La strana storia della robinia pseudoacacia. Che per quanto si chiami pseudo in realtà è proprio l’acacia.
(Questo testo è tratto da “Non siamo che alberi”, di Filippo Ferrantini. Ringraziamo Effequ per la gentile concessione)
di Filippo Ferrantini
Gli alberi non son tutti della solita razza, né della solita indole – come la gente, del resto. Qualcuno ci può riuscire simpatico, qualchedun altro uggioso o perché no antipatico. Però il rimedio, vien da dire, è bell’e trovato: si sta coi primi, ai secondi gli si dice sul viso d’andarsene per il fatto loro, e chi s’è visto s’è visto.
Il più delle volte, il sistema funziona: finché un bel giorno non s’incappa nella robinia. Da principio l’incontriamo a casa sua, a pigliare il sole in mezzo a un bel pratone: minuta, di chioma ricciolina e foglie morbide e grassocce, d’un bel verde insalata, e di fusto piccolino, curiosamente arabescato da cima a fondo da solchi chiari – ma ci par d’essere ineducati a indugiarci troppo l’occhio. Pare proprio una piantina perbene. Da vicino, poi, riesce ancora più piacevole: con quel colore d’erbetta, quella pelle tenera e pulita, quei ramoscelli morbidi e flessuosi, sempre bene in ordine, facile da prendersi in simpatia, specialmente per noialtri avvezzi alla ruvidezza del pino, alla prepotenza del leccio, al distacco del frassino e compagnia cantante. Scoperto poi che viaggia volentieri, e che non fa storie a trasferirsi, ci vien l’idea di dare mano alla vanga per domandare a questa bella ricciolina se gli facesse voglia di venire a stare un po’ da noi. Tanto più che, i suoi parenti, di storie non ne faranno di certo: s’è scoperto difatti che per famiglia non ha alberi normali, bensì (fatto curioso, curiosissimo) nient’altri che l’ambigua veccia strisciante e la stolida fava selvatica.
La robinia, con mille sorrisini e mille salamelecchi, pare proprio far di tutto per nasconderci l’imbarazzante parentado, ma i più accorti di noi si saranno subito avvisti che quei fruttarelli rinsecchiti, che gli si vedono ciondolare a tratti fra il verde della chioma, altro non sono che baccelli belli e buoni. Di un’altra cosa, altrettanto curiosa, ci si sarebbe dovuti avvedere: e cioè che a quella pianta deliziosa gli altri alberi nemmeno s’avvicinano. Il leccio soprattutto, che, al solito, fra grinte e occhiacci le cose non le manda mai a dire, se ne sta tutto in disparte con su un’espressione indecifrabile: se non lo si conoscesse, si potrebbe quasi pensare che, grande e grosso com’è, abbia paura di quel fiorellino. Questo fatto, le sue inquietanti parentele, persino quel nome brutterello, Robinia pseudoacacia – con quello ‘pseudo’ che sa di falso, di chi dice d’essere e poi non è –, qualche dubbio per il capo ce lo dovrebbe pur far passare.
Ma ci pensa la robinia a scioglierci ogni riserva: fra l’ammirazione generale, eccotela cavar fuori di tra le frasche un grappolo carico di certi fiorellini a boccuccia, bellini da non potersi ridire, tutti di velluto chiaro, che spandono per il campo un profumo così dolce da mandar via di sentimento. Dopo poco, ecco salire per l’aria un ronzio: sono le api del circondario, che, a quel richiamo, sdegnando tutte le altre piante, si scapicollano per arrivar prime. Si scopre che quei fiori straboccano di nettare, da cui si ottiene un miele di gusto morbido e delicato, così differente dalla robustezza di quello del castagno o dall’asciuttezza del miele delle spiagge.
Tanto basta: detto fatto, la robinia vien con noi, trasferita seduta stante, nuova beniamina della Macchia. Lei, tutta contenta, si sdilinquisce in ringraziamenti, ributta ori su fiori, prende persino a farne di colorati, per tornagusto a quelli che i fiori bianchi li avevano presi a noia. Bella e persino utile: gli uomini, davanti a una pianta così, non sarebbero andati tanto per il sottile e avrebbero fatto a raso tutta la lecceta, pur d’averne il bosco pieno. Ma la robinia fa mostra d’aver l’animo grande: i lecci restino pure dove sono, lei s’arrangerà a campare per strada, lungo i viottoli, sui margini degli stradelli, fra la rena e la polvere. La gente sgrana gli occhi: eppure, quella pianticina così delicata, a campare in quel diavoleto ci riesce per davvero – chissà con quanto sacrificio –, pur di non dar pena ai poveri lecci, seguitando persino a regalarci grappoli carichi di ori e quel miele ch’è tutto un elisir. Sgrana gli occhi, ammirata – e li richiude torvi a squadrare la macchiaccia dei lecci, che se ne stanno lì abbrutiti, loro che di fiori non cacciano fuori neppure un petalo gualcito, perticoni buoni al più per fare il pastone ai maiali, altro che nettare e miele – ci si decidesse a buttarli giù, una santa volta, e a far posto a chi se lo merita! Ma di nuovo, la generosa robinia intercede: se non c’è abbastanza di che mangiare, prego, si prendano pure i più preziosi fra i suoi averi, proprio quei bei fiori che tanta fama le hanno portato: li cede volentieri, pur di poterci sfamare. In effetti, pastellati e fritti, riescono un mangiar da re.

La gente è in deliquio: bella, utile, generosa, tutto dà e nulla domanda. Ecco chi dice che è l’albero perfetto, chi la pianta delle piante, chi l’apostrofa albero di paradiso. E chissà che, in quella, il sorriso lezioso della robinia non sia suonato, per la prima volta, un po’ fesso, chissà che non abbia avuto paura, lei, che per associazione la collegassero a un altro albero del paradiso, anche lui presentatosi come bello e utile, amico generoso, ospitato quindi in casa nostra e rivelatosi un mostro: l’altissimo, famigerato ailanto, che ricopre con le sue cineserie da principe d’Oriente una terrificante natura d’assassino.
-->La robinia, però, è assai più scaltrita perfino dell’ailanto, che ormai la gente ha imparato a conoscere e a temere: lei, invece, la salutano tutti, e a tutti quella risponde con scrollate di chioma e zaffate di profumo. Un giorno, poco distante dalla Macchia, capita di dover buttar giù un po’ di bosco per allargare una strada: c’è da ripiantare qualche albero per non lasciar troppa terra scoperta, di modo che non frani giù – e chi meglio della robinia per prendere il posto di quei lecciacci che c’erano prima? Il terreno è di riporto, poco meglio d’una sassaia, ma si sa per prova che quella pianta eccezionale sa venir su anche a casa del diavolo, e per inciso, quest’altra alchimia la robinia l’ha imparata proprio da quella sua ambigua famiglia, i cui pallidi membri striscianti hanno da tempo scoperto come autoconcimarsi, vampirizzando certi microbi di loro conoscenza.
La gente che passa le riguarda con piacere, a volte cercando di rammentare se non gli fossero parse, appena un mese prima, un pochino più picciole o un pochino più rade. In effetti è passato un baleno, e già sembra che di quelle chiome riccioline ce ne siano tante di più. Non solo, ma pare quasi che quelle sagomette grassottelle si siano come stirate, come allungate verso in su e verso in fuori: i rami ben pettinati si aprono adesso di qui e di là, a coprire più terra possibile, senza punto curarsi di far veder le ascelle, e queste ascelle, ora in luce, sono una nota terribilmente fuori di chiave col resto della pianta: chiare da parer giallastre, bruttate – ora lo si vede bene – da smagliature profonde, come sgraffiature d’unghioli. E soprattutto, ce ne sono dovunque: come ti giri, ti ritrovi circondato torno torno di ciocche color insalata, come ti muovi, frasche flessuose ti fregano le spalle, ti solleticano il naso. Fiori, la robinia ne fa ancora, piccoli e bianchicci – i colorati, ormai che è a piede libero, fa mostra di non saper neppure dove tornano di casa – e l’odore dolciastro diventa sempre più penetrante.
Ma è una volta passata la prima curva che la catastrofe, prima solo accennata, si manifesta in tutta la sua gravità. Dal costone scosceso a ridosso della via, a perdita d’occhio, fino ai crinali dei monti, altro non si scorge che frasche e foglie tinte di spaventoso color verde pallido, da cui penzolano osceni baccelli scuri, ingozzati di seme. Dovunque, schifosissimi tronchi screpolati e grinzosi abbrancano la montagna, risalendo su per gli sdruccioli, invadendo ogni forra, fin dove lo sguardo può arrivare. L’aria è satura di greve odore stucchevole. Sono robinie. Hanno distrutto tutto.
Dei lecci, delle farnie, delle roverelle, dei cerri, rimangono a terra le ghiande marcite, a cui quel tetto verdechiaro ha tolto la luce per germinare. Le tracce permettono di ricostruire la progressione dell’invasione: sul pulito, sui ravaneti, sugli spiazzi al solatìo dove altri non potevano crescere (ma le robinie sì, grazie ai loro trucchi da legume) hanno fissato le teste di ponte. Più veloci e aggressive, hanno soffocato via via le querce più giovani, togliendo loro l’aria, drenando il nutrimento dal suolo grazie a migliaia di polloni avventizi, piantati in terra uno dopo l’altro come proboscidi di sanguisughe.
Allo sgomento, alla rabbia e alla disperazione della gente fa seguito la preoccupazione: oddìo, e la Macchia? Di robinie ce ne sono anche lì. Alla Macchia! E via, dunque, spalle alle Mura, occhi fitti verso il mare. Già di lontano, il verde scuro delle chiome dei lecci – adesso, vien da pensare, non ci sono mai parsi tanto belli – lì per lì ci rassicura. Ma ecco, qua e là già s’intravede una fraschetta chiara, s’indovina un tronco smagliato far capolino di tra i cespugli: robinie!
Dar di piglio all’accetta e avventarsi contro quella sfacciatissima traditrice è un tutt’uno. Ma fargliela pagare, a quell’impertinente, leziosa ricciolina, si rivela impresa ardua. Intanto, si scopre che quelle graziose fogliette (in realtà anche loro parti mobili di lunghissime penne aguzzate, come le branche dei frassini) nascondono delle spine asperrime, lunghe quasi un pollice, dolorose e perfino pericolose, a cacciarsele in un occhio. Come ci si trae d’impaccio e si riesce a menare, sembrerebbe finita: al primo colpo quell’orribile troncastro da legume vien giù in mille pezzi. Ma da ogni ceppaia, da ogni radice, subito ricaccia polloni in quantità, più rigogliosi e forti di prima. Tagliati anche quelli, rieccone altrettanti, e, per ognuno che cade, dieci ne prendono il posto: contro quest’idra malefica, la ceduazione non ha pro. Persino ad andar con le ruspe, per far piazza pulita di sopra e di sotto, c’è caso di risortirne con attaccato alle mancine qualche baccello o qualche radichetta, e, magari, finire con lo spargere il contagio altrove. Benissimo, allora: sbarbare non si sbarba, che si provi a mangiarcela… i fiori già ci piacciono, il resto farà da contorno. Ma qui pare quasi di sentirla ridere: tanto i fiori son buoni, quanto le foglie e il fusto sono impregnati d’un veleno da far torcer le budella a chi avesse l’ardire di provarsi d’assaggiarlo.
A questo punto le idee finiscono: rimane la disperazione. Che sia la fine anche per la Macchia? Fosse per noi, sì – tanto imbelli, sciocchi e incapaci ci siamo dimostrati. Ma per fortuna, la Macchia sa ancora arrangiarsi, con o senza di noi. La robinia, s’è visto che vince a man bassa dov’è pulito, ma nel fitto del bosco maturo, e specialmente in lecceta, persino lei segna il passo. Non le resta che sedersi sul limitare e aspettare che qualche vecchio leccione abbia la compiacenza di tirar l’aiolo e liberarle un po’ di posto, per cacciarvi subito il piede e principiare a fare a spallate come suo costume. Ma, i lecci, passano gli anni e son sempre lì, dritti nei loro vestiti scuri, i visi impassibili. Mentre la nostra riccioletta, duole dirlo, non invecchia punto bene. Ahilei, nonostante tutte le moine, i sorrisini, i suoi modi aggraziati, gli insulti del tempo iniziano subito a sentirsi e a vedersi. Il tronco, già butterato, si copre di rughe, efelidi e crepe, il legno debole, più da erbaccia che da albero, cede e si spezza in più punti, e dove rompe inizia a marcire, aprendo la porta ai bachi e ai formiconi legnaioli. Le fogliette verdi ingialliscono, si fanno sempre più rade: la chioma si slaccia, i rametti si piegano, le rame si spezzano. Venisse qualcuno a tagliarla bene al calcio, ributterebbe più splendente di prima: così, invece, inesorabilmente condannata allo sfacelo della vecchiaia, lei tutta giovane e perfetta, finisce per rovinare in segatura, mentre che, per parte loro, i lecci al più si saranno dati una spuntatina ai rami bassi.
La Macchia, per ora, rimane, robinia o non robinia. Certo, il pericolo c’è, eccome, che basta un poco di malgoverno del bosco (un taglio male assestato, una via mal tracciata o peggio fatta) per far spuntar daccapo i riccioli chiari dell’amica. D’altra parte, le robinie han preso piede quasi dappertutto – qualcuno insiste per no a piantarne di nuove, per dabbenaggine o in grazia a quel detto del proverbiale nemico il quale, non potendosi vincere, si vorrà far passare come amico. Ma, per ora, la Macchia regge, in barba agli infestanti che ci buttiamo dentro – regge, non per chissà che virtù oltremondana, ma, più semplicemente, per mera volontà di campare, di fronte alla quale persino la robinia dei mille trucchi, l’onnipossente polimorfo alieno dai poteri fantastici, deve abbassar la chioma. E di nuovo, come in un vecchio libello di fantascienza, il cattivo spaziale si ritrova sconfitto dalle più insignificanti delle cose, tanto semplici e ordinarie quanto può esserlo una monera, un protista, o un arboscello di leccio.
Ma a ripensarci, forse così narrando si rende un cattivo servizio alla povera robinia. Perché la robinia, non dimentichiamocelo, è un albero. E, come tutti gli alberi, non vuole altro che fare il suo mestiere di albero. Non l’ha certo chiesto lei di venir qui a far danno. Fosse dipeso da lei, non si sarebbe neppure mossa da casa sua. E lo stesso vale per il povero (e bellissimo) ailanto. Oggi che è tutto un fiorire di ‘progetti di rinaturalizzazione’, con carrettate di quattrini stanziate in interventi di eradicazione, soppressione, cancellazione delle specie alloctone, questa cosa si tende a scordarla. Gli alieni ci invadono, all’arme all’arme, si principi lo sterminio!, ma la colpa non è degli alieni, per quanto superpotenti essi siano. La colpa è di chi ha aperto loro l’uscio di casa. E il volerla lavar via, questa colpa, col sangue degli stessi alieni, che oggi si macellano col medesimo zelo col quale allora li abbiamo allevati e accuditi, è semmai una vergogna ancora maggiore.
Per cui, alla povera robinia non si può far altro che chiedere scusa, scusa per quello che le abbiamo fatto e che le faremo ancora passare, per la nostra ingordigia e faciloneria, e farle una carezza sul tronco sfiorito. E se ci graffia a con una spina, allora vorrà dire che ce lo siamo meritato.
Molto interessante e scritto divinamente. Complimenti e grazie.