La verità su tutto



Pubblichiamo un estratto dell’ultimo romanzo di Vanni Santoni, “La verità su tutto” (Mondadori).


In copertina, delle opere di Hilma Af Klint

Questo testo è tratto da  “La verità su tutto” di Vanni Santoni. Ringraziamo Mondadori per la gentile concessione.


di Vanni Santoni

Furono giorni di freddo. Di dura meditazione. Anche di fame, sebbene mi fossi abituata a sostenermi con poco, e scoprissi che dal digiuno può sorgere una certa chiarezza. 
Lo dico senza retorica: a parte quei momenti, avere fame è brutto, e avere freddo è anche peggio, né è bello immaginare che tutti pensano che tu sia impazzita. Più di una volta fui a un passo dal cedere, vuoi per il freddo e la prostrazione, vuoi per la sensazione di non star procedendo quanto speravo, vuoi per il peso latente dello stare facendo qualcosa di assurdo. La prima volta, e così altre tre in cui l’anima tremava, mi aiutai con un quartino di uno di quegli acidi che mi avevano dato Sonia e Pinto. La meditazione e gli psichedelici hanno un’affinità naturale, guardano nella stessa direzione. È abbastanza logico, visto che un’esperienza psichedelica pienamente riuscita reca in uno stato di “connessione col tutto” analogo a quello del nirvana o nirvikalpa samadhi che dir si voglia, ma l’esperimento andò oltre le mie aspettative. Anche con una dose molto bassa, che normalmente non avrebbe quasi avuto effetti visionari, la combinazione con la meditazione non si limitava a far esplodere, come è naturale, solo la capacità di visualizzazione, ma rendeva anche molto facile entrare rapidamente in un virtuoso stato di samadhi. Certo, il problema era che poi, il giorno dopo, da quello stato se ne usciva, ma quelle quattro sessioni “sostenute” mi aiutarono a ritrovare il passo giusto. Mi aiutarono anche le riletture: quei soli sette libri non mancavano mai di confortarmi: la Gita con la profondità; i Vangeli con l’umanità; il Vivekachudamani con la chiarezza; lo Yogasutra con la fiducia; Etty, Dolcino e il Pellegrino russo, ognuno a suo modo, con l’ostinazione. E ostinata insistevo in quel percorso, che Patañjali diceva essere nient’altro che lo spegnimento del turbinio della coscienza. La coscienza, quell’instancabile costruttrice di storie a partire dal passato, e di aspettative (e quindi desideri) a partire dal futuro: un ragno posizionato a tessere le sue tele in mezzo a due inesistenze, giacché solo il momento attuale, il qui e ora, esisteva… Si faceva presto, a dirlo. Non era difficile neanche capirlo: così come non siamo il nostro corpo (e fin qui ci si arriva facile), non siamo neanche la nostra coscienza. Benissimo. Il problema era esperirlo… In altri momenti, invece, quando uscivo nella piccola radura al momento in cui sentivo cessare lo scroscio di un piovasco, quando il sole entrava dalle finestre e mi ritrovavo circondata dall’oro assieme ai ragni negli angoli alti, o ancora quando uscivo per pisciare nel bosco e camminando sulle foglie dimenticavo dove fossi, cosa mi avesse portato lì, cosa potessero pensare mio padre e Laura a casa loro, o Franca in dipartimento, e mi limitavo a essere, i dubbi scomparivano e mi trovavo in una condizione benedetta, che però rapidamente svaniva appena ne prendevo atto, e subito lì entravano in campo l’ironia, il facile distacco da donna della mia epoca, il dirmi che è solo un effetto della protratta solitudine… E se anche fosse stato così? Confermava che la mia scelta era stata giusta. Non è mai un buon segno, però, quando una deve autogiustificarsi, dirsi di aver fatto bene a far quello che ha fatto… Tanto più che ero partita da una ricerca sul rapporto tra relazioni ed etica, e mi ero ritrovata da sola… Facile, non fare male a nessuno, se non c’è nessuno nel raggio di chilometri… Quando mi trovavo a rimbalzare in simili pensieri, attivavo il mantra e la preghiera del pellegrino – e in quello, almeno, nel farmi ritrovare il centro, funzionavano…

Poi accadde qualcosa. Come descriverlo? Il punto è precisamente che non lo si può descrivere. Che sfugge alla dittatura delle parole. Si può provare a descrivere cosa c’era subito prima e subito dopo, e cosa c’era attorno o di cosa s’aurava quello stato. C’era, prima, una sorta di nostalgia profonda, come d’infanzia o di stati prenatali, eppure stellari. C’era molta geometria, all’inizio: frattali, certo, e solidi platonici e strutture concentriche, geometrie non-euclidee e teste paradivine ricombinanti e strappi nel tessuto della coscienza che conducevano a passaggi fatti, essi stessi, di senso; c’era una caverna – troppo facile dire “platonica”? Di certo lì si originavano a faglie le categorie, si annidavano laboriosi i facenti funzione delle cose, ma si poteva andare oltre, molto oltre: si era in uno stato che quanto più si faceva puntiforme, tanto più era immenso, infinito, onnicomprensivo, beato e indifferenziato; c’erano, o c’erano stati, simboli in foreste e in piogge e in planimetrie, e in schemi di complessità e limpidezza da far ribaltare gli occhi e gorgogliare la bocca, e prima ancora di metterli a fuoco già cantavano in una corte rotante, come serafini, per poi mutare in nimbi e disperdersi in fiori sparsi e altissime flamule, come costellazioni perdute, dimenticate… E si può dire, forse, cosa non c’era, non c’ero più io in quanto Cleo, o in quanto mente: il ricevitore si faceva messaggio, l’antenna trasmissione; l’io cadeva come una crisalide, l’ātman si congiungeva col brahman… Se c’è qualcosa che dobbiamo al sistema vedico è una tassonomia non dico adeguata ma almeno atta all’avvicinamento; ma non potevo pensare, allora, quelle cose, perché non ero più pensiero ma essenza, essere non-pensabile e non-dicibile, e per questo non più essere, ma non-essere: ero tutto, ma quel tutto era molto più di quel che contengono le filosofie o gli universi, era un traboccare… E grazie a quella tassonomia, quando finì – perché finì, lasciandomi in uno stato che secondo altre tassonomie avremmo potuto definire di grazia, così come la lingua ardente che mi prese e trasportò dentro il dentro che era in me e in tutto, aveva un che di pentecostale, era logos e prana e aura, ma introiettata come un cubo che si fa tesseratto, era il verbo ma come lo generavo lo abitavo, era l’abitabilità del verbo, qualunque cosa volesse dire ciò che “sentivo” prima del ribaltamento ultimativo –, quando finì pensai, accettandolo con un’umiltà di cui non mi credevo capace, perché capii che non avevo le proporzioni di niente, che, sì, poteva essere quello che fu chiamato samadhi, ma quel vago senso di mancanza che era insito nel suo essersi, comunque, concluso, in modo quindi simile alle cosiddette “esperienze mistiche”, mi diceva che poteva essere, al limite, il savikalpa samadhi, il nirvana condizionato e non permanente, e non ancora il nirvikalpa samadhi, quello finale e perfetto, ma tanto bastava a riempire il cuore di una gratitudine spropositata – e a far nascere nella mente, plasmata da anni e anni di razionalismo, quando non di materialismo, un dubbio: stavo dando di brocca? Ma anche una risposta: no. E anche un’intuizione: l’amore (per quanto suoni svuotata, nel discorso comune, quella parola). Quello stato aveva in sé un carattere e una scintilla, non era un infinito speculativo, un campo assoluto neutro, ma una dimensione attiva, dove c’era gioia e c’era amore, e la mancanza, forse, era solo nella qualità del mio abbandono… Mi scoprii a singhiozzare di gratitudine e di amore per tutto e tutti, e di inadeguatezza, sì, di inadeguatezza rispetto a quell’enormità, mentre riapparivano l’albicocco e la larva e il caminetto, riapparivano i ragni negli angoli e le pareti di pietra e il mio letto lì dietro e gli alberi dritti in allarmata schiera oltre le finestre…


Vanni Santoni – (n. Montevarchi, Arezzo, 1978). Laureato in Scienze politiche, ha esordito nel 2007 con il libro sperimentale  Personaggi precari. Nello stesso anno ha fondato il progetto SIC (Scrittura Industriale Collettiva), che lo ha portato a pubblicare, nel 2013, il romanzo storico In territorio nemico. Tra gli altri scritti: Gli interessi in comune (2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (2011), Muro di casse (2015), La stanza profonda (2017), I fratelli Michelangelo (2019) e il testo La solitudine della verità, pubblicato nel volume collettaneo L’agenda ritrovata. Sette racconti per Paolo Borsellino (2017). S. è anche autore di testi fantastici ai quali a volte aggiunge al suo nome la sigla HG – Humanis generis, in omaggio a G. MorselliTerra ignota (2013), Terra ignota 2 – Le figlie del rito (2014) e L’impero del sogno (2017), oltre che del romanzo La verità su tutto (2022, premio Giuria Viareggio-Rèpaci). Collabora con il Corriere della Sera.

1 comment on “La verità su tutto

  1. Matteo

    Io Vanni lo vidi per caso ad una conferenza a Lucca comics per un dibattito sul suo La stanza profonda, e conosco poco altro, di suo. Mi sono fermato a metà lettura di quella che avete riportato qui sopra, perché mi è risultata talmente interessante da non voler anticipazioni e prendere il suo ultimo libro. Articolo riuscito, direi.

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