Anche la letteratura comincia a esplorare le discriminazioni vissute dalle donne nelle università, offrendo un punto di vista biografico e narrativo sul fenomeno.
IN COPERTINA e nel testo, The Day Dream, di Dante Gabriel Rossetti (1880)
Qualche tempo fa Repubblica ha pubblicato un articolo dedicato alle violenze fisiche e psicologiche subite dalle donne all’interno dell’università italiana. L’inchiesta dal titolo provocatorio “I predatori dell’Accademia” ha destato scalpore nella comunità degli addetti ai lavori, che per giorni sui social ne hanno commentato compulsivamente il contenuto, o meglio, il presunto tale. L’articolo infatti era riservato agli abbonati e le critiche del popolo accademico si sono concentrate prevalentemente sulla scelta del titolo, ritenuto parte di una più ampia politica di sfruttamento di forzati toni scandalistici, usata dal giornale per destare scalpore e ‘fare click’. A prescindere dalle opinioni dei singoli, l’inchiesta finemente condotta dai giornalisti (due donne e due uomini) presso diversi atenei di tutta la penisola aveva come oggetto un tema che negli ultimi anni sta emergendo sempre di più sulla stampa nazionale e internazionale: le molestie silenti, psicologiche e fisiche, che avvengono all’interno del mondo universitario.
Di queste testimonianze femminili, raccolte tra le facoltà più svariate, sembra non salvarsi nessuna grande università italiana, portando a galla una sequela di soprusi che, partendo dal semplice commento, giunge sino a ricatti emotivi e psicologici e, in alcuni casi, a vere e proprie violenze fisiche, di cui pochissime finiscono in tribunale. Perché?
Le motivazioni sono principalmente due. Da un lato, nonostante una risoluzione parlamentare del 1994 abbia incentivato a immettere nelle università il consigliere di fiducia, una figura esterna incaricata di raccogliere e risolvere i casi di molestia, pochissimi fra i nostri atenei sono riusciti in questi anni a garantirne l’effettiva presenza. Dall’altro, invece, la ‘colpa’ sembra ricadere – come accade in molti altri casi di violenza – ancora sulla vittima: poche donne denunciano le molestie subite.
Tralasciando i casi esemplari di avance e proposte sessuali, le violenze del mondo accademico sembrano infatti defluire in un più ampio calderone fatto di soprusi verbali ‘garbati’ e assoggettamento implicito, in cui raramente le donne sono certe di star subendo qualcosa.
Un esempio utile per capire di cosa stiamo parlando, esplicativo nella sua semplicità, è un episodio al quale ho assistito in prima persona un paio d’anni fa, durante un ciclo di seminari dedicati alla figura di Caravaggio. In occasione di questa iniziativa aperta a giovani ricercatori e studenti, l’opera e la vita del pittore lombardo, di cui tutti conosciamo i raggi di luce e il carattere litigioso, vennero scandagliate per una settimana da insigni studiosi provenienti da tutta Italia.
Fra queste lezioni quella di un professore riconosciuto come uno specialista si rivelò mortificante per due ragioni. La prima di ordine scientifico: l’intervento del docente era stato molto scolastico e oltre a ricostruire la biografia, il tracciamento delle opere e qualche nozione sulla pennellata e sul ruolo della luce non aveva portato un contributo che possa dirsi stimolante. La seconda, invece, di tutt’altra natura, riguarda come l’intervento venne messo in scena: il professore pronunciò il suo discorso camminando avanti e indietro per la sala, attento, erudito nelle date e nelle nozioni, passando in rassegna i quadri con un power point piuttosto semplice. Le slides però, nonostante l’uomo fosse dotato di un apposito telecomando, per tutta la durata dell’intervento vennero fatte scorrere dalla sua assistente, che ogni trenta secondi veniva interpellata per nome per mandare avanti e indietro le immagini sulle quali il professore aveva imbastito la sua lezione.
La situazione era paradossale. La studiosa, una donna di circa trent’anni, preparatissima e con alle spalle già una scuola di specializzazione e un dottorato di ricerca, aveva un compito meschino: premere un tasto al suono della voce del suo maestro.
-->Questo è solo un episodio minore tra i tanti di cosa accade dentro le nostre aule universitarie, quasi sempre senza lasciare traccia, in quanto parte di un sistema altamente compresso da un punto di vista meritocratico. Per una ricognizione sulla situazione italiana, variopinta e rocambolesca, basta navigare un po’ nel sito dell’associazione Trasparenza e merito. L’università che vogliamo, fondata due anni fa da Giambattista Scirè. Il lavoro di questo folto gruppo di accademici proveniente da diversi ambiti disciplinari raccoglie le testimonianze personali di numerosi concorsi truccati, bandi pilotati e ricorsi ancora in nuce, tra le quali saltano agli occhi anche diversi episodi accaduti a donne estremamente competenti, ora raccolti in un libro uscito quest’anno per Chiarelettere dal titolo chiaro: Malauniversità.
Ma oltre alle interviste, le intercettazioni e i racconti in prima persona dei ricercatori italiani, anche la narrativa internazionale sembra aver trovato di recente un nuovo spazio per queste tristi storie. Una di queste, scritta con una semplicità limpida e cruda è quella di Emilie Pine, autrice irlandese di Appunti per me stessa tradotto quest’anno da Ada Arduini per Rizzoli. La docente, che insegna drammaturgia all’University College di Dublino, denuncia apertamente nell’ultimo saggio personale del libro – dal titolo emblematico “Cose non in programma” – una serie di soprusi vissuti all’interno del proprio ambiente lavorativo, il quale appare dominato da uomini autoritari e finemente misogini:
“Svolgo una professione che ai vertici è ancora molto dominata dagli uomini. Non mi è mai stata rifiutata una promozione e al lavoro non sono mai stata molestata sessualmente, quindi mi è andata bene. Ma il fatto che non avere vissuto queste due esperienze mi faccia sentire fortunata la dice lunga. E l’altro lato della medaglia è che spesso mi capita di essere al centro di episodi di sessismo, che nonostante siano superficiali possono comunque ferire. Mi hanno interpellato con condiscendenza, interrotto e a volte anche ignorato, solo perché sono una donna. Alcuni colleghi maschi più anziani hanno alzato la voce con me durante delle riunioni perché sapevano che non avrei ribattuto, essendo più giovane e donna. Sono stata definita una “feminazi”. Di fronte a questo genere di situazioni, che cosa fanno le altre? Quali rapidi calcoli mentali eseguono? Sfidano l’uomo che alza la voce con loro? Ridono di una battuta sessista? Oppure, come me, fanno un passo a lato?”
L’autrice descrive alcuni di questi eventi come ‘superficiali’ proprio perché consapevole di aver avuto il lusso di non essere stata maltrattata fisicamente o aggirata a livello contrattuale. Ma, allo stesso tempo, ammette di essere oggetto sin dalla sua entrata in università di numerose violenze psicologiche, che si sviluppano di norma attraverso un preciso codice linguistico. La donna ideale del mondo accademico appare ancora una volta come una bambola di porcellana, un carillon che può muoversi liberamente per un breve lasso di tempo, sempre circoscritto e programmato da una mano maschile. Deve camminare sulle punte, attenta a non scalfire l’ego dei colleghi e disposta a ingoiare tutti gli appellativi che le vengono attribuiti. Come il classico ‘signorina’, che sostituisce naturalmente qualunque titolo di studio e carica si possa aver conseguito e raggiunto, o i continui commenti su quanto si è ‘giovani’, ‘carine’ e ‘sorridenti’, quasi mai dedicati alla qualità del proprio lavoro di ricerca. Pine chiarisce bene la natura brutale di questa lingua: “Ho perso il conto del numero di volte che uomini più vecchi e più giovani di me mi hanno detto che sembro giovane. Lo dicono per farmi un complimento, ma non lo è. Dalle donne si pretende che si sentano lusingate, davanti a una frase del genere, perché per una donna l’aspetto è la cosa più importante, e la gioventù la condizione migliore. Ma rassicurandomi sul mio aspetto giovanile, o dicendomi che non capisco perché sono troppo ingenua, o chiedendomi se sono una studentessa quando è chiaro che sono una docente di ruolo, questi uomini mi derubano di più di un decennio di esperienze e competenze professionali. Il cosiddetto complimento è, in realtà, un declassamento istantaneo”.
Questo genere di sopraffazioni linguistiche, sebbene possano sembrare quasi scontate se scritte a chiare lettere da una docente affermata, quando le vivi quotidianamente possono essere al contrario molto difficili da riconoscere. Come i commenti continui su cosa indossi, come ti sei pettinata i capelli o quanto sei truccata, sono una molestia o fanno parte del mestiere? Non arrivano a essere dei rumorosi catcalling, poiché la specialità dell’accademia è proprio questo: un lavoro silenzioso, misurato, mai davvero eclatante.
Così le ‘signorine’ dell’Accademia si sono abituate, negli anni, a non rispondere. E come problematizza Pine, a fingere che tutto questo sia superficiale e di poco conto. Come anche lo è il loro lavoro, costantemente sminuito se paragonato a quello dei propri maestri, ai quali devono tutta la loro carriera quando sono brave, o con i quali ‘sono sicuramente andate a letto’ quando invece non lo sono abbastanza per il posto che ricoprono. I maestri ai quali, in ogni frutto della loro ricerca, articolo o libro che si sono costruite pezzo per pezzo, devono sempre dedicare un breve e sentito ringraziamento. È la prassi, la prima delle regole non scritte di questo antico sistema di vassallaggio a cui chiunque deve sottostare.
Le donne sono complici di questo sistema? Per Pine la risposta è scontata: il silenzio, il farsi da parte a ogni affronto – palese o meno – in quanto femmina, ti rende tale e spesso ti porta persino a diventare parte attiva della violenza. Le conseguenze del sessismo in accademia finiscono così per contaminare anche il lavoro delle donne, che si trovano di norma a seguire due linee di comportamento apparentemente lontanissime ma in realtà guidate dalla stessa esigenza: sopravvivere alle condizioni imposte dal grande gioco maschile dell’università. Il primo escamotage è quello di ripudiare qualsiasi forma di emozione, proprio perché ritenuta parte costitutiva del femminile: gentilezza, accondiscendenza, sensibilità e comprensione vengono così completamente rimosse dalla maggioranza delle donne che raggiungono i vertici. Il ragionamento alla base è molto semplice: se non voglio essere considerata una femmina mi comporterò da uomo. Il secondo, invece, agisce sul versante opposto. Sono una donna e quindi seguirò assiduamente le ‘qualità’ che mi vengono appiccicate addosso, passando dalla gentilezza data per scontata, alla generosità, sino alle più pericolose fasi lunatiche e testarde che sì sa, fanno parte delle nostre dotazioni biologiche.
La situazione italiana appare così non molto lontana da quella degli atenei del resto del mondo ma rivela anche un fatto particolare. Secondo i dati raccolti dal Ministero della salute in merito alle molestie, queste raggiungono in media una fascia di età maggiore di quella delle matricole, toccando in media le donne che hanno tra i 25 e i 54 anni. Questo mette bene in luce come le violenze non siano subite in realtà soltanto dalle giovani studentesse, ma dalle lavoratrici soprattutto precarie (e quindi più facilmente ricattabili) del mondo universitario: specializzande, dottorande, assegniste, ricercatrici junior e senior e spesso persino dalle professoresse.
La varietà delle storie latenti che ho raccolto in circa una decina di anni passati dentro l’università può essere esplicativa delle condizioni normali nelle quali si lavora (con o senza stipendio) nei dipartimenti italiani: favori sessuali in cambio di un voto alto, recapitare delle medicine (crema per le emorroidi) per entrare in specializzazione, bagnare le piante (un terrazzo pieno di cactus) per ottenere un assegno di ricerca e ascoltare dai propri superiori, sempre sorridendo, frasi di questo genere: “Sai, sono contento. Alla fine, non sei così stupida per essere una donna”. Senza contare le innumerevoli volte in cui ho sentito chiamare me e le mie colleghe ‘signorine’ a un convegno, o subito inutili elogi su quanto siamo volenterose appassionate e disposte a subire ogni tipo di umiliazione per la ricerca (nascoste sotto il nome di ‘gavetta’), facendo fotocopie e scannerizzazioni al posto di studiare, scrivendo una cosa che verrà firmata da qualcun altro, presentando un premio come una soubrette televisiva soltanto perché si è considerate giovani e carine.
Questo tipo di soprusi non toccano però soltanto le donne e sono parte integrante del più ampio e organizzato opificio medievale del sapere, un regno ancora elitario, lontano dai riflettori, in cui l’istruzione e la ricerca hanno ben poco a che vedere con lo studio e le capacità faticosamente coltivate dal singolo, come ha messo in luce pochi giorni fa la rappresentante degli studenti dell’Università degli studi di Siena all’inaugurazione dell’anno accademico.
È la triste storia mai finita dell’accademia, che ritorna ancora nella letteratura recente, nel libro di Juliet Lapidos, Talento, tradotto quest’anno per Bompiani da Giovanna Schocchera. Nel romanzo l’autrice, basandosi su alcune esperienze vissute in prima persona, svela i meccanismi insidiosi del ricatto emotivo e psicologico alla base del lavoro universitario, che spingono lentamente la protagonista verso le soglie della follia, nel tentativo disperato di concludere una tesi di dottorato sulla storia dell’ispirazione artistica. In questa parabola discendente, in cui una studentessa modello abbandonata dal suo docente viene costretta a rivedere continuamente il lavoro condotto nei cinque anni precedenti, Lapidos descrive con cura l’ambiente nel quale vivono i ricercatori e soprattutto le loro fisionomie: “Quelli che avevo davanti non erano persone ma personaggi – misere caricature. Se nonostante le apparenze avevano davvero un minimo di profondità, io non riuscivo a vederla, perché interagivamo come studenti di dottorato e non come esseri umani”. Il distacco dal mondo reale e la creazione di un microcosmo esacerbato nel quale tutti i membri, come fedeli adepti di una setta, si ritrovano a parlare soltanto attraverso un codice linguistico preciso, è in effetti uno dei punti in comune di tutte le narrazioni sul mondo universitario. Da queste – di cui la gran parte in Italia restano ancora scritte da uomini – si delinea un sistema immorale, in cui gli studiosi vengono confinati in un’arena sempre più piccola, disposti l’uno contro l’altro per battersi a suon di pubblicazioni, paper e, naturalmente, mansioni più disparate al servizio di un barone il quale, come ha riassunto così bene lo storico John Foot (nel suo articolo uscito sulla London Review of Books, poi tradotto da Internazionale), per l’università italiana è quasi sempre un professore ordinario, di solito un uomo, di solito di una certa età.
Talento, passione, qualità scientifica della ricerca assumono in questi termini una valenza irrisoria, come anche una qualsiasi etica del lavoro: se vuoi sopravvivere puoi ragionare soltanto secondo logiche di profitto, senza più riuscire a separare la lettura, lo studio e la scrittura dalla ricompensa in termini di curriculum. Il gioco si basa dunque sulla strategia messa in atto dal singolo per raggiungere le soglie quantitative necessarie per rientrare nella rosa dei migliori, ma soprattutto su quanta pressione psicologica egli è in grado di sopportare e, per una donna, sulle sue capacità di resistenza a una particolare lingua violenta. Una lingua mite, che, come ricorda la studiosa Raffaella Scarpa nel suo ultimo libro dedicato alla violenza domestica, Lo stile dell’abuso, è una vera e propria macchina di manipolazione e di tortura, la cui brutalità non si palesa nell’insulto e nell’urlo feroce ma, al contrario, si muove in sordina, riuscendo a poco a poco a farsi spazio nella tua testa.
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