La via dell’ignoranza

Crediamo di possedere una grande conoscenza sul mondo, ma la sua principale utilità è delineare i confini della nostra ignoranza.


IN COPERTINA e nel testo, Victo Ngai, Knowledge Broker (2017)

Questo testo è un estratto da Il fuoco della fine del mondo di Wendel Berry, ringraziamo Aboca per la gentile concessione.


di Wendel Berry

“Per arrivare a ciò che non sapete dovete andare per una via che è la via dell’ignoranza.” 

T.S. Eliot, East Coker

Il nostro scopo, qui, è di richiamare una preoccupata attenzione sul fatto che, in un periodo in cui la tecnologia ha un potere tanto grande, stia prevalendo la convinzione che gli esseri umani siano già giunti a possedere, o siano comunque molto vicini o possedere, tutte le conoscenze necessarie per prevedere e prevenire tutte le cattive conseguenze che dall’uso di quel potere potrebbero derivarle. Questa convinzione trova una sua formulazione esemplare nelle parole di Richard Dawkins, che, in una lettera al Principe di Galles, asserisce che “le nostre menti sono abbastanza grandi da vedere nel futuro e tracciare le conseguenze a lungo termine”. 

Quando si passino in rassegna i casi di errori nelle previsioni sul futuro dei nostri maggiori esperti e se ne consideri il numero e la tendenza a riproporsi anche in tempi assai recenti, nonché la frequenza con cui il futuro tende ad anticipare ogni nostra previsione, recandoci notizie non buone in merito al nostro passato, il giudizio espresso dal signor Dawkins sulla nostra capacità di conoscere si rivela una credenza ingenuamente superstiziosa, del tipo più primitivo. Vi riconosciamo anche i tratti di una nostra vecchia compagna, la hybris, quell’empia ignoranza ammantata da un’esibizione di divina arroganza. L’ignoranza sommata all’arroganza con una sostanziale aggiunta d’avidità è la sponsorizzazione ideale per “una vita migliore con la chimica” e la produzione del buco dell’ozono e della zona morta del Golfo del Messico. Una scienza moderna (chimica o fisica nucleare o biologia molecolare) “applicata” grazie a un’arroganza ignorante somiglia anche troppo a un’automobile guidata da un bambino di sei anni o a una pistola carica maneggiata da una scimmia. L’ignoranza arrogante promuove un’economia globale, ignorando il corteo globale di infestanti e malattie che devono necessariamente accompagnarla. L’ignoranza arrogante fa la guerra, senza avere la minima idea della pace. 

Noi la identifichiamo per la sua radicata disposizione a lavorare sempre su una scala troppo grande, mettendo quindi sempre troppe cose a rischio. Non le riesce di prevedere le cattive conseguenze, non solo perché ogni atto ha qualche conseguenza non prevedibile, ma anche perché molto spesso gli ignoranti che sono anche arroganti sono accecati dal denaro che hanno investito: non possono permettersi di pensare che le cattive conseguenze siano prevedibili. 

A parte il caso degli arroganti nell’ignoranza, l’ignoranza in sé non è un tema semplice. Può darsi che, per l’ignoranza, prendere coscienza di sé sia altrettanto difficile di quanto lo sia per l’autocoscienza stessa. Un serio esame dell’ignoranza non si potrebbe comunque neppure iniziare, senza prendere prima in considerazione le diverse varietà in cui è disponibile. Ne offrirò qui, dunque, una beve tassonomia. 

C’è, in primo luogo, quel tipo d’ignoranza che potremmo considerare inerente o intrinseca. Si tratta dell’ignoranza di tutto ciò che per noi è impossibile conoscere, per il tipo di mente di cui disponiamo; la quale, come noterò poi di passaggio, non è un computer né si limita esclusivamente a essere un cervello e non è certo onnisciente. Per fare un esempio, non possiamo conoscere il tutto di cui noi e le nostre menti facciamo parte. La poetessa e critica inglese Kathleen Raine ha scritto che “non possiamo immaginare come le cose potrebbero apparire se non possedessimo la base di conoscenze che attualmente possediamo; né, nella natura delle cose, potremmo riuscire a immaginare come la realtà potrebbe apparirci alla luce della conoscenza che non possediamo”. 

Una parte della nostra ignoranza inerente, che è naturalmente un grave intralcio per tutti quelli che presumono di poter conoscere il futuro, è la nostra ignoranza del passato. Del modo in cui fu effettivamente vissuta la nostra storia noi non sappiamo quasi niente. Persino della vita dei nostri genitori sappiamo in verità ben poco. Di quello che è capitato a noi abbiamo dimenticato quasi tutto. La nostra facile convinzione di aver comunque ricordato le persone e gli eventi di maggiore importanza e di aver conservato le testimonianze di maggior valore è smontata immediatamente dalla nostra incapacità di convalidarla con un confronto con quello che abbiamo dimenticato e non possiamo recuperare. 

Ci sono poi diversi altri tipi di ignoranza che non ineriscono alla nostra natura, ma sono invece il risultato di una nostra debolezza di carattere. In questo gruppo emerge in posizione dominante quell’ignoranza consapevole che nasce dal rifiuto di onorare come conoscenza tutto ciò che non sia garantito da una verifica empirica. La potremmo anche chiamare ignoranza materialistica. Questa ignoranza rifiuta conoscenze utili, come quelle tradizionali dell’immaginazione e della religione, e così sembra essere una forma di ristrettezza mentale. Ci troviamo attualmente a soffrire del monopolio di una cultura materialistica, perché un tipo di mondo esclusivamente materiale è proprio il tipo di mondo che più agevolmente può essere usato e abusato dal tipo di mente che i materialisti ritengono di possedere. Per quel tipo di mente, non è più accettabile una meraviglia che si possa definire legittima. Allo stupore meravigliato deve subentrare un’agenda per la definizione di una ricerca risolutiva, che è comunque a un mondo intero di distanza dalla dimostrazione dell’impossibilità o inopportunità del meravigliato stupore. Gli ambientalisti d’impostazione materialista avrebbero il dovere di spiegarci come una cultura materialistica possa giustificare il proprio disprezzo e la propria distruttività nei confronti di beni materiali. 

Un altro tipo di ignoranza collegata alla precedente e anch’essa autoindotta è l’ignoranza morale, la cui scusa invariabile è l’obiettività. Uno degli scopi dell’obiettività è, in pratica, quello di evitare che si giunga a una qualche conclusione morale. L’obiettività, che in genere viene considerata segno di profonde conoscenze e del possesso di una mentalità molto illuminata, ama presentarsi e farsi riconoscere con dichiarazioni del tipo “tu puoi anche avere ragione, ma d’altro canto la può avere anche la tua controparte”, oppure “tutto è relativo”, o anche “tutto quello che sta accadendo è inevitabile” oppure “lasciatemi fare l’avvocato del diavolo” (la parte dell’avvocato del diavolo è certamente uno dei ruoli più ambiti tra i pensatori arruolati nei servizi di sicurezza dell’industrialismo. Dovunque vi rechiate per difendere qualcosa che merita di essere difeso, avrete buone probabilità d’incontrare un savant sorridente, percorso da un brivido in cui si manifesta l’estro dell’obiettività: “lasciate che per un momento faccia l’avvocato del diavolo”, come se il punto di vista del diavolo, altrimenti, non avesse nessun rappresentante). 

C’è anche l’ignoranza come falsa confidenza, o ignoranza polimatica. Questa è l’ignoranza di quelli che sanno “tutto riguardo a” la storia e le sue “conseguenze a lungo termine” nel futuro. E qui ci avviciniamo veramente molto all’ignoranza della presunzione ipocrita, che è l’incapacità di conoscere se stessi. L’ignoranza di sé e la conoscenza compiaciutamente sicura del passato e del futuro tendono spesso a identificarsi. 

L’ignoranza impaurita è l’esatto contrario dell’ignoranza confidente in se stessa. La gente si chiude e si difende nella propria ignoranza, perché ha paura di quanto è strano, o diverso o ignoto; per paura di imbattersi in smentite, disillusioni, rivelazioni spiacevoli o tragiche; per paura di sollevare sospetti e diffidenze, o per paura di avere paura. Un buon esempio lo offre il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, con la sua gestione monopolistica di un sistema di controlli sulle carni assolutamente inadeguato perché sconvolto da un panico paralizzante. C’è poi la connessa ignoranza derivante dalla pigrizia, che è poi paura degli sforzi e delle difficoltà. Spesso capita che imparare non sia affatto divertente e questo è noto a tutti, con l’eccezione di un gruppetto di “educatori”. 

Ci sono poi l’ignoranza per-il-profitto, che viene mantenuta inibendo la conoscenza corretta, come capita con la pubblicità, e l’ignoranza per-il-potere, mantenuta grazie ai segreti di Stato dei governi e alle pubbliche menzogne. 

I vari tipi di ignoranza (più numerosi di quelli che ho elencato) possono quindi essere distinti fra loro. Una volta che si siano distinti, però, è necessario rimetterli tutti nel mazzo e scozzarlo, restando ben consapevoli del fatto che tutti possono essere presenti in una stessa mente e nello stesso momento, come, secondo me, capita abbastanza spesso. 

La sto forse facendo troppo lunga, ma quello che vorrei dire è che un elenco delle varietà d’ignoranza copre la descrizione della metà di una mente umana. All’altra metà, quindi, provvede l’elenco delle forme di conoscenza. 

In testa a quell’elenco mettiamo pure la conoscenza empirica o verificabile dei materialisti. È la conoscenza di una morta certezza o di fatti senza vita, che ha, in parte, almeno un qualche, indubbio valore, una qualche, indubbia utilità, ma risulta, anche nel migliore dei casi, piuttosto statica e riduttiva e resta sempre quella che sempre è stata, ossia opaca e piatta. Un fatto può procurarci un brivido la prima volta, mai la seconda. Quando i fatti siano disponibili, si va in caccia di una preda troppo facile: la potremmo chiamare la conoscenza della fila di paperelle-bersaglio del tiro a segno. Torna a farsi interessante quando, tradotta nell’utilizzazione pratica, incontra di nuovo l’esperienza. 

E allora, come seconda, mettiamo la conoscenza per esperienza. Questa è conoscenza utile, ma comporta incertezza e rischio. Come si fa a sapere se sta per piovere o se un animale si chiuderà in difesa o partirà all’attacco? L’evento non si è ancora verificato, quindi non abbiamo una risposta empirica e può darsi che il tempo concesso alla scelta sia tanto breve che nemmeno il più veloce dei computer riuscirebbe a fornire in tempo utile il calcolo delle rispettive probabilità. Bisognerà affidarsi all’esperienza, che accrescerà le probabilità di indovinare. Ma ci si potrebbe anche sbagliare. 

L’esperienza di molte persone, in un ampio arco di tempo, è la conoscenza tradizionale. È la conoscenza comune che si possiede in una cultura, quella che sembra ormai possesso solo di pochi tra noi. Perché ci possa essere una cultura è necessario che, in uno stesso luogo, un’ampia maggioranza di persone rimanga stabilmente per la maggior parte di un lungo periodo di tempo. La conoscenza tradizionale è una conoscenza che si ricorda o si registra, trasmessa da una generazione all’altra, ponderata, corretta, praticata, rifinita, nel corso di un lunghissimo periodo di tempo. 

Un tipo di conoscenza connesso a quella tradizionale è quella resa disponibile dalle tradizioni religiose, non accessibile per altre vie. Se siete preventivamente convinti che tale conoscenza sia falsa, ovviamente non la possedete e ogni vostra opinione su di essa non ha alcun valore. 

Ci sono anche tipi di conoscenza che sembrano essere più profondamente interni a un essere umano. Un istinto è una forma innata di conoscenza: come succhiare, mordere, inghiottire; come correre allontanandosi da un pericolo, invece di andargli incontro. E forse le preposizioni si riferiscono proprio a una conoscenza che è più o meno istintiva: su, giù, dentro, fuori e così via. 

L’intuizione è una forma di riconoscimento, un conoscere senza prove. Conosciamo la verità del Libro di Giobbe per intuizione. Quella che chiamiamo coscienza morale è la conoscenza della differenza tra giusto e sbagliato. Che sia appresa o no, la maggioranza della gente ce l’ha e si ha l’impressione che ne entri in possesso abbastanza presto. Alcuni tra i peggiori malviventi e i peggiori ipocriti la possiedono pienamente: come farebbero, se no, a mentire tanto bene? Ma dovremmo anche ricordarci che alcune degne persone hanno creduto che la coscienza morale fosse innata, fosse una “luce interiore”.
Credo che anche l’ispirazione sia una forma di conoscenza o almeno una via d’accesso alla conoscenza, anche se non so proprio come si potrebbe provarlo. Ci si può forse limitare a dire che poeti come Omero, Dante e Milton ci hanno creduto seriamente e che a volte le persone riescono ad andare oltre se stesse, giungendo a comportamenti e risultati che non si sarebbero mai aspettati, in base a quello che si sapeva di loro. Anche l’immaginazione, nel senso più alto, è ispirazione. Ci sono doni che giungono da fonti che non riusciamo a localizzare. 

La simpatia ci fornisce, sulle persone e su altre creature una conoscenza intima cui non potremmo mai giungere in altro modo. La stessa cosa vale per gli affetti. Alla conoscenza che nasce dalla simpatia e dall’affetto non si presta in genere troppa attenzione – credo che i materialisti non riescano assolutamente ad accorgersi della sua esistenza – ma, a mio parere, sarebbe impossibile sopravvalutarla. 

Chiunque abbia svolto un lavoro manuale o danzato o praticato un gioco che richieda una qualche abilità di forza o coordinazione muscolare conosce bene la differenza che esiste tra sapere come si fa e fare davvero. Questa differenza la chiamerei conoscenza corporale. 

E infine, a nostra difesa, sarebbe opportuno riconosce che c’è anche la conoscenza contraffatta o plausibile falsità. 

Vorrei dire che le tassonomie da me proposte mi sembrano, più o meno, ragionevoli, anche se certamente mi asterrei dal definirle scientifiche. La mia unica pretesa è che ogni considerazione sull’ignoranza e la conoscenza giunga almeno alla complessità di questo mio tentativo. Siamo una specie complessa – come organismi, certo, ma anche come anime viventi, costantemente impegnati in un negoziato quotidiano, anche più complesso, per la vita-o-lamorte, con le circostanze terrene in cui ci troviamo, che possono essere anch’esse molto complesse, eccedenti ogni nostra capacità d’indovinare (di conoscere non è neppure il caso di parlare). Nel trattare con queste circostanze, nel cercare di “vedere nel futuro e tracciare le conseguenze a lungo termine”, la mente umana non è abbastanza capace, né precisa, né affidabile. Siamo gravati da un’ignoranza intrinseca, che forse non potremo mai ridurre in misura significativa, come anche della tendenza verso altri tipi d’ignoranza, e i nostri modi per giungere alla conoscenza, per quanto impressionanti entro i limiti umani, possiedono una forza per noi anche pericolosa, che può portarci oltre i nostri limiti, oltre ogni previsione e precauzione e fuori del nostro stesso controllo. 

Quello che sinora ho detto è una caratterizzazione del comportamento di singoli individui. A causa però di un particolare tipo d’ignoranza arrogante e della scala gigantesca delle realizzazioni che le nostre potentissime tecnologie ci consentono e anzi giungono quasi a imporci, non ci basta preoccupaci esclusivamente delle menti personali o comunque umane. Siamo obbligati anche a tenere in conto un tipo di mente che definirei essenzialmente societaria o corporativa, anche se potrebbe essere pure politica o istituzionale. Questa è una mente che è composita, e astratta, materialista, riduzionista, avida e radicalmente utilitarista. Se si crede, come alcuni di noi credono, che due teste sono sempre meglio di una sola, si deve necessariamente ritenere che una mente societaria sia sempre meglio di quella di una singola persona, ma nei fatti può capitare che la mente di una corporation sia invece molto peggiore, non fosse altro che per la sua manifestamente illimitata capacità di creare problemi che non riesce a risolvere, anche perché alcuni di essi sono irrisolvibili. La mente societaria è notevolmente ristretta. Si vanta di utilizzare esclusivamente la conoscenza empirica – il termine preferito è quello di “solida base scientifica”, riducibile alla “riga finale” del bilancio dei profitti o del potere – e, poiché esclude ogni esplicito ricorso all’esperienza o alla tradizione o a ogni forma di conoscenza interna, come la coscienza, questa mente è facilmente suscettibile a ogni tipo d’ignoranza e forse disposta in particolar modo ad accogliere la conoscenza contraffatta. Si mette al lavoro col suo equipaggiamento di conoscenze fattuali e forse anche di conoscenze abilmente contraffatte, ma senza mai ricorrere a quelle conoscenze cui riteniamo più appropriato affidarci quando siamo giunti davanti al mistero o ai limiti umani. Non è una conoscenza che conosca l’umiltà. La mente societaria è per definizione ignorante con arroganza. 

Ignoranza, arroganza, ristrettezza mentale, conoscenza incompleta e conoscenza contraffatta ci debbono interessare, perché sono pericolose, producono distruzione. Quando si uniscano a un grande potere anche la distruzione diventa grande. Di distruzione, finora, ne hanno già causata troppa, troppo spesso di cose non sostituibili. Adesso, ragionevolmente, ci stiamo chiedendo se sia possibile, se sia almeno pensabile, che questa distruzione possa essere fermata. Per quanto possa essere sorprendente per qualcuno, ci troviamo ancora una volta davanti al fatto che la conoscenza non è semplicemente e inevitabilmente buona. Siamo stati spesso una specie distruttiva, lo siamo oggi come mai prima e questo, in perfetto accordo con antichi ammonimenti, dipende da nostro uso, arrogante e ignorante, della conoscenza. 

Prima di andare avanti sarà bene chiedersi che cosa, veramente, noi esseri umani abbiamo bisogno di conoscere. Naturalmente, abbiamo bisogno di conoscere molte cose e molti tipi di cose. Ma vediamo di essere pratici, per il momento presente, e diciamo che abbiamo bisogno di sapere chi siamo, dove siamo e cosa dobbiamo fare per vivere. Non sono domande che rimandino a forme di conoscenza specifiche e distinte. Non è probabile che si possa rispondere a una di loro senza rispondere contemporaneamente anche alle altre due. Ed è necessario che a tutte e tre si dia una buona risposta, prima di darne un’altra ancora, altrettanto buona, a una quarta domanda che oggi preme con urgenza su di noi: come possiamo lavorare senza danneggiare in modo irreparabile il mondo e le sue creature, noi compresi? Oppure: come possiamo vivere senza distruggere le fonti della nostra vita? 

Queste domande sono assolutamente onorevoli, si potrebbe anche aggiungere che sono anche del tutto ovvie e tuttavia abbiamo molte buone ragioni per credere che una mente societaria non si ponga mai nessuna di loro. Non le importa affatto chi sia, perché non è nessuno: è una mente senza un corpo. E non le importa affatto dove si trovi, perché in qualsiasi posto sia adesso ci starà solo finché non ne troverà un altro che offra maggior profitto. E farà qualsiasi cosa le sia necessario, non semplicemente per vivere, ma per crescere e crescere ancora. Quanto ai danni, può indifferentemente passarli su conto del pubblico, della natura, del futuro. 

La mente societaria, quando lavora, mette via tutte le virtù della mente personale o non le tiene assolutamente in conto. La mente delle corporation non può conoscere affetti o desideri che non siano legati all’avidità, nessuna lealtà a località o persone, nessuna simpatia, reverenza o gratitudine, né temperanza, né industriosa parsimonia o capacità di imporsi limiti e misura. Non riconosce la prima responsabilità dell’intelligenza, che è quella di capire quando non sai o quando ti stai comportando in modo disinformato e stupido. Provate a immaginare un funzionario che si alza in piedi a una riunione ad altissimo livello di una corporation globale o di una grande istituzione pubblica e prende la parola per dire: “Siamo cresciuti troppo”, o “Abbiamo più potere di quello che possiamo usare responsabilmente”, o “Dobbiamo trattare i nostri dipendenti come il nostro prossimo”, o “Dobbiamo comportarci come membri responsabili di questa comunità”, o “Dobbiamo preservare l’integrità ecologica dei nostri ambienti di lavoro”, o “Facciamo agli altri quello che vorremmo gli altri facessero a noi”. Allora potrete vedere quello che intendo. 

La mente societaria, invece, incoraggia quella personale a indulgere nei suoi peggiori difetti e nelle sue debolezze, come l’avidità e il servilismo, la giustifica e la libera dal bisogno di preoccuparsi per le conseguenze a lungo termine. Così, opportunamente autorizzata e sollevata, la mente delle corporation può oggi lasciarsi andare a un’espressione rumorosa della sua gratitudine a Dio. 

A questo punto, però, ho il dovere di affrettarmi ad aggiungere che attualmente ci sono delle corporation che non si limitano a incorporare quella che chiamo mente societaria o corporativa. Se il loro numero stia crescendo, io non lo so dire. Credo però che queste società abbiano la loro sede nelle città in cui effettivamente operano e con cui hanno allacciato legami di appartenenza, partecipando alle attività dell’economia locale e alla vita sociale e politica locale come membri responsabili di quella comunità. 

Non vorrei mai imporre sulla scienza limitazioni che non vorrei vedere applicare sulle arti, ma è innegabile che oggi la scienza richieda una sorveglianza e un’attenzione speciale, per l’enorme prestigio di cui gode e il suo pesante contributo alla devastazione del mondo naturale. Qui, prima di tutto, ci sarebbe da preoccuparci della compiacenza di tanti scienziati. Non si può negare che la scienza, nelle sue inevitabili applicazioni, abbia elevato a livelli giganteschi, mai prima raggiunti, la scala dei suoi macchinari e dei suoi interventi tecnologici nell’utilizzo della terra, nella produzione di manufatti, nelle industrie di guerra e in tutti i pessimi effetti conseguenti. A questo palese coinvolgimento della scienza in tante forme moderne di devastazione c’è chi risponde osservando che di scienza ce ne vorrebbe di più, ossia di più e anche migliore. Si tratta di una posizione che sono portato a rispettare, se mi si concede di aggiungere che non abbiamo solo bisogno di scienza, ma anche di qualcosa in più. 

Non sarei invece portato ad accogliere pienamente l’affermazione che la “scienza è capace di autocorrezione”, se questo comportasse accettare l’idea che la scienza debba quindi, in qualche modo, considerarsi “sicura”. La scienza non è più sicura delle altre forme di conoscenza. Non lo è specialmente nel contesto delle gigantesche applicazioni della mente societaria delle corporazioni. L’idea, abbastanza diffusa nelle università e nella loro progenie ideologica, che il lavoro che svolgiamo, quale che possa essere, sarà comunque reso benefico per tutti grazie alla mano invisibile del mercato o all’evoluzione o una qualche altra forza oscura è un caso esemplare di conoscenza contraffatta. 

Si presenta subito una domanda ovvia: quanto ci mette la scienza a correggere se stessa? Può essere così veloce da prevenire o correggere il danno reale apportato dai suoi errori? La risposta è che non è abbastanza rapida per riuscirvi. Gli scienziati che hanno trovato o prodotto la possibilità di una “innovazione dirompente” utilizzabile, si affrettano a darne comunicazione al mondo, quindi anche alle grandi corporation. 

E il fatto che la scienza, poi, sia riuscita a correggersi non comporta anche che abbia la possibilità di correggere i risultati prodotti o l’influenza esercitata. 

Dobbiamo naturalmente garantire che la ricerca scientifica che si svolge nei laboratori sia sottoposta ad attento controllo. Non sono stati gli scienziati che lavorano in laboratorio a produrre il buco dell’ozono o le zone ipossiche nei mari o le piogge acide o Chernobyl o Bhopal o Love Canal.49 

È quando diviene monopolio delle grandi società e delle grandi imprese, quando viene applicata e commercializzata, che la scienza esce da ogni controllo. A quel punto può la scienza riuscire a rendersi responsabile, imponendo avvertimenti e vincoli con la sua stessa conoscenza? No, perché chi se ne serve non ha alcun obbligo di obbedire o almeno prestare attenzione a quegli ammonimenti. E se le conoscenze da correggere sembrano incrementare il profitto o il potere di chi le controlla e le usa, gli avvertimenti saranno ignorati, come sappiamo bene. Non dobbiamo indulgere alla credenza nel potere autocorrettivo della scienza e distogliere l’attenzione dal pericoloso influsso della scienza sulla mente societaria e dell’influenza di quest’ultima sulla mente dei loro utenti e consumatori. Gli esseri umani dovrebbero preoccuparsi innanzitutto di un problema più generale, cioè del modo in cui ci siamo concessi l’autorizzazione a produrre danni su grande scala. Il nostro problema è proprio quella concessione, che ha reso arrogante la nostra ignoranza e l’ha fornita di un immenso potere di nuocere. Stiamo uccidendo il mondo in base alla teoria che non sia mai stato vivo, ma solo un’accidentale concatenazione di materiali e processi meccanici. Ci stiamo uccidendo gli uni con gli altri in base a quella stessa teoria. Se la vita non ha nulla che le riconosca dignità come mistero o miracolo o dono, allora in cosa differisce dalla morte? 

Per proporre la questione in termini più pratici, possiamo dire che l’uso ignorante della conoscenza consente al potere di sbarazzarsi del problema delle dimensioni di scala, perché lo libera da ogni rispetto per l’integrità degli ecosistemi, quel rispetto che è per noi l’unico metro affidabile per garantire l’appropriata misura del lavoro umano. Se non ci si tiene al giusto livello di scala, e non si conoscono e accettano i limiti che questa impone, non ci può essere una forma. E qui arte e scienza arrivano a unirsi. Noi viviamo e prosperiamo in una forma assunta e grazie ad essa, che è il potere delle creature viventi e degli artefatti di giungere a essere compiuti in se stessi entro i propri, dovuti, limiti. Non regolato da limitazioni formali, ogni potere diviene necessariamente disordinato e distruttivo. È per questo che il poeta David Jones, nel mezzo della Seconda guerra mondiale, scrisse “l’uomo come artista ha fame e sete di forma”. Dimensioni fuori ordine e misura hanno di per sé la capacità di precludere l’accesso a una larga massa di conoscenza. 

Cosa possiamo fare? Da chi si sia tanto affannato a denunciare pubblicamente l’esistenza di un problema è lecito attendersi che abbia anche pensato a qualcosa da dire per la sua soluzione. Ci si aspetta, insomma, una “chiusura su una nota positiva” e io intenderei fare proprio così. Ma intendo anche mantenermi attento. Cosa possiamo fare? Quando il problema è di grandi dimensioni comporta anche una risposta su larga scala. 

Non dispongo di soluzioni su larga scala da potervi offrire. Come forse ormai avranno constatato tutti, c’è un’evidente e grave scarsità di soluzioni in grande per i problemi prodotti da cause in grande. I danni arrecati ai nostri bacini idrici e ai nostri ecosistemi dovranno essere corretti con un’opera minuziosa, una fattoria alla volta, una foresta alla volta, un acro alla volta. Sul quadro disastroso lasciato da un bombardamento s’interviene con la stessa precisione: un cadavere alla volta, una ferita alla volta. Quindi la prima tentazione da respingere è quella di mettersi a invocare una sorta di rivoluzione. Immaginarsi che un grande potere distruttivo possa essere reso innocuo nel momento in cui si sarà raccolto il potere necessario per distruggerlo è, naturalmente, una speranza del tutto futile. William Butler Yeats lo aveva già detto nella sua poesia The Great Day (Il grande giorno): 

Urrà per la rivoluzione e viva il colpo di cannone! Un pezzente a cavallo frusta un pezzente a piedi. Urrà per la rivoluzione e il ritorno del cannone!
I pezzenti hanno scambiato posto, la frusta prosegue il suo corso.

Non si può curare l’arroganza con un’arroganza ancora più grande, o l’ignoranza con un’ignoranza peggiore. Per impedire che sia l’ignoranza a decidere l’uso delle nostre conoscenze e del nostro potere, noi disponiamo, temo, solo di una doverosa umiltà e ci sarebbe quasi da ridere. Nella sua pastorale politica Build soil (Costruite il suolo), Robert Frost, come se stesse rispondendo a Yeats, fa dire a uno dei suoi campagnoli: 

Ti invito alla rivoluzione di un solo uomo, L’unica rivoluzione in arrivo. 

Se troviamo che le conseguenze della nostra ignoranza arrogante siano una lezione di umiltà e che noi ne usciamo umiliati, allora abbiamo a portata di mano un primo dato di speranza: sappiamo di poter cambiare noi stessi. Noi, ciascuno di noi per suo conto, possiamo scacciare dalle nostre menti l’ignoranza e l’arroganza societaria che sta portando il mondo alla sua distruzione; possiamo sottoporre a un onesto confronto i nostri bisogni con la nostra ignoranza; possiamo trovare una guida nelle conoscenze più autentiche che già possediamo, nell’esperienza, nella tradizione e negli stimoli interni degli affetti, della coscienza, della decenza, della compassione, persino dell’ispirazione. 

Questo mutamento potrebbe essere denotato con varie denominazioni – cambiamento di cuore, rinascita, metanoia, illuminazione – e si ritrova, credo, in tutte le religioni, ma a me piace molto il metodo pratico con cui lo si definisce nelle Massime di Confucio, nella traduzione che ne ha dato Ezra Pound: 

Gli antichi, nel desiderare la chiarificazione della virtù irraggiante in tutto quello che sta sotto il cielo, cominciavano col mettere a posto i loro stati. Nel desiderare di mettere a posto i loro stati, cominciavano col mettere in ordine le proprie famiglie. Nel desiderare di mettere in ordine le proprie famiglie, cominciavano da loro stessi, imponendosi autodisciplina e decoro. Col desiderare quest’autodisciplina, rendevano stabili i loro cuori. Per arrivare a questa fermezza di cuore, conquistavano definizioni precise ai loro pensieri. Per afferrare questa sincerità precisa di pensiero, cercavano di estendere la loro conoscenza al massimo. Trovato questo completamento di coscienza, inquadravano le cose in categorie organiche.

Questo programma non esclude le scienze – non esclude in realtà nessun tipo di conoscenza – ma inizia col riconoscimento della nostra ignoranza e del nostro bisogno, del fatto di trovarci in una cattiva situazione. 

Se la capacità di cambiare se stessi è la prima azione che apre la strada alla speranza, la seconda deve essere il riconoscimento della estrema difficoltà della situazione in cui ci troviamo. Ci troviamo in una situazione estremamente difficile e pericolosa, come ho detto, e l’ottimismo non può né migliorarla né farla apparire meno grave. Ma c’è una speranza, nel riuscire a vederla per quello che è. E qui devo ricorrere ancora a Kathleen Raine. Questo brano fu scritto dopo la Seconda guerra mondiale e l’autrice stava pensando alla poesia di T.S. Eliot, The Waste Land (Terra desolata), scritta subito dopo la Grande guerra. In The Waste Land Eliot testimonia con incrollabile fermezza la malattia del nostro tempo: stiamo vivendo la morte della nostra cultura e del nostro mondo. La metafora dominante della poesia è quella di una terra senz’acqua, che sta morendo per la pioggia, una metafora che ci ferisce più che mai oggi, nel momento in cui stiamo esaurendo le nostre falde acquifere e seccando o inquinando i nostri fiumi. 

Ma Eliot [dice Kathleen Raine] ci ha mostrato che il mondo ha una forte tendenza a dimenticare, e che la chiara formulazione di una verità terribile ha una specie di potere terapeutico. Nella sua dura visione dell’inferno che si estende attorno a noi […] c’è una qualità di grave consolazione. Nella sua affermazione su quanto c’è di peggio, Eliot ha sempre fatto intendere che la vera estensione del reale è quella nella quale anche il peggio è solo una parte del tutto. 

Il valore dell’onestà, quindi, non risiede solo nel fatto che sia una virtù, ma deriva anche da una ragione pratica: l’onestà può fornirci una visione accurata del nostro problema e può inserire, con la dovuta precisione, quel problema nel suo più ampio contesto. 

L’onestà, naturalmente, non è una soluzione. Come ho già detto, non credo che per i nostri attuali problemi ci possano essere soluzioni della stessa misura. Penso che i grandi problemi richiedano tante piccole soluzioni. Se vogliamo che questa prospettiva possa raccogliere l’attenzione e il riconoscimento che merita, però, non avremo solo bisogno di inserire i problemi che affrontiamo nel loro contesto, ma anche il lavoro che svolgiamo nel suo contesto. Ed è qui che dobbiamo prendere le distanze dal nostro sogno di mantenerci in stretto contatto con gli ecosistemi locali e con gli insegnamenti culturali trasmessici dalla religione e dalle arti. Tutte le arti e tutte le scienze, infatti, debbono essere elevate a un livello decisamente superiore a quello che ciascuna di loro individualmente potrebbe raggiungere. Artisti e scienziati debbono comprendere che il loro unico modo per onorare i doni e gli obblighi che il destino ha loro assegnato è quello di vivere e lavorare come esseri umani e membri di una comunità, anziché come specialisti d’un sapere o d’una disciplina. Cosa questo potrà comportare non è prevedibile, neppure per gli scienziati. Ma il miglior consiglio resta sempre quello che ci è stato impartito da Ippocrate: “Per quanto riguarda le malattie, prendete l’abitudine di fare due cose: aiutare o, almeno, non fare del male”. 

Può darsi che il desiderio di aiutare, specialmente se se ne può ricavare un profitto, rientri nella natura umana e certo ognuno di noi amerebbe essere un eroe. Aiutare, o tentare di farlo, richiede solo conoscenza: c’è bisogno di conoscere rimedi promettenti e di saperli applicare. Ma per non fare del male ci vuole un’intera cultura, e una cultura molto diversa dall’industrialismo. Ci vuole, come minimo, compassione e umiltà e cautela. La persona che voglia imparare a essere qualcuno che aiuta senza fare del male si deve preparare a raggiungere un certo livello di complessità: deve essere un individuo che non si contenta troppo facilmente, probabilmente non un eroe, probabilmente neppure un miliardario. 

L’impostazione adattata dalle corporation, nell’agricoltura o nella manifattura o nella medicina o nella guerra, è quella di chi aiuta a rischio di far male, talvolta anche molto male. E una volta che il rischio del male possibile sia stato valutato e giudicato “accettabile”, quello che ne risulta è spesso un’assurdità: distruggiamo un villaggio per salvarlo, abbattiamo la libertà per salvarla; distruggiamo il mondo per poterci vivere. 

Gli apostoli della mente societaria dicono, con un grande, implicito, complimento a se stessi, che tu non puoi vincere, se non rischi d’essere sconfitto. E alludono a esempi come quelli dei fratelli Wright. Non vedono che la questione del rischio solleva immediatamente quella della scala. Il rischio, come qualsiasi altra cosa, ha una sua scala appropriata. Ed è in base alla valutazione del carattere più o meno appropriato della sua scala che noi riusciamo a valutare possibili danni derivanti da un rischio. Se non possiamo controllare la scala in modo da limitare i suoi effetti, allora ci troviamo dinanzi a un rischio che sarebbe bene non prendere. Si capisce quindi facilmente perché molti rischi non dovrebbero mai essere presi. Ci sono esperimenti che non si dovrebbero mai fare. Se un fratello Wright desidera rischiare un grave fallimento, allora decenza vuole che rischi da solo. Se l’aeroplano dei Wright si schianta su una casa e uccide un bambino, la mente societaria, considerando i profitti futuri che l’aviazione renderà possibile, giudica che quel rischio e quella perdita siano “accettabili”. Si potrebbe obiettare che non si è preso in considerazione il punto di vista del proprietario d’una casa e anche quello di due genitori. 

Mi rendo conto che invocare la decenza e l’umiltà personali per rimediare all’enorme rischio assunto, a nostro nome e nostre spese, dall’industrialismo delle corporation, non è un’idea che possa andar bene a tutti. Ci sarà sicuramente chi, aspettandosi qualcosa di grandioso o epico, la leggerà come un’offesa al proprio senso delle proporzioni o al proprio senso estetico. Anch’io, del resto, me ne sento offeso e avrei voluto trovare qualcosa di meglio. Il fatto è che, dopo essermi guardato tanto attorno, non sono riuscito a pensare che ci potesse davvero essere qualcosa di meglio o comunque qualcosa che avesse maggiori possibilità di funzionare. 

Sto tentando di seguire quella che T.S. Eliot chiamava “la via dell’ignoranza”, perché penso che quella sia la via più adatta per chi è ignorante. Penso che l’intenzione di Eliot fosse quella di farci comprendete che la via dell’ignoranza è quella raccomandata da tutti i grandi maestri. Sono certissimo che fosse la via raccomandata da Confucio, perché chi mai, se non gli ignoranti, vorrebbe portare la propria conoscenza sino all’estremo? Chi mai, se non gli ignoranti consapevoli, potrebbe sapere che c’è un “estremo” per la conoscenza? 

Ma noi prendiamo la via dell’ignoranza anche come una forma di cortesia verso la realtà. Eliot ha scritto in East Coker: 

La conoscenza impone una trama, e falsifica perché la trama è nuova a ogni momento
e ogni momento è una valutazione
di tutto ciò che siamo stati, nuova, sconcertante…

Quella che qui si descrive è indubbiamente l’ignoranza intrinseca alla condizione umana, un’ignoranza che noi, a giusta ragione, avvertiamo come tragica. Ma è anche un modo per conoscere l’unicità di ogni singola creatura, col rispetto che le è dovuto, e l’unicità di ogni singolo momento, con lo stupore che gli è dovuto. La vita nel suo scorrere del tempo ha una grande freschezza, falsificata da ciò che già conosciamo. 

E, naturalmente, la via dell’ignoranza è la via della fede. Se un numero sufficiente di noi riconoscerà “la saggezza dell’umiltà”, attribuendo al modello che sempre si rinnova l’onore che gli è dovuto e accettando ogni momento, “con stupefatta sorpresa / una valutazione nuova di quanto siamo stati”, allora la mente delle corporation ne verrà scossa e poi cesserà di esistere, quando chi ne partecipava inizierà a dissentire e ritrarsi. 


Wendell Berry è un romanziere, poeta e critico culturale, ma anche agricoltore, attivista ecologista, pacifista. Autore di saggi, romanzi, raccolte di poesie, ha ricevuto una lunga serie di riconoscimenti e fellowship e ha insegnato in diverse università nordamericane.

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