La violenza è uno strumento utile al cambiamento sociale, o è sempre da biasimare? Dietro alcune facili condanne potrebbe nascondersi un’altra forma di violenza.
In copertina: Carlo Levi, Peccato originale – Olio su tela – Asta Pananti in corso
di Laetitia M. Leunkeu
L’utilità della violenza come strumento di cambiamento sociale è un dibattito perenne nel pensiero politico-filosofico; contro di essa, per garantire la sicurezza di una società stabile si giustificano gli strumenti irruenti della polizia, delle carceri e il potere coercitivo dello stato burocratico. Altra violenza, ma da parte dello stato.
Da Herbert Marcuse a Frantz Fanon, un’ampia letteratura analizza come nelle società contemporanee la violenza propria al sistema si sia costruita un nido nelle strutture che l’accompagnano; nelle regole, nell’ordinario, tanto da diventare una condizione esplicita, legale, prevista ma subdola del funzionamento generale della catena di montaggio. Dove la violenza psichica era un’eccezione, oggi è consuetudine. È l’ingranaggio chiave di un sistema basato sulla pressione sociale, le prestazioni, le disuguaglianze e la precarietà come unica certezza per molte persone.
Eppure la violenza degli stati — specialmente di quelli liberali occidentali, protetti dal sacro scudo di “modelli di democrazia” — viene riconosciuta difficilmente e ancor meno messa in discussione. Di certo non con la facilità con cui si puntano i riflettori se a usare violenza sono coloro che cercano di farne uno strumento di liberazione.
È dunque fondamentale soffermarsi sulla stessa definizione del termine, chiederci cosa si intende con la parola “violenza” e cosa significa e comporta essere identificati come soggetti “violenti” all’interno di un determinato rapporto di forza.
Non può non saltare all’occhio la facilità con cui la parola “violento” è stata invocata dai media e nei discorsi politici spettacolarizzati degli ultimi anni. L’immigrato, il senzatetto, l’ambulante, il povero… spesso è nella marginalità che la politica trova i suoi antagonisti.
E chi questa marginalizzazione la vuole combattere si ritrova a fare i conti con lo stesso marchio.
In riferimento alle manifestazioni negli spazi pubblici, questo stigma ha fatto da trampolino di lancio alla legittimazione di progetti securitari, giustificando il sempre più massiccio schieramento delle forze dell’ordine a cui assistiamo sistematicamente, anche qualora le proteste si muovano secondo un paradigma di non-violenza che ha come unica vittima il feticismo per il “decoro”.
Lo stigma è una strategia calcolata: denigrare alcuni comportamenti sociali è l’escamotage perfetto per evitare la loro presa in carico; delegittimare certe lotte è un passo concreto verso l’utopia di debellarle. Decreti sicurezza, DASPO, sorveglianza speciale; la dimensione securitaria si dota via via di nuovi strumenti repressivi. Norme in materia penale che si caratterizzano per una progressiva criminalizzazione del dissenso, con aumenti di pena o nuove circostanze aggravanti.
-->Le fasi normative degli ultimi anni ne sono la prova: la flagranza differita, mutuata da essere un’eccezione per gli stadi (2003) ed essere estesa alle manifestazioni di piazza dal ministro Minniti (d.l. n.14/2017); la reintroduzione, da parte del decreto sicurezza di Salvini (d.l. n.113/2018), del reato di blocco stradale, punito con pene fino a 12 anni; l’irrigidimento delle pene per il reato di occupazione (art. 633 c.p.) sempre da parte del decreto sicurezza di Salvini, con la previsione della reclusione fino a 4 anni per i responsabili; l’inasprimento all’articolo 6 delle pene previste dalla legge Reale per chi utilizza caschi protettivi o altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in occasione di manifestazioni (l’arresto “da uno a due anni” diventa “da due a tre anni”; la multa, che continua ad applicarsi congiuntamente all’arresto, passa dall’essere “da 1000 a 2000 euro” a “da 2000 a 6000 euro”) e infine il decreto legge del neo governo Meloni contro i rave party, che diventa reato, punibile con una reclusione da tre a sei anni, nel caso in cui più di cinquanta persone invadano terreni o edifici, pubblici o privati, da cui può derivare “un pericolo per l’ordine pubblico”; una legge che nella realtà dei fatti nulla ha a che vedere con queste feste, ma va a corredare quella serie di disposizioni che vogliono limitare la presenza pubblica e organizzata dei cittadini.
Le leggi hanno una rilevante funzione simbolica, plasmando la relazione dei cittadini con i fenomeni sociali cui si applicano: delineano nel senso comune il confine tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che è socialmente accettabile e cosa, al contrario, deve essere oggetto di deplorazione. Il linguaggio, d’altra parte, è uno strumento altrettanto potente.
Non a caso gli autori di violenza (leggi “rivolta”) sono sempre ritratti come agenti al di fuori dei limiti della moralità e le loro azioni vedono analisi semplicistiche e polarizzanti. I rivoltosi vengono presentati come soggetti irrazionali, senza controllo, degli “altri” distanti e dissimili, guidati da una collera ingiustificata.
La rabbia diventa così un sentimento svalutato in ogni sua forma, la sua presenza delegittima qualsiasi istanza, svende qualsiasi rivendicazione e di fronte ai pacifisti da divano e agli amanti della non-violenza viene accolta con la giusta dose di indifferenza. Spesso gli stessi che dicono di amare Martin Luther King, che però scriveva: «Innanzitutto, devo confessare che negli ultimi anni sono stato gravemente deluso dai bianchi moderati.», riferendosi a quel soggetto che «[…] ha a cuore l’ordine più della giustizia; che preferisce la pace negativa, ossia l’assenza di tensioni, a una pace positiva, ossia la presenza della giustizia; che dice sempre: “Sono d’accordo con voi per quanto riguarda gli obiettivi che vi prefiggete, ma non sono d’accordo con i vostri metodi di azione diretta”[…]» (Lettera aperta dalla prigione di Birmingham, 16 aprile 1963).

Gli atti di disobbedienza civile si verificano quando alcuni cittadini si convincono che i metodi concessi non funzionano più o che i loro reclami non saranno ascoltati e non avranno alcun effetto.
Disobbedire è lo sciopero prima del diritto di sciopero, gli aborti clandestini prima della Legge 194. Lontana dal costituire un pericolo per la Repubblica, la disobbedienza è, al contrario, lo strumento che la fonda, senza la quale gran parte dei movimenti che hanno portato importanti progressi sociali non sarebbero avvenuti.
Ciò che secoli di storia ci hanno insegnato è che la rabbia smuove. La rabbia crea, la rabbia protegge. La rabbia contro l’ingiustizia non è solo legittima, è trasformatrice. Essa si configura come il motore di accelerazione nel rifiuto della violenza intrinseca ai nostri sistemi.
Non vi è nulla di distruttivo — per lo meno non nella sua concezione statica — ma, al contrario, la volontà di far coesistere e convergere un’azione di prefigurazione e defigurazione. Prefigurare il mondo che si vuole abitare e sfigurare quello che è diventato inabitabile. La forza delle lotte è dunque il motore trainante della politica. Per il suo potere ricostruttivo e socialmente trasformativo, la sua capacità di fungere da strumento di mobilitazione collettiva.
La distruzione è un’emozione resa manifesta, è la catarsi del risentimento verso un signore indifferente e immobile che è lo Stato. La confusione che ne deriva è importante perché è tangibile. È lì e in faccia, ti costringe a guardare verso di lei. È quell’estraneo che viene a colpirci e a chiederci cosa siamo disposti a fare, o addirittura a sacrificare per cercare di salvare ciò che può ancora esser salvato.
È forse per questo che le manifestazioni che stanno facendo scalpore negli ultimi mesi risultano così detestabili agli occhi del grande pubblico.
Siamo stati sopraffatti da un virus che si è diffuso in tutto il mondo, nutrendosi dei corpi deboli di quelli da certi definiti “non indispensabili allo sforzo produttivo del paese” e del marciume che adornava le montagne di disuguaglianze agli angoli delle nostre società. Il conflitto russo-ucraino ci ha messi di fronte a una crisi globale dell’energia e del cibo. I paesi che un tempo erano sottoposti all’occupazione dell’Occidente sotto l’insegna glitterata di “missione civilizzatrice” e che hanno contribuito alle ricchezze da cui trae profitto si impoveriscono, le loro popolazioni sono costrette a emigrare, trovando morte e indifferenza alle porte del Mediterraneo o della Manica.
I danni alla biodiversità apportati dall’uomo colpiscono l’intero pianeta e si fanno sempre più evidenti.
Di fronte a queste catastrofi — che nulla hanno di casuale — bicchieri di vino si innalzano al miglior modello economico che si possa immaginare, tintinnando all’interno di jet privati, in direzione dell’ennesima vuota conferenza sul clima. Danno e beffa fanno fatica a distinguersi l’uno dall’altro.
Forse il più grande crimine che commettono attivisti come quelli di Just stop Oil e Ultima generazione, quello per cui li condanniamo così prontamente, è metterci di fronte alle nostre contraddizioni: indignarci per della vernice su un muro cosparsa da alcuni manifestanti ma ignorare il collasso al quale ci stanno portando i nostri governanti.
Non ci rimandano a nient’altro che alla nostra inazione, la nostra compiacenza e la complicità nei confronti delle forze e dei poteri che, sistematicamente, da più di un secolo e con sempre più brutalità, distruggono e sradicano – acclamati nella loro repressione perché “riportano all’ordine”.
Una concezione asettica e idealizzata di una società che non tollera alcun eccesso, nessuna deviazione e nulla di ciò che potrebbe disturbare l’ordine stabilito, minacciare la sua omogeneità, far apparire difetti, buchi, contraddizioni, spazi di libertà, da cui potrebbe maturare l’imprevedibile. Questo è ciò che ci affascina, ci rassicura. Senza biasimo: chi non vorrebbe vivere coccolato dall’idea di sicurezza?
Ma la sicurezza è davvero assenza di deviazione, di scontro, di ribellione? O è la loro repressione, la causa dell’insorgere delle violenze che ci fanno tanto paura?
«La prima cosa che l’indigeno impara, è a stare al suo posto, a non oltrepassare i limiti.
Perciò i sogni dell’indigeno sono sogni muscolari, sogni di azione, sogni aggressivi.
[…] Tale aggressività sedimentata nei suoi muscoli, il colonizzato la manifesterà dapprima contro i suoi. È il periodo in cui i negri si divorano tra di loro e in cui i poliziotti, i giudici istruttori non sanno più dove battere il capo di fronte alla strabiliante delinquenza nordafricana.
[…] Nei suoi muscoli, il colonizzato è sempre in attesa. Non si può dire che sia allarmato, che sia terrorizzato. In effetti, è sempre pronto ad abbandonare il suo ruolo di preda per assumere quello di cacciatore. Il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventar persecutore. I simboli sociali – gendarmi, suoni di tromba nelle caserme, riviste militari e la bandiera lassù – fungono insieme da inibitori e da eccitanti. Non significano affatto: “Fermo! non ti muovere”, ma: “Prepara bene il colpo”.»
Fanon ci introduce così nel primo capitolo Della violenza, de I dannati della terra, alle sue riflessioni sulla violenza come mezzo di liberazione.
Inattuale? Anacronistico? Sebbene il frammento sia stato scritto osservando la realtà algerina e delle altre colonie in lotta nel secolo scorso, nondimeno possiamo intravedere in questo ritratto una realtà a noi ben vicina: c’è un residuo di un sistema che continua a vivere sul fondo delle nostre democrazie e che opera seguendo i meccanismi e le logiche che, se hanno perso l’aspetto strutturale e la ferocia esplicita della colonia, ne mantengono l’essenza.
Si materializza davanti a noi un’evidenza: se la rabbia può essere buona consigliera, la frustrazione, al contrario, è madre di terribili effetti collaterali, che poco hanno di costruttivo.
Uno degli esempi a noi più vicini – sia per posizione geografica che per il coinvolgimento che l’Italia stessa ebbe nel contesto – è il caso dell’Albania del 1997. Di fronte a una crisi economica paralizzante e il malcontento verso uno Stato ritenuto complice il Paese sprofondò rapidamente in una guerra civile, passata alla storia come Anarchia Albanese.
Il pugno di ferro adottato dal potere non fece altro che esasperare la frustrazione di una popolazione allo stremo, che si materializzò nell’armamento di numerosi civili e nell’insorgere di bande armate. Furti, omicidi e saccheggi divennero all’ordine del giorno: quello che doveva essere una protesta verso le forze governative diventò ben presto una rivolta in cui trionfarono aggressività e gli interessi dei singoli.
La frustrazione è dunque un’energia contagiosa, che circola, connette e può dilagare fino alla devastazione.
Oggi, questa frustrazione infetta il cuore del tessuto sociale. Ha lasciato i margini per raggiungere il centro e si sta costruendo un nido nella nostra quotidianità.
L’odio verso la propria condizione viene deviato verso l’altro: il capro espiatorio, il rivale simbolico. Con il rischio di fare di noi dei compagni selvaggi, dei lavoratori selvaggi, degli elettori selvaggi, dei cittadini selvaggi.
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