La violenza di gruppo nell’adolescenza, secondo Agostino

Le idee del celebre filosofo romano Agostino d’Ippona possono aiutarci a capire da dove vengono l’efferatezza e la violenza in adolescenza.


In copertina e lungo il testo opere di Henry Darger

di Antonio Del Castello

Domenica 27 agosto un gruppo di ragazzi, in un agriturismo ad Anagni, al termine di una festa di diciotto anni, ha massacrato a calci una capretta che si era avvicinata a loro, filmando e postando tutto su Instagram. La notizia è giunta al termine di un’estate segnata dalla notizia di due efferati stupri di gruppo commessi da ragazzi altrettanto giovani: il primo a Palermo a opera di sette persone tra i diciotto e i vent’anni contro una ragazza coetanea; il secondo a Caivano, in provincia di Napoli, da un gruppo composto in maggioranza da minorenni, ancora più numeroso, su due bambine di dieci e dodici anni. Anche allora le violenze sono state filmate e condivise in rete. I casi non vanno confusi: uno stupro e una violenza inflitta a un animale pongono eticamente e politicamente problemi molto diversi. Vengono qui richiamati insieme perché insieme sono stati mediaticamente discussi come sintomi diversi del medesimo presunto degrado giovanile: presunto perché discusso per lo più sulla base non di ricerche rigorose, ma della nostra personale percezione, inconsapevoli delle distorsioni prospettiche cui il nostro sguardo va incontro, o a partire tutt’al più dal “parere degli esperti”, non tendendo in conto che non è di per sé scienza il puro e semplice parere di uno scienziato.

In quanto violenza che trova forme di giustificazione o di vera e propria legittimazione nella cornice di una cultura tradizionale e diffusa (il patriarcato), lo stupro è un’emergenza politica di assoluta priorità. In un’altra forma di cultura della superiorità (lo specismo), tangenziale alla contrapposizione dei generi e alla violenza patriarcale, trova probabilmente la propria occasione un atto come quello di domenica, esercitato su una vittima percepita come debole e inerme. Di fronte al gruppo ogni singolo può, potenzialmente, configurarsi come debole o inerme (bullismo), ma in questo terzo caso il biasimo sociale è largamente condiviso; apparentemente il biasimo è esteso anche nel secondo caso, quello della violenza gratuita sugli animali; tuttavia, come società siamo del tutto indifferenti alle sofferenze indicibili a cui sono sottoposti gli animali negli allevamenti industriali.

L’opinione pubblica del paese sembra a ogni modo orientata per una lettura non innatistica dell’aggressività giovanile, almeno nella misura in cui la ritiene un sintomo della perdita progressiva dei valori e della cattiva influenza di serie televisive, social network e pornografia online, o anche, in prospettiva materialista e più problematica, come effetto delle trasformazioni della struttura economica, del degrado dei contesti dovuto al crescente divario sociale e all’impoverimento della scuola pubblica. Certo i canali in cui l’aggressività umana si riversa sono orientati socialmente e culturalmente, ma non sarà inutile interrogarsi sul significato della violenza di gruppo nell’adolescenza e sulla sua posta in palio assumendo una distanza critica dall’urgenza presente, e, seguendo una traccia presente nella tradizione letteraria tardoantica, tentare l’individuazione di una costante antropologica e psicologica di certe dinamiche di gruppo nell’età dello sviluppo.

«Andavo incontro al precipizio con tale cecità che mi vergognavo, tra i miei compagni, di non essere altrettanto spudorato, perché li sentivo vantare le loro scelleratezze e tanto più gloriarsene quanto più erano turpi; e mi ci abbandonavo anch’io, non solo per il piacere dell’atto in sé, ma anche per le lodi che ne ricavavo. […] Ora, che altro merita di essere biasimato se non il vizio? Ecco, io, per evitare il biasimo, m’immergevo nel vizio, e, dove mancavo di colpe che mi eguagliassero a quei corrotti, fingevo di aver fatto cose che non avevo fatto, perché non sembrassi più abietto là dove ero più innocente, e non fossi ritenuto più vile là dove ero più casto». Così Agostino di Ippona riassume un periodo della sua adolescenza nel § 7 del ii libro delle sue Confessioni (scritto probabilmente nell’anno 397: le traduzioni dei brani sono mie). Nel 370, sedicenne, Agostino era stato costretto a interrompere temporaneamente gli studi di retorica a Madaura e rientrare dai suoi nella vicina Tagaste (le attuali Mdaourouch e Sūq-Ahras, in Algeria). In casa dei suoi restò un intero anno, senza aver nulla da fare, in attesa di ripartire non appena suo padre, uomo di condizione modesta ma dalle forti ambizioni, avesse recuperato le risorse necessarie a permettergli un più impegnativo soggiorno di studio a Cartagine (§§ 5-6).

L’autore che ricorda questo periodo di intemperanze e di conformismo è ormai un uomo di oltre quarant’anni. Ora che è maturo, nei rimproveri accorati che sua madre gli muoveva all’epoca, in apprensione per i suoi eccessi e gli amori disordinati, Agostino riconosce la voce di Dio, ma all’epoca quei rimproveri li aveva disprezzati; anzi di fronte ai suoi coetanei aveva avuto «pudore» a non essere «spudorato»; per non essere biasimato era stato solito cedere a ciò che «per sua natura» merita il biasimo; aveva fuggito l’abiezione e la viltà, dove l’abiezione è paradossalmente l’innocenza, ed è vile la castità. Il fango di Babilonia, in cui amava rivoltarsi con i suoi compagni, gli appariva un unguento prezioso (§ 8).

Ma l’Agostino narrante non indugia in una rassegna delle cattive azioni commesse: preferisce soffermarsi su un caso per lui esemplare, esemplare in quanto atto compiuto sia contro il comandamento divino, sia contro la stessa legge «scritta nei cuori degli uomini, che nemmeno la loro malvagità può cancellare: c’è forse un ladro che tolleri di essere derubato?» (§ 9). Stiamo infatti parlando di un furto: da ragazzo, una notte, in compagnia di alcuni coetanei, in preda a eccitazione cameratesca, spogliò il pero di un vicino per poi gettarne i frutti ai maiali. Agostino maturo decide di dedicare una buona metà del secondo libro delle sue Confessioni a un episodio in apparenza banale, ma solo nella nostra prospettiva: la gravità di quell’azione va commisurata allo sguardo di una società non caratterizzata dall’abbondanza alimentare, in cui la violazione della proprietà privata era considerata più grave della violenza contro le persone. Possiamo in ogni caso comprendere bene come nella campagna algerina, intorno al 370 d.C., la spoliazione di un intero albero da frutto, carico, doveva essere stato, per un contadino non ricco, un danno molto grave.

Ad ogni modo Agostino sceglie di parlare di questo atto non per la sua eventuale gravità legale, ma per l’inquietante scandalo morale che esso sottende. Si tratta infatti di un episodio a cui l’Agostino che ricorda e scrive sembra non riuscire a trovare giustificazione in nulla se non, appunto, nel disprezzo della giustizia e nel godimento del furto in sé stesso: «E io volli commettere e commisi quel furto senza esservi spinto da indigenza alcuna, se non dal disgusto della giustizia e dall’eccesso dell’iniquità. Rubai infatti cose di cui disponevo in abbondanza e di migliore qualità; né volevo godere di quella cosa che rubavo, ma dello stesso furto, […] bramando non qualcosa con ignominia, ma l’ignominia stessa» (§ 9).

Agostino ora si chiede se sia davvero possibile trovare il movente di quell’atto nel puro piacere di commettere un’azione malvagia, se neppure Catilina (preso a esempio d’uomo fra i più abietti) «amò i suoi crimini, bensì lo scopo per cui li commetteva» (§ 11). È persuaso infatti che non vi sia delitto del quale, indagando, non emerga il valore strumentale, di mezzo, cioè, per ottenere un bene terreno (gloria, fama, potere, ricchezza, protezione) che eserciti un’attrattiva irresistibile sebbene se ne riconosca, razionalmente, il carattere infimo; oppure, se quel bene è già posseduto, per rimediare al timore di perderlo. Agostino sa che l’anima, creata da Dio, è mossa dal desiderio di ricongiungersi al proprio creatore, e che questo desiderio è infinito essendo infinito questo creatore. Quando l’anima si sia, con il peccato, allontanata dal proprio creatore, questo desiderio, condannato a cercare il proprio oggetto altrove, non potrà che frustrarsi all’infinito verso forme diminuite o perverse di bene.

E allora Agostino avvia un’analisi lenta ma implacabile (un’analisi non morale, ma psicologica, quindi tanto più interessante per noi in questa circostanza) con un peculiare procedimento dialettico che sembra consumarsi in tentativi di approccio al problema da angolazioni sempre diverse senza tuttavia produrre risultati definitivi; un procedimento che Agostino stesso, in un’altra sua opera (i Soliloquia), chiama circuitus. Il circuitus sembra di primo acchito confermare ad Agostino che dietro ogni azione malvagia sia da scoprire una volontà deviata di bene, e in ogni vizio il desiderio, benché distorto, di imitare una perfezione divina: forse, gli viene fatto di pensare, spogliando l’albero di pere aveva inteso, sia pure «vitiose atque perverse» (§ 14), imitare il creatore, violandone la legge con la malizia non potendolo fare con la potenza?

Ma subito, proseguendo, gli balena un’ulteriore spiegazione: «E tuttavia da solo non l’avrei fatto, no, da solo no, non l’avrei fatto. Dunque in esso amai la complicità di coloro con cui lo feci. Non è vero, dunque, che non amai null’altro che il furto; anzi, no, proprio null’altro, perché anche quella complicità era un nulla: dov’è la verità?» (§ 16). Quei frutti, in sé stessi, non gli interessavano per nulla; se non fosse stato così, avrebbe potuto commettere quel furto anche da solo. Ma allora, se non l’oggetto del furto, era stato proprio il furto in sé stesso ad aver acceso in lui il desiderio! Il furto in sé stesso o, più esattamente, in quanto oggetto di una condivisione: il piacere di quell’azione malvagia era infatti essenzialmente – comprende infine Agostino – nel «consortium simul peccantium», cioè nella «complicità di coloro che peccavano insieme» con lui (ibidem).

Ma in cosa consisteva esattamente quel piacere? Ecco, quel piacere «risus erat, quasi titillato corde» (§ 17, corsivo mio). In pochi casi la sostanza di un’emozione (la gioia) è altrettanto trasparente nel suo sintomo, il riso, appunto; un riso che per metafora quasi «solletica il cuore». Quasi tredici secoli dopo, Spinoza, definendo la gioia come la passione per la quale la mente perviene da una minore a una maggiore perfezione, avrebbe individuato nell’hilaritas quella gioia che, come la «solleticazione» (titillatio), ha a che fare non solo con la mente, ma con la mente e il corpo contemporaneamente, e che, a differenza della solleticazione, riguarda non una singola parte del corpo, ma il corpo nella sua totalità. Non altrimenti che gioia può essere detto il sentimento che racconta di aver provato Agostino (la consonanza tra i due luoghi è tale, io credo, che quello di Spinoza può ben illuminare il più antico), una gioia che non avrebbe potuto provare da solo per un solo motivo: «Forse perché nessuno ride facilmente da solo?» (§ 17).

Termina qui il «circuitus» dell’Agostino narrante, con quella che finalmente sembra essere la soluzione al problema, tanto inquietante, di trovare un movente a quel gesto che non fosse il male fine a sé stesso: è la «nimis inimica amicitia» (l’inimicissima amicizia), questo assurdo gioco che diventa desiderio di danneggiare gli altri, gratuitamente, senz’alcun tornaconto personale o desiderio di vendetta: «Ma basta che uno dica “Andiamo, facciamo”, e si ha vergogna a non essere svergognati» (ibidem).

Senza dunque smentire la precedente soluzione, secondo la quale avrebbe inteso imitare il creatore divino violandone la legge con la malizia non potendolo fare con la potenza, Agostino aggiunge ora però che questa gioia (questo aumento di perfezione e di potenza o, nella prospettiva dell’Agostino narrante, questa apparenza di aumento) o è condivisa, o non è. Qui, insomma, la socialità sembrerebbe, più ancora che il volano del desiderio malvagio, la sua posta in palio, così come è la posta in palio del riso: si ride infatti per essere insieme, e non il contrario.

Individuando nella socialità (sia pure deviante) il movente o la posta in palio del furto delle pere, Agostino sembra dunque ricondurre finalmente quel gesto malvagio e, a quanto sembrava, amato proprio in quanto malvagio, a un tentativo di «amare ed essere amato» (§ 2), dunque alla ricerca di un bene, benché aberrante. Eppure nemmeno questa soluzione sembra restituire la quiete all’Agostino narrante: un groviglio inestricabile di mistero («tortuosissima et implicatissima nodositas») resta intorno al perché di questa seduzione così irresistibile. A questo punto Agostino distoglie lo sguardo, quasi turbato: «È un groviglio turpe: non voglio guardarlo, non voglio vederlo» (§ 17), e così facendo ci consegna questo suo ricordo di gioventù in una luce ambigua, tra rimorso e oscuro turbamento, sotto il segno del riso. Usato significativamente come metafora della gioia, il riso è infatti vissuto nel ricordo dell’Agostino narrante come colpa, rimorso, e al tempo stesso per ciò che letteralmente era, appunto gioia: «risus erat, quasi titillato corde». Un riso dalla scaturigine indubbiamente malvagia, visto che, come Agostino riporta, la banda rideva «perché ci prendevamo gioco di quelli che mai ci avrebbero ritenuto capaci di questo e che ne sarebbero stati fortemente contrariati» (ibidem).

Gli adolescenti (maschi) di cui racconta Agostino (tra cui il sé stesso adolescente) sperimentano nella violenza la propria potenza, e riescono a farlo in gruppo in quanto per l’adolescente non ci sarebbe vera potenza, e dunque vera gioia, se non nel gruppo. Ciò si spiegherebbe, nella prospettiva di Agostino, come un difetto originario nella sorgente del desiderio dell’individuo, un difetto dovuto, come si è accennato sopra, alle conseguenze ereditarie del peccato originale, dottrina esplicita in altri punti della sua opera ma balenante anche qui, a proposito del nesso gioia-potenza-violenza, nel finale aperto e inquieto di questo racconto. Eppure il carattere prevalentemente maschile della violenza di gruppo, confermato anche dal racconto di Agostino, indurrebbe piuttosto a pensare a una costruzione sociale e culturale del fenomeno. Confermata questa prevalenza, sostenere il contrario implicherebbe l’adesione all’idea di una fondazione biologica della differenza e quindi degli stereotipi di genere, a un’idea cioè che ha contribuito storicamente a legittimare l’oppressione e la violenza patriarcale, pur non essendo suffragata da chiare evidenze scientifiche, oppure essendolo da evidenze costruite a loro volta a partire dagli stereotipi che avrebbero dovuto demistificare.

Lungi dal voler indebolire la critica storica dei rapporti materiali di potere e della cultura che li legittima, e in difesa delle vittime contro cui, di volta in volta, la violenza viene storicamente convogliata e legittimata, postulare l’esistenza, se non di una natura maschile intrinsecamente cattiva, di un nesso essenziale tra potenza, gioia, socialità e violenza (e dunque di un fondo oscuro della natura umana) potrebbe ancora rivelarsi utile. A una condizione: quella di porsi il problema di come convogliare le punte antisociali delle dinamiche di gruppo adolescenziali in forme pubbliche rituali, cioè non disconoscendo, non reprimendo, ma elaborando collettivamente questo nesso.


Antonio Del Castello vive e lavora a Napoli, dove insegna materie letterarie in un istituto alberghiero e, come docente a contratto, letteratura italiana all’Università “Federico II”. Ha pubblicato studi su Dante e sulla storia delle idee teologico-morali.

1 comment on “La violenza di gruppo nell’adolescenza, secondo Agostino

  1. Paola Nasti

    Grazie per questa analisi che connette i classici del pensiero di Occidente intorno al triste ricorrere della violenza di gruppo. La psicologia, la sociologia, non bastano ad individuare cause. Aggiungerei ad Agostino e Spinoza, nell’analisi della “koinonia kakòn” e del “riso-potenza”, le analisi kantiane sul male radicale. Con Agostino, con Kant, ritorna l’eterna domanda: unde malum?

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