Nell’opera più famosa di Philip Roth c’è qualcosa che, a pensarci oggi, ci può aiutare a capire i nostri tempi. Eventi che non sappiamo spiegarci, come l’invasione russa dell’Ucraina o l’estremismo religioso.
IN COPERTINA Frank Walter, Hypnosis
Cosa rende Pastorale americana di Philip Roth un capolavoro?
Molte cose, si potrebbe sostenere: la narrazione epica, i personaggi indimenticabili, il realismo allucinato della prosa, il sottotesto mitico, l’accuratezza storica, la profondità psicologica. Tutto vero. C’è però un aspetto che fa del libro un’opera unica e – per me – incredibilmente angosciante: lo definirei la “dissonanza cognitiva” al centro del romanzo. O, meglio, al centro della psiche del suo protagonista, Seymour Levov detto “lo svedese”.
La vita di Levov, così come ci viene presentata da Nathan Zuckerman, è perfetta: bello, bravo negli sport, ricco (ha preso in gestione la fabbrica di guanti del padre), ha persino sposato Miss New Jersey, Dawn Dyer. Nei primi anni Sessanta la coppia vive in una casa immersa nel verde, da cui la “pastorale” del titolo.
Com’è noto, il romanzo è il racconto di come questa vita perfetta vada in frantumi nell’arco di pochi anni. La causa apparente della distruzione ha un nome: Merry, la figlia di Seymour e Dawn, una bambina problematica (per lungo tempo la sua balbuzie è l’unica nota stonata nella vita dei Levov) che diventata adolescente durante la Guerra del Vietnam si politicizza e decide di far esplodere un ufficio postale. Da lì in poi quella che ci racconta Zuckerman è una discesa all’inferno: tutto ciò che potrebbe andare male lo fa e Levov sprofonda sempre di più in una spirale di orrore e abiezione che finirà per distruggere quasi del tutto la sua vita.
L’aspetto angosciante del romanzo è che la violenza con cui la vita si accanisce nei confronti di Levov sembra veramente immeritata. Zuckerman, o Roth – sempre che ci sia una differenza – pare trarre un piacere sadico nel raccontare la degradazione di un personaggio che da ogni punto di vista lo si guardi sembra semplicemente buono. Levov non fa niente per fare di Merry il mostro in cui si trasforma. Lui e Dawn sono genitori attenti e affettuosi, e anche dopo quell’atto di violenza che cade così inaspettato nelle loro vite non la condannano ma cercano di capirla. Seymour, soprattutto, prova in ogni modo ad aiutarla, ma più si dimostra comprensivo e più Merry reagisce con rabbia distruttiva. In tutto il romanzo Levov fa quasi sempre la cosa giusta: è responsabile, coraggioso, moralmente retto, autoriflessivo, moderato, tollerante. E ogni volta la risposta che ottiene è più violenta, degradante, oscena. Si ritrova così trascinato in un gorgo, una sabbia mobile nella quale ogni tentativo di sottrarsi dalla catastrofe non fa che accelerarne gli effetti.
Quando ho letto per la prima volta Pastorale americana, ormai oltre dieci anni fa, l’ho fatto con un senso di soffocamento, in apnea. Più andavo avanti e meno potevo credere che tutto quello stesse capitando veramente allo svedese. La crudeltà di Roth mi sembrava senza limiti.
-->Eppure i miei sentimenti nei confronti di Levov erano contrastanti: da un lato inorridivo di fronte alla quantità di dolore apparentemente casuale che gli veniva riversata addosso dagli eventi, ma dall’altro ne godevo sadicamente. Non volevo che gli capitasse qualcosa di male – ma speravo di vederlo crollare definitivamente, e ricordo di aver riso una risata malvagia quando, schiacciato dalla situazione impossibile, perde finalmente la testa e in una scena totalmente allucinata crede di essere Giovannino Semedimela.
Lo stesso mi capitava con Merry, che Zuckerman/Roth presenta come un personaggio negativo sotto tutti gli aspetti: antipatica, poco intelligente, violenta senza una vera ragione, nemmeno del tutto consapevole delle ragioni politiche e delle conseguenze umane del suo gesto… una specie di Raskòl’nikov senza giustificazione filosofica. Eppure mentre leggevo il libro una parte ribelle di me non poteva fare a meno di essere dalla sua. Di pensare qualcosa come: “Brava, Merry, gliel’hai fatta vedere. Se lo meritava, lo svedese”.
Se lo meritava? Non ho detto fin qui che posto di fronte a una situazione impossibile Levov fa sempre la cosa giusta?
Una maniera di leggere la vicenda raccontata in Pastorale americana è attraverso una lente psicologica. Più precisamente, attraverso la lente della psicologia sistemico-relazionale, che non per caso si occupa principalmente di terapia familiare. E che cos’è il romanzo di Roth se non una grande seduta di psicoterapia di tutta la famiglia vista attraverso gli occhi del suo patriarca?
La psicologia sistemica sostiene che il membro della famiglia che sviluppa il sintomo stia accollando su di sé un disagio familiare passato di generazione in generazione. Un caso classico è quello di una famiglia in cui le donne sono sempre state maltrattate: quando l’ultima della stirpe sviluppa una schizofrenia, e magari accoltella il marito nel sonno, sta assumendo su di sé non solo il proprio dolore, ma anche quello della madre, della nonna e giù nei meandri del tempo fino chissà a quale generazione. L’aspetto più interessante è che magari, nello specifico caso, il morto non è colpevole e l’assassina non è una vittima: stanno entrambi mettendo in scena un dramma passato. Il nondetto familiare, il tabù di un gruppo, si incarna nel sintomo psicologico di un membro, che così facendo svela la malattia che albergava nella famiglia – e non per niente la famiglia preferisce di solito mandare quel membro in manicomio, o riempirlo di farmaci, piuttosto che portare alla luce la propria ombra.
Se leggiamo in questa chiave la vicenda di Pastorale americana – e credo sia impossibile non leggerla in questo modo – dobbiamo dedurne che Merry non è il vero problema di Levov. Non è la malattia, ma il sintomo della malattia, lo specchio deformante che mostra allo svedese il suo vero volto. Non è Merry a essere pazza: il vero pazzo è Seymour. O, quantomeno, c’è tanta follia in Seymour quanta ce n’è in Merry. Ecco che improvvisamente tutta la vicenda si ribalta.
Per questo l’aspetto che rende Pastorale americana un capolavoro dell’angoscia è la dissonanza cognitiva di cui è imbevuto: perché se da un lato comprendiamo intuitivamente – quantomeno attraverso il sadismo di Roth – che è Levov il vero personaggio negativo del racconto, e che le disgrazie che gli capitano in serie come piaghe bibliche sono in qualche modo meritate, dall’altro niente nelle sue azioni ci fa pensare realmente che una tale violenza sia giustificata. La mente lo condona, simpatizza persino per lui, mentre i sentimenti vogliono vederlo morto. Siamo a disagio con le nostre stesse emozioni. Vogliamo e non vogliamo la distruzione dello svedese – mi verrebbe da dire che solo uno scrittore radicato nella migliore tradizione ebraica poteva raggiungere questo effetto.
Dicevo che ho letto Pastorale americana per la prima volta oltre dieci anni fa. In questi dieci anni mi è capitato di pensarci spesso, e ci ho pensato ancora un mese fa quando Putin ha invaso l’Ucraina in una mossa così tremenda e assurda (eppure tremendamente, assurdamente vera) da sembrare tratta da un romanzo postmoderno americano della guerra fredda. Un Vonnegut, per esempio, solo che non fa ridere.
Roth ha scritto il libro nel 1997, e ci ha vinto il Premio Pulitzer l’anno dopo. Alla fine degli anni Novanta gli Stati Uniti erano al culmine di quello che allora sembrava un percorso inarrestabile di occidentalizzazione del mondo intero. Si era, letteralmente, a metà strada tra la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la crisi finanziaria del 2008. E naturalmente si era anche a pochissimi anni dagli attentati alle Torri Gemelle. Insomma la situazione era quella di un pedone che ascolta beato la musica nelle cuffie pochi minuti prima di essere investito da un autobus.
Pastorale americana è un libro politico, come lo sono a loro modo molti dei libri di Roth, ed è chiaramente una critica alla bonomia troppo sicura di sé dello spirito americano, sempre convinto di essere dalla parte della ragione e che le cose in un modo o nell’altro andranno per il verso giusto. Eppure la sua ambientazione negli anni Sessanta e Settanta e il fatto di provenire dalla penna di uno scrittore che era diventato celebre nel periodo della guerra fredda mi pare abbiano portato molti lettori a credere che il libro parlasse del passato o quantomeno del presente dell’America. Era un errore: in realtà, Pastorale americana parlava soprattutto del futuro.
Il punto è questo: da anni, ormai da quasi un decennio, ci ritroviamo di fronte a eventi che sconquassano il mondo con la stessa faccia incredula che fa Levov quando sua figlia fa esplodere l’ufficio postale della sonnolenta cittadina in cui abitano. Veramente sta succedendo questo? ci chiediamo, come lo svedese. Ma non è possibile! esclamiamo – sempre come lo svedese. E come lui proviamo a razionalizzare, a comprendere, a non farci prendere dall’emotività e dalla rabbia, o dalla paura. Diamo il beneficio del dubbio, esercitiamo il pensiero critico che abbiamo sviluppato con così tanta fatica, e naturalmente spendiamo parole di tolleranza e apertura, pensiamo che la pace e la diplomazia siano sempre le risposte, eccetera. Proprio come lo svedese. E proprio come nel caso dello svedese, più noi (chi è questo noi? l’Occidente liberale e democratico, o quel che rimane) dimostriamo buone intenzioni, più le cose sembrano andare male. Più cerchiamo di essere ottimisti e più tutto precipita nel caos e nella distruzione. Più ci sforziamo di tenere le cose sotto controllo più questo controllo sfugge e l’entropia prende il sopravvento.
Come nel caso di Levov, ci troviamo vittime di una dissonanza cognitiva: non riusciamo a comprendere come sia possibile preferire ai nostri valori di tolleranza, democrazia e libera circolazione delle merci e delle idee il culto della morte e il fanatismo religioso dell’Isis, ad esempio. O non siamo in grado di spiegarci personaggi come Putin se non attraverso narrazioni manichee. Proprio come Levov con Merry, finiamo per patologizzare ciò che non comprendiamo: quello dei terroristi è nichilismo travestito, Putin è in preda a un delirio di onnipotenza e via dicendo.
(Quella stessa dissonanza cognitiva l’ho esperita io stesso molte volte: come può – mi sono chiesto spesso durante gli anni degli attentati dell’Isis – una ragazza adolescente scappare da una città occidentale, da Londra o da Amsterdam, per unirsi a un Califfato che ne farà una schiava sessuale senza libertà di parola e soggetta alla violenza arbitraria degli uomini? Eppure è successo per anni.)
Qualche giorno ho guardato una lunga lezione tenuta da John Mearsheimer alla University of Chicago nel 2015, pochi mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina orientale. Molti lettori la conosceranno, dato che il video ha oltre venti milioni di visualizzazioni su YouTube e più di quindicimila commenti.
Mearsheimer è tra i più influenti politologi americani della seconda metà del Novecento. È anche uno dei più celebri sostenitori della cosiddetta great power theory, secondo la quale lo scopo della diplomazia è quello di trovare uno stato di equilibrio tra le grandi potenze mondiali. La sua particolare declinazione del concetto, che ha chiamato “realismo offensivo”, sostiene che più la situazione geopolitica si fa anarchica e instabile, più è probabile che una grande potenza si dimostri aggressiva nei confronti degli stati incerti o neutrali per massimizzare la propria influenza. Se vogliamo è una visione cupa, quasi hobbesiana della geopolitica, nella quale la paura di una perdita di potere è la molla che fa scattare l’aggressione. È anche una posizione cinica, perché crede che lo scopo della geopolitica sia quello di mantenere intatti quegli equilibri più che affermare valori o espandere la fratellanza.
Alla luce di questa teoria non è difficile capire cosa pensasse Mearsheimer dell’invasione russa in Crimea e nel Donbass del 2014 né cosa pensi ora (in sostanza la stessa cosa): a suo modo di vedere la causa scatenante del conflitto sarebbe stato il summit di Bucarest del 2008, quando l’allora presidente americano Bush appoggiò la richiesta dell’Ucraina di entrare nella NATO. Secondo Mearsheimer, in quel frangente gli Stati Uniti si dimostrarono tanto inebriati dalla narrazione dominante e convinti che la Russia sarebbe stata prima o poi inglobata nell’espansionismo occidentale da non rendersi conto che Mosca non avrebbe mai tollerato una forza ostile ai propri confini – proprio come gli Stati Uniti non tollererebbero missili russi in Messico o in Canada. Invece che offrirle di entrare nella NATO, secondo Mearsheimer gli Stati Uniti avrebbero dovuto promuovere la neutralità dell’Ucraina, facendone uno stato cuscinetto tra i due blocchi e mantenendo così un equilibrio di potere.
Non ho le competenze per entrare nel merito di questa teoria, che mi pare offra degli spunti interessanti ma altrettante buone ragioni per essere criticata (tra queste forse la principale è che giustificherebbe atteggiamenti imperialistici da parte delle grandi potenze, alle quali viene concesso il diritto di decidere il destino degli stati-satellite: cosa rimane in questa visione dell’autodeterminazione dei popoli?). Gli sviluppi del conflitto sembrano sia confermare che smentire le posizioni di Mearsheimer, visto che da un lato i negoziati di pace sembrano comprendere proprio la neutralità dell’Ucraina ma dall’altro Putin ha cominciato ad attaccare anche città dell’occidente del paese, uno scenario che per il politologo sarebbe stato molto improbabile.
Non è un’analisi geopolitica che voglio proporre, non avendo le conoscenze minime nemmeno per sfiorare l’argomento. Ciò che mi interessa è piuttosto quello che Mearsheimer dice a un certo punto della sua lezione riguardo alla psicologia occidentale. Parlando degli anni successivi al 2008, il politologo se la prende con su un bias cognitivo nella mente collettiva dell’Occidente. Per noi occidentali, dice, è impossibile pensare che il nostro modello di sviluppo non sia il più desiderabile. I politici non comprendono come l’egemonia americana possa non essere considerata “benigna” in altre parti del mondo. La democrazia liberale ci sembra il sistema politico migliore, il più giusto, il più razionale – e se altri non la pensano così se ne deduce che sono retrogradi, o deliranti, o votati a un culto nichilistico della morte.
Ora chiedo al lettore: non la pensiamo tutti esattamente allo stesso modo, su questo punto? C’è qualcuno qui, nel giardino dei lettori di questa rivista culturale, convinto che la dittatura sia meglio della democrazia, o la censura meglio della libertà d’espressione? Significativamente, dall’inizio della guerra in Ucraina Mearsheimer è stato tirato in ballo spesso dagli apologeti di Putin, come se la sua critica alla politica americana fosse ipso facto un endorsement di quella del Cremlino. In tempo di pace si critica spesso il capitalismo e l’egemonia americana, ma in tempo di guerra siamo tutti allineati dietro i valori che ci caratterizzano come civiltà. È comprensibile, se vogliamo, ma ci dice anche qualcosa di quelli che sono i valori fondamentali delle nostre vite e dei confini entro i quali avviene il dibattito nelle nostre società. Il conflitto interno perde qualsiasi spessore quando si allarga la prospettiva: uno dei poteri della guerra, direbbe Hillman.
Il punto è che siamo tutti vittime dello stesso bias: le stesse persone che nel 2003 manifestavano contro l’intervento in Iraq di Bush per “esportare la democrazia” festeggiavano quando nel 2010 Obama dava il via alla primavera araba. Siamo contro la violenza, certo – ma non contro l’idea che la Siria, la Russia o la Cina sarebbero luoghi migliori se fossero democratici. Sappiamo come sono finite le guerre in Iraq e Afghanistan, ma anche la primavera araba è stata soffocata nel sangue dall’ecatombe siriana e ci è tornata indietro sotto forma di terrorismo. Pensiamo sempre, pervicacemente e per ragioni che hanno più a che vedere con la mistica che con la razionalità, che la democrazia finirà per trionfare, perché è giusto che sia così. La realtà, però, ha cominciato a smentirci sempre più spesso.
Questo ci riporta a Seymour Levov.
Ciò che accomuna la scrittura di Roth e le idee politiche di Mearsheimer è il richiamo al realismo. Naturalmente il termine “realismo” indica cose molto diverse in letteratura e in politica, ma tra le due esiste un punto di contatto: l’idea che esista una realtà (qualsiasi cosa essa sia) e che questa realtà sia indipendente dalla volontà degli esseri umani che vi si confrontano. Nel caso di Mearsheimer, il “realismo” si oppone all’“idealismo” – la teoria per cui, ad esempio, sia giusto e auspicabile rendere tutto il mondo democratico. Per quel che riguarda Roth, invece, il realismo ha solo superficialmente a che vedere con l’ambientazione storica accurata o con le estenuanti prime pagine di Pastorale americana dedicate all’industria del guanto nel New Jersey. La realtà, o meglio ancora il Reale, nel libro di Roth è incarnato da Merry, l’entità ribelle che non si lascia sottomettere alla visione idealizzata del padre.
Il realismo hai i suoi limiti, ma generalmente ha anche il pregio di fornire uno specchio che riflette in maniera brutale gli aspetti di noi che non vorremmo vedere. Ricordarci che non possiamo sfuggire alla morte, ad esempio, è spesso un salutare bagno di umiltà, ci aiuta a essere più gentili con noi stessi e con gli altri e a goderci il più possibile il tempo che abbiamo da vivere. Merry riflette con violenza i limiti della personalità di Levov e, per estensione, del mondo in cui è immerso e di cui è epitome. E per quanto le posizioni di Mearsheimer possano suonare giustificatorie nei confronti di Putin e stridere in un momento in cui siamo tutti inorriditi dalle notizie che provengono dall’Ucraina, mi sembra sano mettere in discussione la teoria per cui Putin sta agendo in preda alla follia, e questo anche se è probabile che Putin sia folle e fuori controllo (si può essere lucidi nella follia e folli nella lucidità, come dimostra lo stesso svedese).
Ho detto che in apparenza Levov fa sempre la cosa giusta, ma ovviamente è una lettura superficiale. In realtà, in tutto il corso di Pastorale americana lo svedese non fa mai l’unica cosa che dovrebbe fare veramente – e cioè prendere Merry sul serio, credere veramente che l’essere orripilante che si trova di fronte, intento a fare cose sempre più orripilanti, sia la sua amata figlia. Levov rimane interdetto di fronte alle azioni sempre più estreme di Merry perché non può credere a quello che vede. Il suo è prima di tutto un limite cognitivo: i suoi occhi vedono la realtà ma la sua mente non la registra. Gli manca la capacità di comprendere la propria Ombra – e quando Merry gliela fornisce non riesce a credere che quell’Ombra sia proprio la sua. Il bias della sua vita perfetta, dei suoi valori americani, è così profondamente programmato nel suo cervello che non è in grado di percepire la realtà che lo disconferma in maniera sempre più plateale. In questa incapacità di comprendere, prima ancora che di agire, si trova tutto il nucleo drammatico di Pastorale americana.
Dunque non è poi difficile capire perché Merry diventi sempre più violenta e incontrollabile man mano che il romanzo prosegue, né perché i tentativi messi in atto dallo svedese per recuperarla siano destinati a fallire : perché, di fatto, Levov ne sta ignorando il messaggio. La violenza di Merry è proporzionale alla violenza che lo svedese impiega per non mettere in discussione i propri valori.
Qui la psicologia ci torna in aiuto. Roth ci mette volontariamente nella mente di Levov, facendoci vivere il suo dramma dall’interno. Di conseguenza (e anche perché come abbiamo visto tutti noi occidentali siamo almeno in parte Seymour Levov, o aspiriamo a esserlo) siamo portati a credere che lo svedese sia la vittima della vicenda. Ma il suo bias, e su questo Zuckerman/Roth non lasciano spazio al dubbio, non è solo ingenuità: è anche una forma di colpevolezza. Da un certo punto di vista, Levov ha davvero avuto ciò che si meritava.
Questo non vuol dire naturalmente che l’Occidente si meriti Putin – e ancora di meno che la popolazione ucraina si meriti la sua folle, orrenda guerra. Ma Putin, come tanti altri dei nemici dell’Occidente eletti a turno (Bin Laden, Gheddafi, Saddam Hussein solo per menzionarne alcuni tra i più recenti) non è comparso dal nulla come un cattivo dei fumetti. Putin è quello che nel 2002, vent’anni fa, non si faceva scrupoli a uccidere 130 civili russi nel teatro di Dubrovka per piegare la resistenza cecena, che ha ordinato l’omicidio di Anna Politkovskaya, che in Siria sparava contro la popolazione in fuga nei corridoi umanitari, che ha invaso l’Ucraina già una volta nel 2014, che ha interferito con le elezioni americane del 2016 e con il referendum di Brexit, che a più riprese nel corso degli anni non ha esitato ad avvelenare dissidenti in territorio occidentale, che da anni lavora in maniera aperta per destabilizzare non solo le democrazie europee e americane ma il concetto stesso di democrazia. Perché ci stupiamo del fatto che abbia invaso un paese sovrano, e che stia combattendo una guerra sporca, spietata, nichilistica, senza rispetto per le norme internazionali o per la vita umana? Perché sembriamo sconvolti dall’ipotesi che minacci di usare armi chimiche o addirittura la bomba atomica – o persino se dovesse usare veramente armi chimiche o la bomba atomica?
Ogni volta che crolla un pezzo dell’idea di Occidente nata dopo la fine della seconda guerra mondiale mi viene in mente lo svedese di Roth e la sua incapacità di comprendere la realtà del mondo che lo circonda. Oppure la scena di Sottomissione di Houellebecq in cui gli accademici parigini discutono di questioni dotte cercando di ignorare le bombe che esplodono alla periferia della città, o ancora il finale di Red Pill di Hari Kunzru, un romanzo in cui un raffinato scrittore newyorkese rischia di impazzire quando cade nelle spire di un gruppo dell’Alt-Right determinato a sovvertire la democrazia. Nel finale il protagonista si ritrova a seguire le elezioni presidenziali del 2016 con la moglie Rei e riflette così:
Finora ci sono stati due binari o due linee temporali diverse: quella in cui viviamo io, Rei e i nostri amici […], nella quale il futuro è prevedibile, un progresso costante nel quale ci trasformiamo progressivamente nelle nostre madri e nei nostri padri […]. E poi c’è la seconda linea temporale, il tracciato occulto nel quale questa normalità è solo un labile schermo steso sopra qualcosa di sanguinoso e atavico che sta risorgendo dal buio della storia per venire a incontrarci.
Eccola qua, di nuovo, la dissonanza cognitiva, i due binari paralleli che non riusciamo a riconciliare. Mi sembra sia ora di prendere finalmente atto che questo “qualcosa di sanguinoso e atavico” esiste e non può essere cancellato dalle idee pseudoreligiose di progresso infinito o dal pensiero magico, di guardare nello specchio e riconoscere l’Ombra che non vogliamo vedere. Solo in questo modo si ricompone la dissonanza in cui viviamo. Altrimenti saremo destinati a sprofondare come civiltà sempre in un vortice di orrore e di caos, proprio come lo Seymour Levov.
Giustamente altri commenti fanno notare l’assenza di Putin da questa lunga analogia. La mia idea è che dovremmo di nuovo imparare a distinguere il bene dal male, la democrazia (migliorandone gli aspetti decadenti e totalitari nel controllo indiretto via web) dalla tirannia. Manca anche il riconoscimento delle “zona grigia” di cui parlava Primo Levi a proposito del “silenzio degli innocenti” a proposito di hitler. Ecco, io vedrei piuttosto Levov come uno degli “innocenti grigi” di Levi. E terrei anche conto del fatto che ci furono persone che come i partigiani (quelli veri, non quelli divenuti tali il 24 di aprile 1945), o come il teologo Bonhoeffer che partecipò al tentativo di assassinare hitler, agirono contro il male anche a costo -più che di diventare degli eroi tardo romantici- di assumere su loro stessi il “male”, ovvero di commettere il male (cioé contrastare con le armi) per fermare il male. Citerei anche questa riflessione – molto pragmatica e poco idealista e psicologica- di Churchill, rivolta ai Chamberlain “grigi” che cercarono la pace di Ponzio Pilato e ottennero una guerra peggiore di quella che sarebbe stata se si fosse fermato il nazifascismo (e lo stalinismo) un anno prima: “…Non pensate che questa guerra sia la fine. È solo l’inizio della resa dei conti. È solo il primo sorso, il primo assaggio di una bevanda amarissima che ci sarà offerta, anno dopo anno, finché con un estremo ritorno di salute morale e impegno militante non ci risolleveremo e torneremo a difendere la libertà come un tempo…Perché la difesa della pace dipende dall’opporsi agli aggressori, insieme a un sincero sforzo di eliminare ogni possibile ingiustizia…Se un despota vi chiede danaro puntandovi addosso una pistola, non appena lo consegnate ve ne chiederà ancora, poi, dopo un negoziato diplomatico, si accontenterà di quel che ottiene, solo per tornare a ricattarvi in futuro”.(Winston Churchill).
Mi pare di capire che il nostro mostruoso inconscio atavico più o meno passato (dell’occidente liberale e capitalista credo) si incarni con ferocia nei panni di culture e nazioni altre diverse e queste manifestazioni totalizzanti devono essere sterminate annichilite per fare pace con la nostra pax animica e democratica… più che dissonanza cognitiva mi pare dissociazione un tantino schizofrenica. Faccio umilmente notare che le passerelle degli inquilini della white house in giro per il pianeta, i Bush Clinton Obamiani hanno lasciato sul suolo circa seimilioni di petali umani oltre a decini di milioni di profughi. Senza scomodare Freud qualche domanda sarebbe meglio farsela?
Credo lei confonda i sei milioni di “petali” ebrai uccisi nelle camere a gas dei nemici dei “liberali e capitalisti”, con il numero di morti dovuti alle guerre di liberazione dalle dittature, condotte (non senza gravi errori, è chiaro) da Bush, Clinton e Obama. Persino nella guerra più contestata, la seconda contro Saddam Hussein in Iraq, ci sono state ragioni serie -e nessun interesse geopolitico o di regime change o di conquista di territori. In Iraq i “pacifinti” dimenticano sempre di ricordare che Saddam era leader di un partito già alleato dei nazifascisti, che pagava 25.000 $ a ogni famiglia di terrorista che faceva saltare in aria bar, scuole e ristoranti israeliani, che reprimeva la maggioranza sunnita nell’Iraq, che mandava aerei sui villaggi dei curdi iracheni per lanciare su di loro gas chimici mortali, che aveva invaso il Kuwait, stato sovrano. Tutto ciò in un silenzio incosciente da parte dei politici pacifinti del mondo, che diventò ululato continuo non appena si cercò (riuscendoci ma con errori) di toglierlo di mezzo.Leggere A. Glucksmann “Occidente contro Occidente”, utile anche per meglio comprendere l’aggressione russa contro l’Ucraina. P.S. Il liberalismo non ha nulla di “mostruoso”: è storicamente l’unico movimento di sinistra non finto e non populista (vedi Giustizia e Libertà i radicali etc.), e parte da un concreto concetto delle miserie umane e del modo per contenerle.
Ottima riflessione. Lucida e molto pertinente. Un tassello in più per leggere e capire Roth e il mondo in cui viviamo.
Tutto vero, giusto è condivisibile. Ad oggi, a mio avviso l’errore che fanno molti intellettuali che si riconoscono in questa narrazione è il giustificare Putin, cosa ancor più delirante e patologica di come ci siamo visti noi, occidente, incapaci e miopi in tutti questi anni, che abbiamo indossato il costume di un supereroe della Marvel che salva il mondo dalle dittature.
Se è vero come è vero che Putin andava delegittimato ed escluso da ogni relazione internazionale alla prima avvisaglia di squilibrio allora la sua presenza pericolosa per gli equilibri politici e minaccia per l’intera Europa legittima anche oggi la presenza della NATO? E’ un cane che si morde la coda. Non avremmo bisogno della NATO se non ci fossero più pericolosi dittatori come Putin; la presenza della NATO induce il delirio espansionistico di Putin. Soluzione? Dire che Putin ha fatto quello che ha fatto perchè noi occidentali lo abbiamo incalzato e non siamo stati capaci di prendere sulserio le sue minacce, veramente? Quanto è imbarazzante questa risposta?
Bellissimo articolo, però mi permetto il primo consiglio che si dà anche in psicoanalisi è quello di riconoscere l’Ombra, riconoscere di avere un problema, etc … e dopo?
Bellissimo articolo. La conclusione, però, delude. Putin/la figlia sono prodotti del contesto/sistema – la psicologia sistemica serve davvero per la figlia. E per Putin? Conoscenza della élite Russa, di come vede il mondo e specificamente gli USA e il sistema globale: si veda Anatol Lieven nel Financial Times (13 marzo 2022). Quindi riconoscere l’esistenza del atavico/sanguinoso non è sufficiente se non si riconosce che sia parte di noi. Cioè nonostante l’autore conclude parlando di specchio e Ombra, pare che soprattutto vuole che noi riconosciamo, controlliamo e battiamo quest’Altro. Mentre siamo noi, apparentemente tolleranti, democratici, il problema. Parliamo un po di Weber, delle sue categorie del capitalismo. Abbiamo un sistema non del tutto basato sulla ‘libera circolazione..’ ma uno basato su oligopoli, “crony capitalism”, oligarchie. Gli anni del democrazia ‘vera’, sia solidali che liberali, sono passati. La redistribuzione dai ricchi a “i più” (the many) – non c’è più. Il grande anti-Comunista, George Kennan, aveva ragione. La NATO andrebbe stato dissolta 30 fa.
(Scusate il mio italiano molto imperfetto. Spero che sia comprensibile/accettabile.)
“Il nondetto familiare, il tabù di un gruppo, si incarna nel sintomo psicologico di un membro, che così facendo svela la malattia che albergava nella famiglia – e non per niente la famiglia preferisce di solito mandare quel membro in manicomio, o riempirlo di farmaci, piuttosto che portare alla luce la propria ombra.”
Una considerazione che faccio mia e che riflette un andazzo sociale malato e, come nel caso americano, con la convinzione che l’egemonia americana sia il Bene.