Se ci serve ancora l’idea di “macrostoria” è perché in sua assenza il presente ci risulta incomprensibile, eterno, inesorabile. Anche per via della settorializzazione del sapere moderno.
In copertina: “senza titolo” di g. rizzi, oggi all’asta da pananti casa d’aste
Derive della “nuova storia”
Quando uscì per la prima volta, nel 1976, per i tipi di Einaudi, Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg divenne subito un best-seller e negli anni successivi fu tradotto in venti lingue. Dalla sua aveva numerosi punti di forza: era innanzitutto scritto molto bene, si leggeva con piacere pur essendo il resoconto di una ricerca d’archivio che chiunque altro avrebbe trasformato in un pedante testo infarcito di note a piè di pagina; raccontava una storia affascinante, quella di un mugnaio friulano del Cinquecento che, a causa di letture disordinate, arrivò a costruirsi una propria cosmologia antitetica a quella ortodossa e finendo inesorabilmente bruciato dall’Inquisizione; era, infine (e soprattutto), un’opera-manifesto di un genere nuovo, quello della microstoria, che riusciva a rappresentare un’intera epoca (in questo caso, quello dell’ambigua religiosità popolare dell’età della Controriforma) a partire da uno studio di caso, e che sceglieva per questi casi non più “le gesta dei re” – come scriveva Ginzburg nella prefazione della sua opera – ma quelle degli ultimi, degli sconfitti, rimossi dalla memoria storica.
La microstoria giungeva all’apice di un’autentica rivoluzione copernicana, inaugurata dalla scuola storiografica francese delle Annales, la storica rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, che a differenza degli “Annales” quasi omonimi di Tacito si fondava sul rifiuto della histoire événementielle, la storia esclusivamente politico-militare, per concentrarsi su quella economica e sociale. Questa “nuova storia”, come la definì Jacques Le Goff, iniziò con l’analisi delle dinamiche profonde delle società nel loro evolversi storico; gradualmente, l’attenzione alla società spinse in seguito a prediligere una nuova unità d’analisi, quella della “cultura popolare”, con l’obiettivo di restituire voce a coloro che non apparivano mai nelle cronache e negli annali, se non quando iniziavano a costituire un problema, esattamente come il Menocchio di Ginzburg di cui nulla sapremmo se non fosse entrato in rotta di collisione con l’Inquisizione lasciando traccia di sé negli archivi processuali. Si trattava di scrivere la “storia dei marginali”, come la definì Jean-Claude Schmitt, i veri attori della storia: gli “anonimi muratori” che avevano innalzato le mura di Tebe, come scrisse Ginzburg riferendosi alle Domande di un lettore operaio di Bertold Brecht.
Se in una prima fase si provò a fare questo tipo di storia sulla base di dati quanto più possibile impersonali e quantitativi, esattamente con lo scopo di abbassare i riflettori delle singole personalità per puntarli verso le forze indistinte delle masse, gradualmente si capì che bisognava invece restituire contorni ai singoli “marginali”, ricostruirne le storie e usarle per meglio chiarire l’ecosistema di una determinata epoca, soprattutto il suo contesto socio-culturale popolare. Questa seconda svolta si verificò, secondo Schmitt, dopo il 1968, in coincidenza con il movimento di contestazione che vide proprio i marginali diventare protagonisti. Di qui una rinnovata attenzione a fonti quali registri notarili, schedari di polizia, atti comunali, attraverso cui riportare in vita storie dimenticate di uomini, donne, famiglie, villaggi ai margini della grande corrente della Storia.
Lavoro impegnativo, a cui solo poche grandi personalità riuscirono ad accostarsi con successo. Storici di grande erudizione, spesso antropologi, in grado di padroneggiare più discipline e giungere a felici intuizioni a partire da pochi dati, o di far parlare fonti che ad altri non direbbero nulla. Nacquero così capolavori come quello sul villaggio occitano di Montaillou durante la crociata contro gli albigesi di Emmanuel Le Roy Ladurie (1975), o Il ritorno di Martin Guerre di Natalie Zemon Davis (1982) sul caso di un impostore del Cinquecento in un villaggio dei Pirenei, o La domenica di Bouvines (1973) in cui Georges Duby ricostruiva la battaglia del 27 luglio 1214 tra le armate francesi di Filippo Augusto e quelle della coalizione imperiale guidata da Ottone IV. Profondità d’analisi, quella richiesta per la microstoria, di cui certo non tutti gli storici sono dotati; cosicché – notava già Ginzburg in un bilancio scritto nel 1994 (Microstorie: due o tre cose che so di lei) – la microstoria più spesso si è trasformata in sinonimo di “micro-analisi”, scelta non per vera convinzione storiografica ma per comodità e, si potrebbe aggiungere, pigrizia, di quella vasta maggioranza di mestieranti della storia non in grado di affrontare i problemi con la stessa mole di conoscenze, cognizioni e multidisciplinarietà degli storici delle Annales e dei loro epigoni, e che pertanto hanno preferito scegliere micro-casi spesso di storia locale, con un ben definito e circoscritto insieme di fonti da analizzare (quasi sempre fondi archivistici), dai quali non trarre, come invece nell’originale microstoria, le necessarie generalizzazioni per gettar luce sulla cultura popolare dimenticata di una determinata epoca, ma semplici elenchi di fatti e notizie, così ricadendo nel peccato della storia evenemenziale da cui la rivoluzione della “nuova storia” intendeva precisamente affrancarsi.
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Fortune e controversie della macrostoria
In questa deriva costantemente alimentata dai dipartimenti universitari di storia, soprattutto – ma non solo – in Europa, e specialmente in Italia, è naturale che opere ambiziosissime che invece dichiaratamente prendono le distanze da queste micro-analisi e intendono riportare in vita quel filone oggi dimenticato della “macrostoria” siano accolte, a fronte di enormi successi di pubblico, con velato scetticismo o palese repulsione. Studi popolarissimi quanto controversi come Sapiens di Yuval Noah Harari (2011), L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow (2021), Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond (1997), pur molto diversi per approccio filosofico e impostazione di fondo, condividono da un lato l’ambizione di scrivere nuove grandi “storia dell’umanità”, dall’altro le critiche di quanti ritengono un simile sforzo non solo inutile, ma sostanzialmente impossibile. In ciò dimenticando però che proprio la “nuova storia” nasceva, agli inizi del Novecento, per tentare un’analoga impresa con armamentari concettuali nuovi rispetto a quelli che fino ad allora erano stati impiegati per scrivere le grandi opere di sintesi storica che rappresentavano i best-seller dei secoli passati, come il Declino e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon (1776-1789) – che a dispetto del nome si spingeva fino alle Crociate e alla caduta di Costantinopoli –, la Storia di Roma di Theodor Mommsen (1854-1856), l’incompiuta Storia universale di Leopold von Ranke (1880-1886), fino alla monumentale storia comparata in dodici volumi di Arnold Toynbee (A Study of History, 1934-1961). Qual era infatti il senso di un classico rivoluzionario come Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II di Fernand Braudel (1949), su cui torneremo più avanti, se non quello di evidenziare la “continuità nel tempo e nello spazio” della civiltà mediterranea? A fondamento di questa ricerca, Braudel pose il concetto di longue durée, contrapposta al tempo breve definito “la più capricciosa, la più ingannevole delle durate”.
Se Braudel e gli storici che ne hanno condiviso l’approccio rivoluzionario oggi ci sembrano così distanti dagli autori di best-seller come Harari, ciò sta sicuramente nella diversa impostazione metodologica delle loro opere, ma anche nel fatto che non abbiamo ancora compreso fino in fondo il vero significato della macrostoria. Questo termine è stato oggetto di una riflessione articolata da parte di due studiosi noti più come futurologi che come storici (esattamente come Yuval Harari è oggi maggiormente noto per le sue prospezioni nel futuro che per le sue analisi storiche, pur essendo in realtà uno storico di formazione e di professione): nel 1989 a un seminario all’Università delle Hawaii Johan Galtung e Sohail Inayatullah parlarono di “Macrostoria e macrostorici”, tema che confluì in seguito in un libro con lo stesso titolo (Macrohistory and Macrohistorians, 1997). Galtung, sociologo di formazione, fondatore degli studi sulla pace, era stato il pionieristico promotore del primo Congresso mondiale sul futuro organizzato nel 1967 a Oslo con il titolo Mankind 2000, insieme al giornalista e pacifista Robert Jungk. Inayatullah, che allora stava completando il dottorato all’Università delle Hawaii, sarebbe diventato in seguito uno dei più stimati esponenti degli studi sul futuro, grazie a un metodo di analisi molto noto e applicato chiamato CLA, acronimo di Causal Layered Analysis (“analisi causalmente stratificata”). Il metodo parte dall’obiettivo di immaginare futuri alternativi a quelli “egemonici” e predeterminati, a partire dalla decostruzione delle narrazioni dominanti nel presente; per farlo, Inayatullah individua quattro diversi livelli di analisi: la “litania”, cioè le narrazioni dominanti; le “cause”, che includono i fattori storici, economici, politici e culturali; la “struttura”, ossia il discorso sottostante che legittima la struttura; il “mito”, cioè il livello più profondo e stratificato, che con Jung potremmo definire l’insieme degli archetipi inconsci che definiscono una civiltà.
La sua importanza consiste, da un lato, nell’adottare come unità d’analisi la “civiltà”, intesa come una collettività storicamente e culturalmente omogenea, e dall’altro nella capacità di analizzare gli strati profondi della civiltà per individuare le “visioni del mondo” soggiacenti e operare per trasformarle. Il CLA è in effetti la versione pratica e futuristica dell’interesse di Inayatullah per la macrostoria. Nel suo libro firmato insieme a Galtung, la macrostoria viene definita come “lo studio delle storie dei sistemi sociali, lungo traiettorie separate, in cerca di schemi”. La macrostoria è diacronica in quanto si focalizza sugli stadi della storia e sulle cause del cambiamento nel corso del tempo, in questo distinguendosi dallo studio di singole unità o macro-unità storiche in un lungo lasso di tempo, come nel caso di una storia dell’Italia o della Francia che si estende per diversi secoli, o anche dell’intera storia della civiltà umana dalla preistoria a oggi. La macrostoria cerca degli schemi, dei pattern: segue cioè un approccio “nomotetico”, in cerca di regolarità, di generalizzazioni, che Inayatullah non teme di definire vere e proprie “leggi”. Vedremo più avanti perché proprio in quest’ultimo passaggio si situa il problema di fondo della macrostoria e il suo fraintendimento di fondo.
Macrohistory and Macrohistorians partiva da una domanda: perché c’è in giro così poca macrostoria? Le risposte degli autori sono diverse. Innanzitutto – lo abbiamo già accennato – perché è “intellettualmente difficile”: bisogna avere una solida conoscenza dei singoli casi che si vogliono analizzare, che spesso appartengono a epoche e aree geografiche molto diverse tra loro, in palese contraddizione con la tendenza alla iper-specializzazione degli storici, per i quali trattare di un periodo storico al di fuori della propria specializzazione assume i contorni di un reato di “sconfinamento”. In secondo luogo perché bisogna avere un’indubbia capacità di riconoscere degli schemi, “dare senso a grandi quantità di dati”, il che implica da un lato una certa dimestichezza con gli approcci quantitativi (le teorie devono essere confrontate con i dati), dall’altro l’attitudine alle generalizzazioni, esplicitamente disincentivata all’interno dei circoli storiografici contemporanei. Infine, perché di solito il macrostorico lavora con fonti secondarie anziché con fonti primarie, fatto che tende a dequalificarlo al ruolo di interprete anziché di storico vero e proprio, secondo la tendenza ormai invalsa a ridurre il lavoro dello storico a palombaro di fondi d’archivio.
Esattamente questi punti sono quelli su cui si basano le critiche ai più recenti autori di macrostoria sopra citati. Nel caso di Harari, per esempio, lo storico di Oxford Steven Gunn ha scritto sul New Yorker che la sua capacità è stata quella di aver “scavalcato” la critica degli esperti attraverso “domande così grandi che nessuno può dire ‘questo pezzo secondo noi è sbagliato, questo pure’… Nessuno è esperto sul significato di tutto, o della storia di chiunque, sul lungo periodo”. Sapiens, così come i libri di Jared Diamond (vincitore del premio Pulitzer per la saggistica nel 1998), sono stati inoltre criticati perché si concentrano molto sulla preistoria e sui primi millenni della civiltà, pur non essendo gli autori né archeologi né antropologi. Nel caso di L’alba di tutto, gli autori sono invece rispettivamente un antropologo (Graeber, prematuramente scomparso nel 20202) e un archeologo (Wengrow), con un background ideologico molto diverso dagli autori precedenti – Graeber è stato un noto attivista di Occupy Wall Street e un intellettuale dichiaratamente anarchico. Mentre Harari e Diamond sono stati accusati di “determinismo storico”, in quanto nei loro testi cercano di spiegare perché la storia dell’umanità non poteva che imboccare una e una sola traiettoria possibile – quella che di fatto ha imboccato – a causa principalmente di fattori biologici e geografici, Graeber e Wengrow nel loro libro presentano un’altra storia della civiltà, dove a lungo sono coesistite almeno due traiettorie possibili, di cui una sola è diventata dominante perché imboccata dall’Occidente, a danno di modelli sociali fondati sull’autogoverno se non persino sull’uguaglianza. Così scrivono verso la fine del loro libro:
“«Non c’è modo di uscire dall’ordine costituito immaginario» scrive Yuval Noah Harari in Sapiens. «Quando noi abbattiamo le mura della nostra prigione e corriamo verso la libertà, di fatto corriamo verso il cortile di ricreazione più ampio di una prigione più grande.» [Harari] non è l’unico ad arrivare a questa conclusione. Quasi tutti coloro che scrivono la storia su grande scala sembrano aver deciso che, come specie, siamo veramente bloccati, senza via di fuga dalle gabbie costituzionali che ci siamo costruiti.”
Per i due autori, invece, la nascita degli Stati e quindi di regimi verticistici fondati sulle disuguaglianze non sarebbe il frutto di una “necessità storica” derivante dalla rivoluzione agricola del Neolitico, ma un processo molto successivo e non inevitabile, come tale in futuro anche rovesciabile. Le accuse loro avanzate sono state in questo caso di “utopismo” e di manipolazione dei fatti storici per interpretazioni orientate a offrire una particolare visione del presente.
Ciò che in realtà accomuna le critiche a tutti questi macrostorici è, più ancora dello sconfinamento disciplinare o degli errori evidenziati dagli specialisti in diverse parti delle loro opere, la tendenza a offrire grandi generalizzazioni valide per comprendere il presente e immaginare il futuro. Harari non lo ha nascosto, tanto da aver fatto seguire a Sapiens un altro best-seller, Homo Deus, esplicitamente orientato a una discussione sui futuri possibili della civiltà umana. Come spiegano Galtung e Inayatullah, essendo la macrostoria diacronica – ossia focalizzata sui cambiamenti nel tempo – “il futuro vi è sempre implicato, e spesso senza alcuna promessa di progresso illimitato”. In effetti, se guardiamo a queste opere ci rendiamo conto che in comune c’è la critica all’idea del progresso lineare. Per esempio, Collasso di Jared Diamond (2004) ci mette di fronte al serio rischio che la civiltà tecnologica possa seguire le stesse traiettorie dei Maya o degli abitanti dell’Isola di Pasqua. “Come conseguenza, il macrostorico non è in grado di promettere progresso illimitato. Presto o tardi il declino arriverà, come predetto da una teoria ciclica”, leggiamo in Macrohistory and Macrohistorians.

Fascinazione delle teorie cicliche
Il concetto di ciclicità è uno degli aspetti centrali della macrostoria, nonché uno dei più criticati, a causa del rischio di determinismo storico a cui si associa. Esso si basa sull’idea di “stati della storia”, che ha una lunga e illustre tradizione che risale perlomeno a Esiodo e alla sua successione di epoche storiche sempre più decadenti, dalla gloriosa Età dell’Oro a quella dell’Argento, fino all’Età del Bronzo e a quella del Ferro; metafora ripresa dall’apocalittica ebraica al tempo dei Maccabei, quando fu scritto il Libro di Daniele, la cui visione del succedersi di regni sempre più decadenti ha la forma di una statua dalla testa d’oro, petto e braccia d’argento, ventre e cosce di bronzo, gambe di ferro e piedi d’argilla.
Più avanti il tema fu ripreso da Paolo Orosio nelle sue Storie contro i pagani (417-418), un racconto della storia del mondo dal Diluvio fino alla caduta di Roma, che si basava sulle tesi di Agostino espresse nella Città di Dio e proponeva una concezione della storia divisa in quattro imperi: babilonese, macedone, cartaginese e romano. Fu un libro dal successo enorme, l’unico testo latino conosciuto nel mondo islamico per mille anni e pertanto fonte primaria per Ibn Khaldun, uno dei primi macrostorici nel vero senso della parola, che nella sua “Introduzione alla storia universale” (Muqaddima, 1377) presentò un’influente teoria della storia, in cui l’inesorabile declinare della ʿaṣabiyya, ossia dell’identità culturale di un determinato popolo, viene associato alla caduta ciclica delle dinastie: tutte, inevitabilmente, vedono con il passare delle generazioni declinare il loro nerbo e decadere nel lusso e nell’ozio, finché una nuova dinastia più forte non arriva a soppiantarle, in cicli di circa centoventi anni.
Ciclicità e decadenza da un lato, visione della storia come tendente al progresso e alla salvezza universale dall’altro, furono i due grandi poli intorno a cui la storiografia medievale e pre-moderna oscillò per secoli. L’Uomo è caduto a causa del peccato originale e vive in un mondo caduto, precisa Agostino, dunque, ogni progresso nelle civiltà umane non può essere che apparente; e tuttavia Dio si rivela nella storia, che può essere letta come orientata alla salvezza, non all’inesorabile collasso. Ottone di Frisinga tentò di tenerne conto nella Historia de duabus civitatibus (1143-45) sviluppando in modo più moderno anche il concetto della translatio imperii, lo spostamento periodico del centro del potere, individuato in età medievale come uno dei motori della dinamica storica. Tutti gli imperi seguono un analogo destino: nascita, apogeo, caduta; nascono in Oriente e si spostano progressivamente verso Occidente. A questa ciclicità si contrappone però una dinamica lineare che è quella espressa dalla religione cristiana: “Noi dovremmo aspettarci che il mondo finisca presto, se non fosse sostenuto dalle preghiere e dalle azioni di uomini santi dei quali, per grazia di Dio, vi è ora grande quantità”.
Bisognerà aspettare Edward Gibbon per mettere in discussione le tesi di ispirazione agostiniana: il suo Declino e caduta dell’Impero romano attribuiva non solo alle invasioni barbariche, ma primariamente alla diffusione del cristianesimo e ai suoi effetti su quello che Ibn Khaldun avrebbe definito l’aṣabiyya dei romani – spirito marziale, espansionismo, grandeur – il ruolo determinante nella caduta dell’Impero. Frutto dell’anticlericalismo illuminista dell’epoca, l’opera di Gibbon contribuì nondimeno a superare definitivamente l’approccio religioso alla macrostoria e ad avviare gli studiosi successivi alla ricerca di nuovi processi universali. Inesorabilmente, alla teoria della salvezza doveva sostituirsi la teoria del progresso intramondano; ma le teorie della ciclicità non vennero invece intaccate da questa trasformazione.
L’idea secondo cui le civiltà sono destinate al collasso risorse allorquando il forte utopismo illuministico prima e positivistico poi iniziò a declinare. Agli inizi del Novecento l’ambizione di cercare leggi deterministiche con cui interpretare le dinamiche storiche fu messa al servizio di sforzi per predire il futuro collasso della civiltà occidentale. Esemplare da questo punto di vista fu Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler (1981-1923), non a caso scritto e pubblicato all’indomani della Grande guerra e del collasso dei grandi imperi centrali, in cui l’autore si proponeva esplicitamente di “predire il destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri”. Basandosi sull’analogia con le età dell’essere umano, Spengler traeva dalla sua “prognosi della storia” la convinzione che ogni civiltà abbia una sua nascita, una sua giovinezza e una sua senilità, essendo le civiltà “organismi viventi d’ordine superiore”. Secondo questa morfologia della storia, la civiltà europeo-occidentale sarebbe, in analogia con il “tramonto del mondo antico”, entrata nella sua età senile, che si manifesterà nei primi secoli del presente millennio. L’approccio di Spengler è comparatistico e lo studio delle civiltà del passato ha il preciso obiettivo di predire l’evoluzione futura della nostra civiltà, che si troverebbe in una fase simile a quella del tardo ellenismo, caratterizzata dal passaggio da un’anima “apollinea” a una “faustiana”, dove la piena consapevolezza dei propri mezzi conduce a una cultura dinamica fondata sul mito del progresso attraverso la costante trasformazione del mondo per mezzo della tecnica.
Il confronto tipico tra l’opera di Spengler e quella di Arnold Toynbee riflette da un lato lo scontro tra l’Europa continentale e l’Inghilterra che contraddistinse ancora tutta la prima metà del Novecento, i grandi paradigmi nietzschiani contrapposti al progressismo liberal di marca anglosassone. Ma Toynbee fa un passo avanti nel cercare di superare l’impostazione determinisitca della macrostoria. Non ci riesce ancora, naturalmente, perché la sua opera si situa in una fase ancora immatura del discorso storiografico; ma nella sua critica alle “soluzioni deterministiche” nella parte dell’opera che tratta del crollo delle civiltà decostruisce le quattro ipotesi allora dominanti. La prima, quella secondo cui il collasso dipenda da leggi fisiche, ispirata alla seconda legge della termodinamica che regola l’inesorabile crescita dell’entropia:
“È una delle perenni umane debolezze questa di ascrivere i propri insuccessi a forze del tutto indipendenti dal nostro controllo. Questa manovra mentale seduce particolarmente gli spiriti sensitivi nei periodi di decadenza e di rovina; e nella decadenza e rovina della civiltà ellenica era un luogo comune di diverse scuole filosofiche quello di spiegare lo sfacelo sociale, da esse deplorato ma non riparabile, come il fortuito e inevitabile effetto di un generale attacco di «senescenza cosmica»”.
La seconda ipotesi, quella di Spengler, secondo cui le civiltà, come gli organismi viventi, hanno una durata fissata da leggi biologiche, è ugualmente esclusa, “perché le civiltà appartengono a una specie di fenomeni che non è soggetta alle leggi della biologia” (e così finalmente si chiude il lungo percorso iniziato con Esiodo che compara le età della storia all’età dell’uomo). La terza, che è sostanzialmente quella di Khaldun (che Toynbee non cita), per cui i crolli derivano dalla progressiva degenerazione dei ceti dominanti, è tacciata di razzismo. La quarta, infine, cioè la teoria ciclica, è attribuita alla fascinazione per la ciclicità delle stagioni, ma non trova riscontri nella storia diacronica: “Il genere umano non è un Issione legato eternamente alla sua ruota né un Sisifo che sospinga eternamente il suo macigno alla vetta della stessa montagna e, impotente, lo veda ricadere al piano”.
Piuttosto, Toynbee individua come forze motrici del collasso le “pressioni esterne” e le “minoranze interne”: caso classico, ancora una volta, dell’Impero romano, eterno modello di ogni tentativo di individuare leggi storiche universali. In questo caso le pressioni esterne sono ovviamente quelle dei barbari, il “proletariato esterno” per usare la terminologia di Toynbee; mentre le minoranze interne sono rappresentate – secondo la tradizione inglese risalente a Gibbon – dai cristiani, definiti il “proletariato interno” dell’Impero. La tentazione, ovviamente, è quella di cercare analoghe forze nel presente (perlomeno nel tempo in cui scriveva Toynbee). Di minoranze interne, riconosce l’autore, ce ne sono quante ne si vuole, dall’intellighenzia cosmopolita al proletariato urbano; entrambe sono oggetto di processi di reclutamento e assorbimento da parte dei ceti dominanti, ma nessuna di esse è stata in grado di dar vita a una nuova “chiesa universale”, sebbene forse in questo caso Toynbee abbia sottovalutato la forza dell’ideologia comunista, determinante per tutto il XX secolo. Quanto al proletariato esterno, la grande profezia dell’autore inglese, scritta nel 1939, fu che la civiltà occidentale contemporanea fosse ormai talmente pervasiva da non avere più minacce al di fuori di sé, ma in grado nondimeno di generare “barbari interni”, che Toynbee indicava coerentemente nelle milizie fasciste e nazionalsocialiste.
Analisi di “lunga durata”
Nel 1936 il fondatore della rivista Annales, Lucien Febvre, demoliva l’opera di Toynbee, accusato di “aver scritto una storia illusionistica, da prestigiatore, che fa sfilare le civiltà «come i quadri di un melodramma»”, per il quale la storia poteva riassumersi “nella risposta di un vecchio bibliotecario a uno scià agonizzante che in punto di morte voleva imparare tutta la storia: «Mio principe», gli disse il vecchio saggio «mio principe, gli uomini nascono, amano e muoiono»”.
Economies – Sociétés – Civilisations era il sottotitolo che Febvre e March Bloch avevano scelto per la loro rivista; sì, anche le civiltà, ma prima di loro le società, termini che non sono sinonimi perché “società” designa una struttura più profonda, a cui i nuovi storici intendevano rivolgersi. L’obiettivo era quello di superare gli steccati disciplinari e servirsi dei nuovi sviluppi della sociologia e delle scienze economiche per dotare la ricerca storica di nuovi strumenti; ma veniva abbandonata l’ambizione, considerata illusoria, di estrapolare dalle vicende della storia leggi sempre valide con cui predire l’avvenire. Vi si sostituiva una più matura concezione storiografica: la ricerca delle forze permanenti, impersonali e collettive, che producono il mutamento sociale nel corso delle epoche storiche, all’interno di un’ottica che Fernand Braudel – successore nel 1946 di Febvre alla direzione delle Annales – definirà longue durée. Non però una “storia immobile”, formula coniata dallo stesso Braudel e da Le Roy Ladurie; perché obiettivo della nuova storia – chiariva meglio Jacques Le Goff – è piuttosto quello di “spiegare meglio il cambiamento”.
Era del resto, questo, un lascito di Marx, che nei suoi studi non era riuscito a individuare i meccanismi alla base del passaggio dal feudalesimo al capitalismo; gli storici ne avevano raccolto la sfida focalizzandosi sulle strutture socio-economiche, trasformate nella nuova unità d’analisi privilegiata. Dunque, pur essendo esplicitamente idiografica, ossia orientata al particolare e rifuggente da pericolose generalizzazioni, questa “nuova storia” recuperava dalla macrostoria l’abbandono degli aspetti meramente evenemenziali, la focalizzazione sulle leggi del cambiamento storico, la prospettiva di lunga durata. Se ne distingueva invece ancora per due elementi: l’attenzione (come si accennava all’inizio) al ruolo delle “masse”, alla “cultura popolare” anziché alle grandi dinastie e ai dominatori; e di conseguenza una rinnovata attenzione alle fonti, anzi a nuove fonti, fino ad allora ignorate, con le quali riuscire a ricostruire le strutture sociali del passato.
Esemplare è l’opera già citata di Braudel Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, nella quale il tema delle oscillazioni, delle ripetizioni e dei cicli è dominante e letto entro una cornice di dialettica tra “strutture” e “congiunture”, termini che scandiscono le prime due parti dell’opera (la terza è dedicata agli “avvenimenti”). Le oscillazioni sono tipiche delle congiunture e come tali possono essere cicliche, mentre le strutture restano fisse; ma anche le strutture possono infine mutare e queste sono le trasformazioni irreversibili che conducono a nuove società, come nel passaggio marxiano dal feudalesimo al capitalismo. Non c’è dunque una teoria ciclica della storia né una concezione lineare orientata al progresso permanente, ma queste due concezioni depurate dalla loro componente nomotetica sono comunque sussunte all’interno del discorso di Braudel: ci possono essere ciclicità, come del resto accadrà sempre più nell’epoca del capitalismo con le sue cicliche recessioni, ma ci possono essere anche trasformazioni strutturali, non però tendenti al miglioramento costante, alla salvezza universale o all’utopica società comunista immaginata da Marx.
Alle strutture socio-economiche, la “nuova storia” saprà in seguito aggiungere l’analisi della mentalità e dell’immaginario, andando a formare quelle componenti che Inayatullah ha riassunto nel suo metodo di analisi causale stratificata. Passata tuttavia la grande stagione dei maestri e quella dei loro diretti discepoli, la nuova storia cede il passo a una microstoria sempre più “micro” nelle ambizioni e nelle unità d’analisi, in cui il rifiuto della generalizzazione non conduce più alle profonde riflessioni sulle peculiarità delle dinamiche storiche delle varie epoche ma al ritorno a una storia di “fatti” senza interpretazioni, di tessere sempre più piccole che non si è più in grado di ricomporre in mosaico, a causa delle distanze crescenti delle discipline e dal conseguente sospetto verso la lunga durata, che richiederebbe di abbandonare la confortevole veste dello specialista per azzardarsi in pericolosi sconfinamenti nell’altrui autorità.
Suggestioni e limiti della nuova macrostoria
A questa tendenza, come hanno risposto i nuovi macrostorici? A guardare le loro opere, sembrerebbe che la lezione della “nuova storia” sia stata dimenticata. E quasi certamente è così, perché spesso queste opere nascono con il preciso intento di superare la degenerazione della disciplina verso il “micro” e recuperare gusto e ambizione per le generalizzazioni. La conseguenza è il ritorno a uno sguardo tendente al determinismo che nuovamente cerca di cogliere leggi storiche con cui effettuare quella “prognosi” orientata al futuro che auspicava Spengler. Si pensi alla discussa opera di Peter Turchin, che ha recuperato gli studi di Ibn Khaldun e li ha posti alla base di una nuova disciplina, la “cliodinamica”, fondata sulla modellizzazione matematica dei processi sociali e applicata alla spiegazione dei processi ciclici di ascesa e cadute delle nazioni: Historical Dynamics: Why States Rise and Fall (2003), War and Peace and War: The Rise and Fall of Empires (2006), Secular Cycles (2009), Ultrasociety (2016), recentemente tradotto in italiano con un titolo grossolano (La scimmia armata, UTET 2022). Turchin, che di formazione è un biologo, ha messo su con i suoi colleghi un approccio matematico che mescola macrosociologia storica, storia economica ed evoluzionismo culturale applicandolo all’analisi di sistemi complessi come le civiltà umane. La sua è una scienza che, come tale, si pone il preciso intento di dedurre leggi che possano essere sottoposte al vaglio della verifica empirica. Il modello è in grado di partire da princìpi primi di tipo deterministico per ricostruire in progressione lo sviluppo delle civiltà del passato fino ai giorni nostri, e ovviamente può essere usato per fare previsioni sul futuro. Motore di queste dinamiche è la guerra, prodotta da gruppi sociali diversi in conflitto per le risorse, il prestigio e il potere: una forza definita da Turchin “creazione distruttiva”, che pur terribile ha portato a grandi sviluppi ma che infine potrebbe distruggere sé stessa facendoci approdare a un futuro senza guerre.
Su metodi e tesi similari si pone l’opera dello storico Walter Scheidel nel suo recente studio Fuga dall’impero. La caduta di Roma e le origini della prosperità occidentale (LUISS University Press, 2022). Ancora una volta il punto di partenza è la caduta dell’Impero romano, ma questa volta l’obiettivo non è approfondire le sue motivazioni ed estrapolarne leggi generali, quanto cercare di capire perché, a partire da quel grandioso crollo, la civiltà occidentale e quelle del resto del mondo abbiano iniziato a divergere. La tesi di fondo di Scheidel è che la caduta dell’Impero romano abbia messo fine a un esperimento unico nella storia – mai prima di allora e in seguito una così grande percentuale di popolazione di un’ampia area geografica è stata sottoposta a un unico dominio – che però, crollando, ci ha reso un grande beneficio, perché ha avviato quel processo di sana competizione tra popoli e società che ha reso possibile la Grande divergenza, verificatasi a partire dalla Rivoluzione industriale, quando lo sviluppo economico dell’area occidentale dell’Eurasia ha iniziato a divergere marcatamente dall’area orientale. La fine dell’Impero, dunque, sarebbe alla base delle trasformazioni radicali avvenute milletrecento anni più tardi. Roma fu una singolarità della storia, dovuta secondo Scheidel a una serie di fattori irripetibili – geografici innanzitutto (la centralità nel Mediterraneo), ma anche storici (la scomparsa dell’impero macedone), economici, tecnologici – ed è solo un bene che l’Impero non sia più tornato, perché laddove sono persistite forme di dominazione imperiale, come in Cina, alla lunga sono venute meno le forze propulsive dell’innovazione, prodotte dalla “frammentazione competitiva del potere”. Scheidel la chiama la “Grande Fuga”.
La parte più interessante del libro (per il resto non particolarmente originale né nelle premesse né nello svolgimento) è nelle sue motivazioni. Docente di Storia antica alla Stanford University, Scheidel osserva che gli storici hanno abbandonato ogni interesse nella ricerca sulle cause della Grande divergenza, che invece “è importantissima per capire come il mondo sia diventato com’è”. Una rapida scorsa ai background degli autori che se ne sono occupati mostra che “solo uno studioso su circa quaranta che si sono espressi sul tema viene da una specializzazione in storia”, mentre la maggioranza è composta da scienziati sociali ed economisti. In buona parte Scheidel attribuisce questo disinteresse al “passaggio dalla storia economica o dalla macro-storia alla storia culturale o alla micro storia”, che avrebbe tagliato fuori la comunità degli storici professionisti dall’impiego di metodologie innovative provenienti da altri campi con cui analizzare i processi di lunga durata. E tuttavia, se la diagnosi è probabilmente corretta, la terapia non sempre lo è. Fuga dall’impero, esattamente come La scimmia armata di Turchin, propone teorie esplicitamente deterministiche e torna a valorizzare fattori come quelli ecologici e geografici per individuare le cause dei processi storici. Non è, di per sé, un errore, perché rispetto al passato oggi disponiamo di molti più dati e teorie molto più sofisticate per analizzare, per esempio, l’influenza dei cambiamenti climatici sulle dinamiche delle civiltà, e l’integrazione con gli elementi provenienti dalla paleontologia e dagli studi genetici sull’evoluzione ci consentono di estendere molto più in profondità nel passato gli studi di macrostoria, come accade nelle opere di Harari, Diamond, Graeber e Wengrow. Maurice Aymard, discepolo di Braudel, lo spiegava in un bilancio sul concetto di “lunga durata” a cinquant’anni (2008) dalla sua originaria proposta:
“La storia non inizia più a Sumer. La rivoluzione scientifica dell’archeologia è in effetti venuta ad abolire la frontiera dell’invenzione della scrittura, che serviva a distinguere la storia dalla preistoria, e quella, spesso associata alla precedente, dell’opposizione tra «società fredde» e «società calde»: essa ha riavvicinato gli antropologi, gli archeologi e gli storici, che lavorano sia sull’Europa che sulle altre grandi aree geografiche e culturali del mondo. E ha mobilitato numerose tecniche di analisi, di misura, di uso di modelli e di digitalizzazione, prendendole in prestito dalle scienze esatte.”
Di questo si deve tener conto, superando la naturale ritrosia degli storici per simili sconfinamenti disciplinari. Un’opera come la Storia notturna (1989) di Carlo Ginzburg è stata pioniera di tale svolta, come ricorda giustamente Aymard. Ma il rischio che si corre è in questa rinnovata tentazione di sviluppare leggi universali con l’obiettivo di fare della storia una scienza empirica (Scheidel per esempio fa ampio ricorso ai “controfattuali” con l’obiettivo di sottoporre le sue teorie a verifica). Se ne erano resi conti già Galtung e Inayatullah nel loro libro Macrohistory and Macrohistorians, scrivendo che il tentativo dei macrostorici di realizzare una scienza porta spesso a chiudere anziché a tenere aperta la ricerca storica, cercando risposte definitive che hanno l’effetto di cristallizzare il mondo in un blocco monolitico, sulla base della convinzione che le cose non potevano andare diversamente e che quindi non esistono alternative al presente in cui viviamo. Le conseguenze sono evidenti: si ritorna a una “visione ferroviaria” della storia, come la definì il filosofo Bertrand de Jouvenel, critico nei confronti delle teorie della modernizzazione, per le quali tutte le società sono destinate a seguire le stesse traiettorie, e si toglie ogni spazio alle storie alternative, quelle dei marginali, tagliati fuori dalla grande corrente storica la cui riscoperta è invece utile a mostrarci come le cose potevano andare diversamente (di grande interesse, su questo fronte, i nuovi studi sulla Rivoluzione francese allargati allo studio dei movimenti di emancipazione dei neri e delle donne). Fondamentale, inoltre – scrivono Galtung e Inayatullah – è “l’abilità di rimuovere il futuro dalle limitazioni della storia predeterminata e ciclica. Invece, [la macrostoria] dovrebbe creare la possibilità di una spirale, accettando la struttura, ma con la volontà di trasformare la sofferenza associata alla storia”.
Perché abbiamo ancora bisogno della macrostoria
Abbiamo bisogno di macrostoria più che mai oggi per riuscire a superare la visione “patchwork” del mondo che la soffocante compartimentazione disciplinare ci consegna, in cui gli storici non sono più in grado di aiutarci a comprendere il mondo in cui viviamo e contribuiscono a rafforzare la sensazione di un presente incomprensibile, eterno, inesorabile. Ci occorre tornare alla macrostoria perché la storia possa aiutarci a definire le traiettorie di futuro che intendiamo imboccare. Ma ci serve una macrostoria che abbandoni ogni tentazione di individuare presunte leggi deterministiche a torni invece a cercare tendenze.
Una tendenza non è una legge, anche se agisce su una scala di lungo periodo. Le tendenze demografiche, per esempio, definiscono la struttura delle società in cui viviamo, ma non rispondono a leggi deterministiche; ancor di più, le tendenze economiche – i cicli di accumulazione del capitale e di recessione – non rispondono a leggi di natura, ma sono la conseguenza delle strutture sociali. L’attenzione a questa dialettica tra struttura e dinamiche, che si deve a Braudel, è andata persa con la deriva microstorica degli ultimi decenni, mentre i pochi autori che l’hanno portata avanti, come Immanuel Wallerstein, con le sue teorie del “sistema-mondo”, l’hanno fatto nell’alveo della sociologia, anziché in quello della storia, non senza subire la perdurante fascinazione delle spiegazioni puramente economistiche care alla scuola marxista. Jacques Le Goff esprimeva anni fa la speranza “che la scienza storica sia ormai meglio in grado di evitare le tentazioni della filosofia della storia, di rinunciare alle seduzioni delle maiuscole (la Storia con una S maiuscola) e di definirsi in rapporto alla storia vissuta degli uomini”, invitando però gli storici a non cedere alla tentazione di operare una frattura epistemologica “rinunciando a essere senza frontiere e a flirtare con tutte le altre scienze dell’uomo” per ritagliarsi una propria nicchia. Oggi ci troviamo invece a confrontarci esattamente con questo duplice rischio.
Maurice Aymard ha avanzato un’interessante proposta: poiché non possiamo fare a meno dei nuovi strumenti che le hard science hanno messo a disposizione della ricerca storica, perché non guardare piuttosto a “quanto ci hanno offerto, nel corso degli ultimi decenni, le analisi della disseminazione, della biforcazione e del caos, della complessità o ancora l’analisi stocastica”? Strumenti che sfuggono alla tentazione del determinismo, alla generalizzazione, alla ricerca di leggi di natura, e che al contrario “hanno in comune il fatto d’introdurre l’idea stessa di rottura e di cambiamento e di orientare le scienze sociali allo stesso tempo verso rappresentazioni non lineari del tempo e verso analisi delle società in termini di sistemi dinamici”. Seguendo questa proposta, si eviterà forse che la rinascita della macrostoria possa farci cadere negli stessi errori del passato e al tempo stesso aprire una seconda rivoluzione storiografica, di cui abbiamo più bisogno che mai per fare della storia uno strumento decisivo per la nostra ricerca di futuri alternativi alla gabbia del presente.
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