non appena ebbe pronunciato la parola “io”, il Sé ebbe paura. Quindi si fermò a ragionare, e se il suo non fu un ragionamento molto articolato, va anche detto che fu il primo ad essere mai tentato: “Se al mondo non c’è nessuno oltre a me”, si disse, “che cosa ho da temere?”. A questo pensiero, la paura svanì.
Come c’era da attendersi, non fece in tempo a vincere la paura che fu assalito dal desiderio: “Quanto vorrei che ci fosse qualcun altro”. E poiché nel suo stato d’essere un desiderio equivaleva a un atto, il Sé si gonfiò e, da uno che era, si scisse in due, così che le due parti potessero unirsi per produrre qualcosa. Allora lei, la metà femminile, disse: “Come posso unirmi a lui se sono fatta della sua stessa sostanza?”. E ciò detto si trasformò in mucca e lui in toro; lei in asina e lui in mulo; lei in giumenta e lui in stallone e così via, passando per tutte le specie animali fino ad arrivare alle formiche. Infine, il Sé che in origine aveva pronunciato la parola “io” si guardò intorno e disse: “Questo mondo sono io, perché è da me che si è generato”. Ecco come Ahaṃ diede origine all’universo. Fine della prima storia.
Pressappoco allo stesso periodo risale il secondo capitolo della Genesi, dove troviamo un giovanotto incaricato da Dio di curare il suo giardino. Un lavoro faticoso, non c’è che dire, e lui è tutto solo. Per rimediare, Dio crea una grande varietà di animali e li lascia andare liberi per l’Eden, ma una volta assegnato loro un nome, al giovane non resta molto da fare. Dio allora ha un’altra idea: fa precipitare il poveruomo in un sonno profondo ed estrae dal suo corpo quella che Joyce ha definito la “consorte costoletta”. Quando la vede, Adamo alza gli occhi al cielo ed esclama: “Finalmente!”.
A ben guardare, la storia biblica ricalca quella del Sé diviso a metà, con la differenza che in questo caso a scindersi in due non è la divinità, bensì la sua creatura. Dio rimane estraneo all’evento e le calamità della storia saranno d’ora innanzi tutte a carico dell’umanità, mentre Lui osserva da lontano.
Una delle cose che più mi ha colpito viaggiando per l’Oriente è stato incontrare persone che non avevano mai sentito parlare di “caduta”. La vita lì non è oppressa da una colpa atavica e non c’è un creatore che dall’alto rimprovera gli uomini perché non si comportano come dovrebbero. La coscienza, evidentemente, ne risulta alleggerita. Non per niente ho consigliato a più di un amico di risparmiare i soldi dell’analista e di fare un viaggio in Giappone.
E veniamo ora alla terza versione della storia. Il Simposio di Platone descrive un sontuoso banchetto, il più importante che si sia mai celebrato. I più illustri filosofi greci si riuniscono intorno a un tavolo per parlare di amore, e Aristotele narra un mito.
Si dice che in origine gli esseri umani avessero quattro gambe e due teste. La figura umana così raddoppiata poteva presentare tre combinazioni: gli abitanti del Sole erano maschio-maschio, quelli della Terra erano femmina-femmina e quelli della Luna maschiofemmina. Poiché gli dèi li temevano, Zeus pensò di risolvere il problema tagliandoli a metà. Intervenne poi Apollo, che ruotò le due parti ponendole una di fronte all’altra. Come è facile intuire, non appena si trovarono faccia a faccia, i membri di ogni coppia si strinsero in un abbraccio appassionato, rifiutando di muoversi. Gli dèi compresero che una simile condizione non avrebbe prodotto nulla di buono e decisero di separare gli amanti, mescolando le coppie e disperdendole in ogni dove. Naturalmente ciò non bastò a placare il loro ardore, giacché uomini e donne non desideravano altro che ricongiungersi e, nel loro sforzo di ritrovare la metà perduta, eressero città e fondarono le basi di intere civiltà. Difficile non pensare alla teoria freudiana, che riconduce la civilizzazione alla sublimazione di un desiderio sessuale frustrato.
Anche in questo mito gli dèi appaiono separati dagli uomini, benché non in veste di creatori. Nel mondo greco, più che un demiurgo, il dio appare come un nostro fratello maggiore col quale conviene rigare dritto se non si vogliono passare guai, senza che ciò comporti tuttavia una completa subalternità al suo volere. Si tratta di un modello assai diverso da quello biblico dove Dio, avendo creato l’uomo, lo considera un suo servitore, sottoposto in tutto alla sua volontà.
Mi sembra che queste tre versioni dell’antico mito mettano bene in luce le caratteristiche intrinseche delle civiltà che le hanno prodotte.
Quando si ha a che fare con due piani separati, uno trascendente e l’altro immanente, si è sempre tenuti a scegliere tra la lealtà a Dio e quella all’uomo. Nelle tradizioni levantine si impone la fedeltà assoluta a Dio, come emerge chiaramente dall’episodio biblico di Abramo, chiamato da Dio a sacrificare suo figlio Isacco, o ancor più dal Libro di Giobbe. Qui si narra che Dio, vantandosi con Satana, il suo eterno avversario, disse: “Che ti sembra del mio Giobbe? Hai mai visto un servo tanto fedele? Conosci qualcuno che mi onori quanto lui?”.
Al che Satana rispose: “Certo, e perché mai non dovrebbe? Tu sei sempre stato buono con lui. Mettilo alla prova e vedrai cosa succederà”.
“Accetto la sfida”, ribatté Dio. “Vessalo pure come credi, e staremo a vedere.” Un po’ come scommettere che si può tormentare a piacimento il proprio cane senza rischiare di essere morsi.
Sappiamo tutti come va a finire la storia: il poveruomo perde in un colpo solo la sua famiglia, la sua casa e il suo bestiame. Gli amici lo trovano seduto su un mucchio di cenere, coperto di piaghe, e per tutto conforto gli dicono: “Devi esserti macchiato di una colpa ben grave per meritare tutto questo”. La verità, come sappiamo, è che a valergli tante disgrazie era stata la sua rettitudine, e tale paradosso non cessa di generare perplessità fra i teologi.
Giobbe tiene duro e replica: “Non ho mai peccato, ho sempre agito secondo coscienza”.
Quando Dio finalmente appare al suo servo fedele, dopo avergli fatto passare le pene dell’inferno, non accenna alla scommessa fatta con Satana, né si sogna di giustificare le sventure cui lo ha condannato ma, apostrofandolo severamente, dice: “Ti credi tanto grande? Sapresti pescare il Leviatano con l’amo? Provaci. Io l’ho fatto. Non sei che un piccolo verme e inutilmente cerchi di comprendere il senso di ciò che ti è accaduto”.
A queste parole, Giobbe dichiara: “Ho vergogna di me”. Rinuncia alla sua facoltà di giudizio, rinnega il suo valore umano e, cospargendosi il capo di cenere, si sottomette al volere divino.
Nessun greco si sarebbe mai comportato così. Ogni volta che una divinità dell’Olimpo veniva colta in fallo, diminuiva il rispetto a essa dovuto. Certo, si stava attenti a non offenderla, ma solo per quieto vivere. Era un po’ come accade oggi con i politici che, se pure indegni di rispetto, vengono trattati con una certa deferenza per evitare problemi con la giustizia.
Grossomodo nella stessa epoca in cui venne composto il Libro di Giobbe, Eschilo scrisse il Prometeo incatenato; si tratta di due testi pressoché coevi. L’ideale rappresentato dal titano della tragedia classica si oppone radicalmente a quello dello sventurato personaggio biblico. Prometeo, sfidando gli dèi, fa dono del fuoco agli uomini. Per vendicarsi dell’affronto subito, Zeus, un omone grande e grosso che avrebbe ben saputo arpionare il Leviatano, incatena il titano a una roccia lasciandolo in balìa degli avvoltoi che ogni giorno scendono a rodergli il fegato. Quando una piccola delegazione va a comunicargli che Zeus è disposto a liberarlo a condizione che si penta e faccia ammenda, Prometeo risponde: “Dite a Zeus che lo disprezzo, e che faccia pure di me quel che vuole”.
Certo, Prometeo aveva dalla sua il fatto di essere un semidio, per giunta dotato del dono della preveggenza, ma ciò non toglie che la sua fu un’aperta ribellione contro l’autorità suprema, a sostegno dei valori umani.
Si pensi alla nostra condizione attuale: dal lunedì al venerdì vestiamo i panni di Prometeo, poi con il riposo dello shabbat o la messa della domenica assumiamo l’eredità di Giobbe, e cominciamo la settimana successiva distesi sul divano di un’analista per capire che cosa c’è che non va nella nostra testa. La risposta è che viviamo oscillando tra due tradizioni radicalmente opposte e inconciliabili, checché ne dicano gli accademici e gli ecclesiastici. Tra l’una e l’altra corre la stessa differenza che c’è tutt’ora fra Europa e Medio Oriente.
La cultura europea è nata dall’incontro fra le tradizioni greca, romana, celtica e germanica, influenze antiche tornate in auge nel Medioevo, ad esempio con il ciclo arturiano, e successivamente nel Rinascimento. Le tradizioni di Levante, invece, discendono dal Vecchio e Nuovo Testamento e dal Corano, e si fondano sui concetti di autorità e sottomissione insiti nel termine “Islam”. A loro volta, queste due correnti si differenziano nettamente dalla tradizione orientale.
Il mito delle luci
Come già precisato, l’inizio dell’Età del Bronzo nel subcontinente indiano è attestato attorno al 2500 a.C., epoca in cui sorsero improvvisamente nella valle del fiume Indo due città, Mohenjo-daro e Harappa, pressoché coeve alla civiltà minoica che in quegli stessi anni stava fiorendo in Occidente, nell’isola di Creta. Le due civiltà, oltre a essere sorte contemporaneamente, condividevano una simbologia per molti versi simile. Benché la scrittura della civiltà dell’Indo non sia stata ancora decifrata, disponiamo di numerosi simboli stampati sui sigilli ritrovati negli scavi archeologici.
Spicca fra tutte la figura del toro, animale presente nelle mitologie di tutto il mondo. Le sue corna sono tradizionalmente equiparate alla luna, l’astro che muore e risorge. Poiché sembra portare inscritta in sé la propria scomparsa, la luna rappresenta la forza della vita che vince la morte. Come la luna è il corpo celeste che rinnova il proprio sacrificio, così il toro, con il suo simbolismo lunare, è l’animale sacrificale per antonomasia.
Anche il serpente, che muta pelle a intervalli regolari, è tradizionalmente associato all’idea di morte e rinascita e rappresenta quindi, insieme al toro, un simbolo della luna. Il suo movimento sinuoso ricorda quello di un corso d’acqua, la sua vita si svolge a contatto con la terra e la sua lingua rossa e biforcuta è paragonata a una fiamma, e più precisamente al fuoco che scorre nell’acqua e fertilizza il suolo rendendolo fecondo.
Il sole, con i suoi raggi ardenti e imperituri, è l’opposto simbolico della luna. Unica fonte di luce, ustiona la vita che vi entra in contatto diretto: i suoi raggi infuocati accecano gli occhi e incendiano la vegetazione. L’interazione fra la luce pura del sole e la luce riflessa della luna è un tema ricorrente nelle mitologie antiche.
Come il toro rappresenta la luna, così il leone, con la sua criniera fiammante, simboleggia il sole, e come il sole balza sulla luna che scompare inghiottita dalla luce del giorno, così il leone balza sul toro, e l’aquila e il falco si avventano sul serpente.
Questi abbinamenti simbolici, diffusi pressoché in tutte le mitologie, stanno a rappresentare due diversi modelli di immortalità. In un caso, si tratta dell’immortalità di chi muore e torna in vita. È il mondo degli antichi padri, e infatti in molte culture si crede che gli antenati vivano sulla luna. La seconda immortalità è quella di chi ha varcato la soglia dorata del sole per non fare mai più ritorno. Il suo corpo ridotto in cenere è rimasto in questo mondo mentre la sua anima si è inoltrata nella luce che splende al di là del disco solare.
Da questi due miti discendono due distinte concezioni della reincarnazione: nel primo caso, i corpi delle creature scompaiono e riappaiono in una serie di vestizioni e svestizioni fisiche, proprio come la luna perde e riacquista ciclicamente il suo corpo di luce; nel secondo caso, vige il principio della luce sempiterna, incarnata e immanente in ogni cosa.
Ebbene, i seguaci delle religioni orientali sono chiamati ad assumere la loro identità con la luce solare.
Una volta, mentre tenevo una conferenza in un’aula affollata di giovani studenti, arrovellandomi in cerca di una metafora che rendesse al meglio questa idea alzai lo sguardo al soffitto ed ebbi un’intuizione. Invitai l’uditorio a guardare i lampadari che illuminavano la sala. Per intendere la concezione lunare, in quanto insieme di entità molteplici, potevano pensare la luce come la somma di tutte le lampadine accese; se viceversa si concentravano sull’effetto complessivo, considerando la luce che rischiarava l’ambiente come un’unica entità, avevano a che fare con il modello solare. La domanda, a questo punto, era: è meglio privilegiare la luce o le lampadine accese? Quando una lampadina si consuma, la svitiamo e la sostituiamo con un’altra: è il bulbo a essere importante o la luce? Dissi quindi agli studenti: “Ora vi guardo e vedo le vostre teste come tante lampadine, e in ciascuna brilla la coscienza. Cos’è che conta, la testa o la coscienza che le sta dentro?”.
Concentrare l’attenzione sul bulbo, sulla testa, sul fenomeno particolare significa dare priorità al singolo. In giapponese, l’universo individuale in cui regna il molteplice è detto ji-hōkai, mentre l’universo indiviso della luce assoluta è detto ri-hōkai: ritroviamo, espresso in altri termini, lo stesso binomio del mito. L’obiettivo delle religioni orientali è quello di produrre un cambiamento di prospettiva che sposti l’attenzione dal fenomenico al trascendente, cosicché il singolo non si identifichi più con il bulbo, con la testa, con il corpo, bensì con la coscienza, vale a dire con l’esistenza solare. È quella che Kant definisce la realtà noumenica, dove nessuno nasce e, di conseguenza, nessuno muore. Lo stadio successivo di questa esperienza consiste nel riconoscere l’identità tra la coscienza e l’individuo, in quanto facce distinte di uno stesso mistero. Tale condizione di unità è detta ji-ri-muge, che significa “individuale, universale, nessuna divisione”. Il passo finale della consapevolezza trascendente prende il nome di ji-ji-muge, “individuale, individuale, nessuna divisione”. Portiamo tutti a compimento uno stesso karma, percorrendo un cammino comune. Siamo la manifestazione di un’unica entità universale.
È la dottrina dell’Avataṃsaka o “ghirlanda di fiori”. Nel sūtra buddista così intitolato, l’universo è descritto come un reticolo di gemme, ciascuna delle quali riflette la luce di tutte le altre. Non conta tanto la singola gemma quanto la molteplicità dei riflessi che reca in sé. Lo stesso spostamento di accento contraddistingue tutte le mitologie incentrate sul binomio di sole e luna. Basta osservare i disegni alchemici, il complesso delle icone orientali o i tanka giapponesi per ritrovare i simboli del sole e della luna raffigurati nei due angoli superiori, a dimostrazione dell’identità dei principi dello ji e del ri. È questa l’idea centrale di tutte le religioni orientali.
I Veda
La civiltà dravidica, fiorita nella valle dell’Indo attorno al 2500 a.C., prosperò per circa un millennio prima di estinguersi nel 1500 a.C. circa. Le città di Mohenjo-daro e Harappa erano costruite in mattoni e disponevano di un’evoluta rete idraulica e fognaria, con tanto di pozzi e acquedotti. Si trattava di centri ingegneristicamente avanzati ma piuttosto poveri di decorazioni ornamentali. Quando negli anni ’20 del secolo scorso ne scoprirono i resti, gli archeologi furono sorpresi di non trovare tracce di templi nelle due antiche città. In compenso, gli scavi riportarono alla luce un grande complesso termale. Se si considera il ruolo centrale delle abluzioni nell’odierna vita religiosa dell’India, il ritrovamento di queste vasche fornisce la prova concreta di una tradizione ininterrotta che ebbe origine in un’epoca precedente ai Veda, i testi sacri dell’Induismo, datati attorno al 1000 a.C.
È quasi certo che le due città non sorsero per iniziativa della popolazione indigena, ma sotto l’impulso di coloni giunti dall’altopiano iranico, attratti dalle ricchezze naturali della valle fluviale. Come già accennato, la penuria di reperti ornamentali lascia supporre che nei centri abitati si conducesse una vita prevalentemente materialistica. Certo è che gli esigui artefatti rinvenuti a Mohenjo-daro e Harappa contrastano con la magnificenza artistica delle contemporanee civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia e di Creta.
Le poche raffigurazioni di cui disponiamo, impresse in piccoli sigilli utilizzati come firme in calce a lettere e documenti, riflettono a ogni modo l’immaginario mitologico della valle dell’Indo. La figura più ricorrente è quella del toro, lo stesso animale che si vede gironzolare oggi per le strade di Calcutta con le corna ornate da ghirlande di fiori. Nel pantheon induista è Nandi, la mitica cavalcatura di Śiva, mentre in Egitto è identificato con Osiride, il dio morto e risorto. Si tratta, insomma, del toro lunare, simbolo dell’energia divina che genera la vita e le dà forma.
Dall’analisi comparata di queste culture contemporanee, emerge il parallelismo tra le corna taurine e la falce lunare. La luna, dal canto suo, vi ricorre come simbolo della divinità che muore e risorge. Troviamo tracce di questa eredità anche nel cristianesimo: i tre giorni che Cristo trascorse nel sepolcro rimandano ai tre giorni di luna nera, mentre la Pasqua è sempre fatta coincidere con la luna piena.
Nei paesi tropicali, dove il sole rovente fa seccare i raccolti e inaridisce i terreni, la luna è descritta spesso come una grande coppa piena di ambrosia, che si svuota e si riempie. Quando scende la sera, l’astro celeste riversa sulla terra riarsa la sua rugiada, l’Amrita, bevanda dell’immortalità che rigenera la vita. Pieno e vuoto si alternano ciclicamente ad ogni passaggio dal plenilunio al novilunio.
Un altro simbolo che compare nei sigilli dravidici raffigura un albero con le foglie a forma di cuore. In Mesopotamia è noto come “Albero della Vita” mentre in India è l’“Albero della Bohdi” sotto cui sedette il Buddha. È la pianta che sorge nel “punto immobile” del buddhismo, il centro dell’universo, il mozzo attorno a cui tutto ruota incessantemente.
Tra le figure presenti nell’iconografia della valle dell’Indo ce n’è una che non appare nelle culture occidentali: uno yogi seduto, circondato da animali e molto somigliante a Śiva. Ha il volto trifronte e indossa un vistoso copricapo sormontato da due corna laterali e un’alta calotta centrale. È il primo esempio mai rinvenuto di yogi in meditazione e la sua assenza nell’iconografia sumera ed egizia lascia presumere che si tratti di una figura prettamente indiana.
Dagli scavi archeologici sono emerse inoltre alcune splendide statuine di danzatori, scolpite con grande perizia nel bronzo e nel legno. C’è una figura maschile che ricorda Śiva nell’atto di danzare, a eccezione delle braccia che sono due anziché quattro, e c’è un’esile fanciulla di bronzo, con pesanti bracciali ai polsi, ritratta in una posa licenziosa che fa pensare alla danza delle devadasi, le sacerdotesse indù. Sebbene anche in Egitto e Mesopotamia sia attestata la presenza di sacerdotesse danzanti, a conferma della comunanza iconografica fra le tre civiltà coeve, il cospicuo numero di statuine rinvenuto nella valle dell’Indo sembra indicare la singolarità del ruolo attribuito alle danzatrici nella cultura dravidica, dove appare evidente un’associazione tra danza e yoga.
Intorno al 1500 a.C. la valle dell’Indo fu invasa dagli Arii vedici, popolazione settentrionale di origine indoeuropea, come i Dori e gli Achei descritti da Omero. Alla loro espansione nel subcontinente indiano corrispose, in Occidente, l’invasione di Creta ad opera degli antichi Greci. I poemi omerici offrono un vivido ritratto dei costumi ariani, tipici di una popolazione nomade e guerriera. A differenza della civiltà dravidica che era stanziale e urbana, dedita principalmente all’agricoltura e al commercio, gli Arii vivevano di caccia e allevamento. Sembra che furono loro a introdurre in India la casta sacerdotale dei brahmani e quella militare degli kṣatriya. Le due caste si imposero rapidamente sulle popolazioni conquistate, determinando una gerarchia rigidamente divisa tra i brahmani e gli kṣatriya ariani, che occupavano il vertice della scala sociale, e i mercanti (vaiśya) e contadini (śūdra) indigeni, respinti ai margini della società. Il nuovo ordine comportò una tensione sociale senza precedenti nella realtà indiana, con frizioni aspre e durature fra le due culture costrette a una protratta convivenza.
Il più importante lascito culturale degli Arii migrati nel subcontinente è costituito da una silloge di inni dedicati alle divinità indiane, i celeberrimi Veda. Benché gli indiani li facciano risalire a diecimila, se non ventimila anni fa, nessuna prova è stata trovata a conferma di tale datazione. Si tratta a ogni modo di testi molto antichi. Il termine veda significa “conoscenza”, intesa nella fattispecie come conoscenza della verità divina.
È risaputo che i Greci officiavano riti sacrificali. Erigevano altari su cui immolavano gli animali destinati all’olocausto, condividendone la carne con gli dèi. La stessa pratica era in vigore nella civiltà vedica. Se tra i popoli stanziali è invalso l’uso di adorare un masso, un albero o uno stagno ben precisi, i nomadi rivolgono le loro preghiere a ciò che può trovarsi ovunque: il cielo sconfinato e la luce del sole, le nuvole e i venti, la grande Terra o il fuoco dell’ara sacrificale. Come il Calcante dell’Iliade, così anche i brahmani, in veste di maghi sacerdoti, erigevano i loro altari ovunque, costruendoli a imitazione della forma del cosmo, e versavano libagioni nelle fiamme. Il fuoco, identificato con il dio Agni, era la bocca attraverso cui le divinità invocate dai sacerdoti consumavano il sacrificio. I Veda intonati durante il rito erano gli inni sacri che i brahmani, secondo la tradizione, avevano attinto dal canto dell’universo.
Ricapitolando, l’erezione dell’altare era scandita da preghiere che i sacerdoti rivolgevano agli dèi affinché prendessero parte al rito sacrificale. Seguivano atti di devozione e la condivisione della carne immolata. Se la prassi non si discostava da quella greca, l’interpretazione che gli Arii ne dettero segnò una svolta cruciale nel pensiero indiano. In breve, l’idea che si impose fu la seguente: se con i nostri sacrifici possiamo influenzare il volere degli dèi, significa che noi e i nostri sacrifici siamo più forti di loro. A partire da quel momento, si distinsero due categorie di divinità: da un lato c’erano Indra, Agni e il resto dei Deva, dall’altro c’erano i brahmani. E tra i due ordini divini, il più forte era quest’ultimo. Si capisce che porre i sacerdoti in vetta all’universo significava collocare l’uomo al di sopra di ogni cosa: non c’è potere più grande al mondo di un essere umano nobile e pienamente realizzato.
Uomini, fratelli, ascoltate:
l’uomo è la verità al di sopra di ogni verità; oltre non c’è nulla.
Schopenhauer e gli altri filosofi occidentali del XIX secolo che, come lui, si imbatterono in questo concetto, ne rimasero profondamente affascinati.
Il sacrificio, in quanto strumento di controllo sugli dèi, assunse un ruolo fondamentale nella civiltà indo-ariana. Il rito sacrificale, con l’accensione del fuoco e l’immolazione dell’animale, fu investito di un valore cruciale. Gli atti del sacerdote dovevano riflettere l’ordine del cosmo e le dinamiche della psiche secondo uno schema allegorico tripartito. Una triade era costituita dal sole, dall’occhio umano e dal fuoco; un’altra dal vento, dal respiro e dall’alito del fuoco e così via. Tutte le allegorie erano volte a stabilire una corrispondenza tra il microcosmo, il macrocosmo e il sacrificio, con quest’ultimo assunto a simbolo centrale e punto di convergenza della costruzione allegorica.
L’energia sviluppata dal sacrificio prese il nome di Brahman.
Il viso di gloria
Da quanto detto finora, volendo ragionare in termini evolutivi, si può dire che l’idea del Brahman sia sorta originariamente in relazione ai sacrifici sacri. Tramite gli strumenti rituali si avviava un misterioso processo di trasformazione descritto nei minimi dettagli da una serie di testi sacri. È così che i brahmani hanno sempre interpretato i Veda, compendi teologici che offrono ai ministri del culto le indicazioni necessarie per eseguire gli inni sacri.
I brahmani, grazie anche al sostegno dei kṣatriya, o re guerrieri, misero a punto cerimonie sempre più elaborate. Il rito coinvolgeva numerosi officianti tenuti a recitare a memoria inni lunghi e complessi senza commettere il minimo errore, pena la vanificazione del sacrificio.
Il culto si perpetuò sotto l’ala protettrice del potere monarchico fino all’VIII secolo a.C., quando comparve il movimento eretico dei cosiddetti “filosofi della foresta”, i quali sostenevano che il Brahman, l’energia del sacrificio, permeava di sé ogni forma vivente.
I testi che tramandano questa filosofia sono le Upaniṣad, il corrispettivo indiano dei dialoghi platonici, rigorose meditazioni sull’energia suprema. Dopo aver indagato il potere del sole, quello del sacrificio, quello della mente e dei sentimenti, i filosofi della foresta giunsero alla conclusione che l’energia che anima la vita si esprime nel sacrificio così come nel sole e in ogni cosa che ci circonda, ed è pertanto nel mondo che va cercata.
Come è ovvio, un simile pensiero minacciava di invalidare i sacrifici e l’autorità dei ministri che li officiavano ma, se nell’antica Grecia la filosofia si affermò in opposizione ai culti religiosi che l’avevano preceduta, lo stesso non accadde in India, dove i filosofi e i sacerdoti instaurarono un dialogo che si mantenne vivo nel tempo e che si rivelò fecondo per entrambe le parti.
È tuttora vivo il dibattito sul condizionamento culturale che provocò il passaggio dal culto sacrificale a quello contemplativo. L’ipotesi più accreditata è quella di un recupero delle antiche tradizioni dravidiche della civiltà della valle del Nilo, ben illustrate dall’immagine dello yogi seduto in meditazione riprodotta sul celebre sigillo. Si suppone che gli Arii, dopo ottocento anni di dominio assoluto, cominciarono a perdere parte del loro potere politico, dando così adito a nuove contaminazioni ideologiche e a un rinnovato interesse per le tradizioni precedenti. Dalla confluenza del mondo ariano e di quello dravidico nacque il pensiero indiano, così come lo conosciamo oggi.
La questione ora è quella di distinguere, in questa tradizione sincretica, gli apporti dell’una e dell’altra cultura. Sappiamo che gli Arii, a differenza dei buddhisti, degli induisti e dei giainisti, non professavano il distacco dalle cose del mondo, al contrario, il loro spirito era profondamente materialista e affermativo. All’apice delle loro aspirazioni c’erano la salute, la longevità e l’abbondanza di greggi e figli; nulla di più distante dalla contemplazione yogica che sembrerebbe prerogativa della precedente civiltà dravidica.
Per rintracciare l’origine della rinuncia al mondo occorre volgere lo sguardo al concetto di sacrificio. Che cosa autorizzò gli Arii a considerarlo il segreto dell’universo? Per rispondere a tale domanda è bene tenere a mente che il soma, ossia l’offerta bruciata sull’altare, non è meramente simbolica, non rappresenta la divinità, ma coincide con essa. Come il vino degli antichi Greci, così anche il soma è un liquido inebriante di origine vegetale. La pianta da cui viene estratto è irrorata dalla rugiada lunare e, come si ricorderà, la luna è l’incarnazione celeste del toro. Nel rito sacrificale, quindi, è come se la divina energia procreatrice del toro fosse spremuta dalla pianta e versata nel fuoco. Ogni volta che portiamo il cibo alla bocca e lo ingoiamo, il fuoco che arde in noi lo consuma proprio come Agni consuma il soma. Mangiare, quindi, è di per sé un sacrifico. Non c’è differenza tra la fiamma che si alimenta dell’offerta sacrificale e la vita che si nutre della vita.
Quando poi sopraggiunge la morte, il nostro corpo è dato alle fiamme, siano esse quelle della pira funebre o quelle dei vermi, degli avvoltoi e degli sciacalli che divorano le spoglie umane. Eravamo Agni e siamo diventati soma. Il compimento del ciclo apre a uno scenario dionisiaco: l’intero universo è un sacrificio inestinguibile, inesauribile, che brucia in eterno e non cessa mai.
Compreso ciò, due sono le direzioni che si possono prendere: dire sì all’orrore del mondo o rifiutarlo. Nel primo caso si accetta il mondo così com’è, nel secondo lo si ripudia. L’idea di origine persiana, poi adottata dalla tradizione biblica, di un’iniziale stato di perfezione, cui seguono una caduta e una successiva restaurazione è estranea alla cultura orientale, dove i giochi sono già fatti e all’uomo non resta che decidere se starci oppure no.
Si narra che un giorno Śiva fu avvicinato da un mostro che reclamava sua moglie come amante. È ciò che accade quando la coscienza pretende di assumere il ruolo del sé. Di fronte a una richiesta tanto sfrontata, Śiva, fremente di indignazione, aprì il suo terzo occhio, sede della consapevolezza trascendentale, e un fulmine colpì la terra sollevando una fitta nube di polvere. Quando la coltre che offuscava l’aria si diradò, apparve un secondo mostro feroce e affamato, creato per divorare il primo.
Vedendosi nelle peste, il primo mostro fece quello che chiunque avrebbe fatto al posto suo: invocò il perdono divino. Fedele alla legge d’onore che impone la concessione della grazia a chi la chiede, Śiva accordò il suo perdono al primo mostro e impose al secondo di non mangiarlo.
“Ma io ho fame”, protestò quest’ultimo, “e non vedo nient’altro da mangiare qui intorno.”
“Io invece sì”, ribatté Śiva. “Vedo te. Perché non ti mangi da solo?”
Così il mostro si addentò i piedi e salì rosicchiando lungo le gambe e il busto finché di lui non rimase che la metà superiore della testa. Trovo che questa scena rappresenti perfettamente la ferocia della vita, spinta per natura a divorare se stessa.
Śiva, dal canto suo, rimase incantato dallo spettacolo e disse: “Che meraviglia! D’ora innanzi ti chiamerò Kirtimukha, il viso di gloria, e troverai posto nei miei santuari. Chi non ti renderà onore non sarà degno di me”.
Con ogni evidenza il dio mantenne la sua parola, giacché il volto del mostro è tutt’oggi scolpito all’ingresso di tutti i suoi santuari. La stessa immagine appare nei templi buddhisti a simboleggiare il regno terrestre e la sua autodistruzione. In questo senso, Kirtimukha è la soglia che introduce alla trascendenza. È l’affermazione assoluta del mondo così come esso è. Tutto sta a trovare un accordo con la realtà, non per come dovrebbe essere, ma per come è.
L’idea che la vita si rinnovi dopo essere passata attraverso il fuoco e la morte sta alla base del secolare culto sacrificale della tradizione indiana. Spingendo la logica di questo pensiero alle sue estreme conseguenze – e gli indiani sono maestri nel farlo – si giunge alla dismissione dei brahmani: che bisogno c’è di loro se il fuoco è in ciascuno di noi? Basta andare nella foresta, sedersi in meditazione e cercarlo dentro di sé. Nacque così il movimento dei filosofi della foresta. E con loro, intorno all’800 a.C., videro la luce le Upaniṣad, a mio giudizio i più sublimi tra gli scritti religiosi di tutti i tempi. Che cosa avvenne? La figura dravidica dello yogi, assente nella cultura ariana, ebbe a fondersi con il brahmanismo introdotto dai conquistatori. Dalla confluenza delle due tradizioni sorse il problema di coniugare ideali di vita estremamente dissimili, se non contrapposti: da un lato quello della virtù, della società, dell’impegno per il bene comune, noto come dharma, e dall’altra quello dello yoga.
Gli anni tra il 563 e il 483 a.C., che furono gli anni in cui visse il Buddha, segnarono il culmine e la crisi di questo conflitto culturale. Buddha non era un brahmano, apparteneva alla casta degli kṣatriya, i re guerrieri. A differenza di quelle più antiche, dove si parla esclusivamente della dottrina che i brahmani ereditarono dai re, le Upaniṣad del VI sec. a.C. rendono conto degli attriti fra le due tradizioni.
Lo dimostra esplicitamente il seguente apologo, risalente a quegli anni. Un brahmano va da un re per istruirlo e il re lo esorta: “Parla”. Il brahmano allora comincia a esporgli la sua dottrina ma il re lo interrompe: “Tutto questo lo so già, non mi dici niente di nuovo” e, ciò detto, gli indica un uomo addormentato. Il re gli rivolge la parola e l’uomo non risponde. Lo sveglia allora con un calcio poi, rivolto al brahmano, chiede: “Dov’era la coscienza di quest’uomo mentre dormiva?”.
Troviamo qui esemplificata l’idea della vita come sogno, originaria dei popoli che vivevano in India prima dell’occupazione ariana. Da loro proviene la dottrina che oggi celebriamo come una delle più alte espressioni della cultura indiana.
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