L’aggressività di un tenero carnivoro

Se noi umani uccidiamo (anche i nostri simili) ci sono motivi biologici, sociali, evolutivi ed ecologici.


IN COPERTINA, un’opera di ennio calabria – Asta Pananti in corso

Questo testo è un estratto da Teneri carnivori di , ringraziamo Meltemi per la gentile concessione.


di Paul Shepard

Traduzione di Francesco Testini

L’aggressività animale è inseparabile dai suoi opposti: inibizione alla lotta, cooperazione e compassione. Tutti gli animali sono aggressivi in alcuni momenti, anche i più placidi vegetariani, basti pensare ai combattimenti tra montoni. La lotta tra membri della stessa specie è molto diversa dall’uccisione di una preda da parte di un predatore, e la lotta psicopatologica è molto diversa dal normale conflitto. Tutti gli animali sono predatori (o opportunisti) poiché si procurano e mangiano altri organismi. I carnivori, che si nutrono di carne, devono catturare, uccidere e smembrare le loro prede. L’uomo è in parte un carnivoro: il maschio della specie è geneticamente programmato per inseguire, attaccare e uccidere per nutrirsi. Nella misura in cui gli uomini non fanno questo, non sono pienamente umani.

All’interno delle loro specie e società, tutti gli animali sono occasionalmente competitivi, irritabili e antagonistici. L’aggressione contro i propri simili, come quando i cervi incrociano le corna per le femmine o i gatti domestici danno una ripassata ai giovani per iniziarli alla vita nel gruppo, è sempre soggetta a segnali precisi che contengono, inibiscono o deviano l’attacco. Il mondo animale è pieno di segnali per l’appianamento dei conflitti, per dirottare gli attacchi e permettere la fuga dei rivali sconfitti. Tra gli uomini, la risposta istintiva alla sottomissione è abbastanza generale, tanto che i segnali esatti con cui lo sconfitto dice “basta” possono essere modificati dalle abitudini locali.

Per gli esseri umani moderni la questione se l’uomo abbia o meno un istinto assassino è stata incentrata in modo fuorviante sulla guerra e sui fini politici della pace. Poiché gli uomini uccidono in massa, questo potrebbe sembrare un insolito comportamento specie-specifico, oppure qualcosa che una creatura biologicamente pacifica e cooperativa ha imparato a fare; in altre parole, un comportamento innato e istintivo oppure appreso e culturale.

Nessuna delle due alternative è corretta. La guerra è l’espressione statale di una patologia sociale. Dal punto di vista ecologico, rappresenta il collasso della distinzione fondamentale, che ogni specie sana è normalmente in grado di tracciare, tra comportamenti interspecifici e intraspecifici e l’uso della predazione organizzata. La guerra si verifica laddove gli uomini non possono cacciare regolarmente e dove la densità di popolazione è troppo elevata. In modo frankensteiniano, la guerra fonde elementi del sistema gerarchico proprio dei primati, usandoli come base per l’organizzazione militare, con le doti cooperative ma letali del carnivoro sociale umano. Ogni aspetto della condotta militare onorata e incoraggiata dagli eserciti negli ultimi cinquanta secoli è una forma distorta delle qualità evocate negli antichi riti di iniziazione degli adolescenti: fedeltà, idealismo, abilità e coraggio.

I principali aspetti della guerra – l’omicidio cooperativo – possono essere osservati in tutti i predatori in gabbia o sotto stress. Gli aspetti comportamentali delle uccisioni non necessarie e dell’assassinio di propri simili da parte dei predatori sono normali nel contesto del procacciamento del cibo. Ma né tra gli animali liberi né tra i cacciatori-raccoglitori la guerra è mai stata una componente integrante della vita quotidiana. Tra tutti i carnivori, gli individui occasionalmente uccidono altri individui. A volte si tratta di un’esplosione di rabbia incontrollata, ma di solito è il risultato di un disturbo cronico che ha portato instabilità nella composizione del gruppo. Tra i gruppi indigeni in cui il prestigio viene guadagnato attraverso l’audace uccisione di un membro di un’altra tribù, di solito si riscontrano livelli di stress anormali. L’espressione socialmente sancita della violenza è un tentativo di far fronte a pressioni che deformano e minacciano la condizione umana dopo che misure espiatorie più pacifiche hanno fallito.

L’espressione del normale pensiero infantile del “processo primario” (desiderio di onnipotenza, gratificazione immediata, emozioni incontrollate ed espressione dei sentimenti tramite azioni) è tranquillamente sommersa nel mito; le sue tensioni sono liberate dal racconto o, a volte, può essere invocata nel momento del bisogno per avallare sistemi di credenze illusorie. Queste espressioni vengono messe in scena in spettacoli di violenza socialmente organizzata, come mutilazioni rituali, torture ed esecuzioni: misure disperate e scioccanti (e solitamente efficaci) per riaggiustare le nevrosi del gruppo attraverso capri espiatori.

Quando è minacciato da forze disgreganti come un’improvvisa mortalità di massa, una miseria estrema, un’invasione esterna, eventi climatici insoliti, patologie sanitarie o nutrizionali generalizzate o il collasso di importanti istituzioni sociali e religiose, normalmente un gruppo reagisce in questo modo. In sostanza, il meccanismo di induzione di prova e dolore, con tutto lo shock e l’orrore che comporta, funziona come il dolore autoinflitto che impedisce a un uomo di crollare sotto un intenso stress fisico o psichico. Come la spia catturata che stringe vetri rotti nei pugni per evitare di rivelare segreti ai suoi aguzzini, la società controlla la sua paura e le sue ferite attraverso un trauma indotto e controllato. La sua psicopatologia di massa viene incanalata, limitata ed esorcizzata con il minor danno possibile.

L’incidenza dei disturbi mentali che portano al massacro reciproco è forse la prova migliore che il cervello umano è vicino ai suoi limiti tollerabili in quanto a dimensioni. In passato potrebbe aver già superato questo equilibrio ed essere stato ridotto dalla selezione naturale, invertendo la tendenza all’ingrandimento. In alcuni fossili di Neanderthal il cranio medio era leggermente più grande di quello dell’uomo moderno. E ci sono prove di cannibalismo e di omicidi rituali. La grande esplosione di conquiste umane tra i successivi popoli Aurignaziani è forse il riflesso di una proficua marcia indietro dell’evoluzione.

La crisi dell’ipertrofia mentale non finisce qui. L’ipercomplessità è determinata dalla funzione oltre che dal volume. Un mutamento ambientale può rendere il cervello inadatto. Una mente acuta e affilata come un rasoio, utile in un mondo in cui gli uomini sono rari, può essere eccessiva in un mondo popolato da miliardi di persone. Oggi, però, la manifestazione sintomatica di un cervello troppo grande non è più la cerimonia del capro espiatorio, ma la follia con cui la società di massa si consegna nelle mani dei militari. I cacciatori-raccoglitori non fanno la guerra.

Un’ambiente con un’elevata densità di popolazione non è l’unico incompatibile con un cervello di grandi dimensioni. Nell’entroterra della Nuova Guinea c’è un popolo di cui si è scritto e filmato molto negli ultimi anni. Gli uomini sono impegnati in una guerra intertribale cronica, che prende la forma di schermaglie e imboscate più o meno organizzate. La loro vita è stata descritta come “un incessante carosello di morte e vendetta”. La loro cultura è dominata da feroci culti di stregoneria le cui macabre fantasie non servono tanto come valvola di sicurezza quanto come macchine inarrestabili di paura e odio. Ma nonostante la loro celebrata “primitività”, questi popoli non sono veri cacciatori. Come i popoli della foresta tropicale dell’alta Amazzonia, non hanno grandi mammiferi da cacciare. Dal punto di vista psichico, la raccolta di tuberi non è un’occupazione più adatta per loro di quanto non lo sia fare spesa al supermercato per un uomo di Detroit. Come per gli uomini dell’era industriale, la loro privazione ha conseguenze psicotiche. Non sorprende che gli abitanti della Nuova Guinea, discendenti di lontani cacciatori, ora isolati in una terra priva di grandi prede, si mutilino (anche se non hanno automobili per questo scopo) e mostrino vanamente la loro eterna frustrazione in una furiosa ricerca di alternative alla caccia.

Di certo nessun altro animale presenta un livello di uccisioni e aggressioni intraspecifiche simile a quello che si verifica all’interno della nostra specie. Il fatto che le guerre siano continuate nonostante la varietà di forme politiche sperimentate nel corso della Storia scritta, suggerisce che il problema è a un livello più profondo dei sistemi ideologici. I duelli con le lance della Nuova Guinea e la corsa ai missili della Grande Potenza sono altrettante disfunzioni biologiche: istintive, ma patologiche. Come in altre forme di malattia mentale, le vere cause sono sommerse nell’oscurità dell’inconscio, protette da immagini e idee coscienti che sono l’opposto della verità, come lo stereotipo del contadino pacifico. La guerra moderna viene attribuita al fallimento delle convinzioni o della volontà, o al fallimento della leadership, o all’incapacità di contenere il selvaggio e arcaico animale sotto la nostra pelle. In realtà, le spade di guerra sono forgiate con i vomeri. Considerare virtuoso l’allevamento di capre e il dissodamento del suolo è un autoinganno; la guerra è emersa con un cambiamento ecologico, che ha prodotto il concetto arrogante di proprietà terriera e le lotte per le risorse, lo spazio e il potere.

Mario Cavaglieri : In campagna – Olio su tela – all’asta da Pananti Casa d’Aste

L’apparente contraddizione tra gli attributi aggressivi e pacifici del carnivoro-cacciatore richiede un’analisi più approfondita dei carnivori in generale. Come è stato osservato, tra membri della stessa specie i combattimenti sono normalmente ritualizzati (diventano una sorta di danza) e la maggior parte delle ferite e delle uccisioni sono patologiche. Tra specie diverse, soprattutto tra i grandi predatori, le uccisioni sono rare, nonostante i combattimenti tra leoni e tigri o tra orsi e leoni messi in scena dai circhi e da documentaristi irresponsabili.

I grandi carnivori sono pochi per specie e numero, e sono molto intelligenti. La loro attenzione, a differenza di quella dei vegetariani, è concentrata su una preda itinerante piuttosto che su piante radicate in un luogo: il “cosa” non il “dove”. Le scimmie antropomorfe in cattività si agitano visibilmente quando la ciotola del cibo viene spostata, mentre coyote e leoni non lo fanno. La dimensione dei mammiferi carnivori è inversamente proporzionale alla loro fecondità ed è direttamente proporzionale alla capacità di apprendimento espressa nel loro repertorio comportamentale.

I carnivori-cacciatori hanno il sonno profondo. Il sonno, associato a una complessa attività nervosa, è suddiviso in fasi specifiche negli animali dal cervello grande. Una fase, il sogno, mette in scena funzioni che sappiamo essere necessarie ma che non comprendiamo del tutto. Il contenuto e la struttura dei sogni nell’uomo sono legati alle esperienze individuali e di specie, per cui l’analisi dei sogni fornisce una visione unica degli ambienti e delle attività “attese” dall’organismo e può aiutare a ricostruire la vita quotidiana e l’ecologia originaria della nostra specie.

I vari tipi di animali cacciatori di solito non sono competitivi. In un’area data, specie di dimensioni diverse vivono in bande o raggruppamenti di caccia con stili venatori, habitat, preferenze alimentari e ritmi giornalieri diversi. Lupi e linci occupano lo stesso habitat, ma cacciano in modo molto diverso e uccidono specie diverse di prede. I lupi braccano, circondano e attaccano da dietro, mentre i felini seguono, tendono agguati e attaccano da davanti. Questa immagine di un insieme integrato di predatori, ognuno dei quali svolge un ruolo ecologico, riducendo al minimo la competizione, con procedure caute e deliberate, smentisce l’immagine dell’assassino sanguinario e furioso o della creatura immaginaria che uccide “per il piacere di farlo”. L’analogia comune tra un “berserk” assassino e un animale predatore semplicemente non è vera.

L’ecologia della caccia prevede una strategia che è stata definita “la prudente politica della predazione”. Nell’evoluzione della predazione ci sono considerazioni a lungo termine che prevalgono sulla mera efficienza dell’uccisione. Per il predatore è infatti svantaggioso massimizzare il numero di uccisioni se ciò è dannoso per la stabilità della popolazione di prede e quindi per le future generazioni di predatori.

Il predatore prudente non è uno sterminatore. Svolge un ruolo in un sistema di autoregolazione, consumando le sue prede senza superare il loro tasso di sostituzione. Entro questo limite, la predazione ha l’effetto di aumentare il tasso di natalità della preda, eliminando i vecchi, i meno abili e i non produttivi, il cui posto viene preso da individui vigorosi. In un certo senso, il carnivoro utilizza la preda per produrre cibo dalle piante. L’efficienza di questa trasformazione non supera mai il 15% circa, perché la preda erbivora ha già utilizzato nella propria attività metabolica la maggior parte dell’energia delle piante che mangia. I suoi tessuti corporei rappresentano la parte rimanente, ma per far sì che il carnivoro la prenda senza danneggiare la specie predata, la preda deve essere “raccolta” nella giusta fase del suo ciclo vitale.

Il predatore, ovviamente, non comprende consapevolmente questa complicata equazione. E nemmeno il cacciatore umano la comprende nonostante la sua intelligenza superiore, perché di solito non ha le informazioni necessarie per portare la sua attività di caccia alla massima efficienza ecologica. Come tutti i cacciatori, gli uomini adottano quindi un approccio pragmatico. Poiché un numero troppo basso o troppo alto di prede è dannoso per il sistema in cui predatore e preda sono complementari, i cacciatori adottano una modalità operativa che raggiunge lo stesso fine indicato dall’analisi matematica: una certa densità di popolazione di predatori (di solito ben al di sotto del potenziale riproduttivo e dell’effettiva capacità di carico dell’ambiente); una raccolta variabile di diverse specie di prede; una scelta di singole prede la cui perdita incida il meno possibile sulla popolazione generale (principalmente quegli animali con la più alta probabilità di morire presto per qualsiasi causa, in particolare i vecchi e i malati). Nella maggior parte dei carnivori, la capacità di operare una scelta di questo tipo è il risultato dell’istinto e dell’esperienza; nell’uomo, è più spesso il risultato di tabù e rituali empirici che limitano la caccia.

La strategia della preda consiste nel separare il più chiaramente possibile gli animali che perpetueranno la specie e sosterranno i comportamenti del gruppo dagli esemplari difettosi, senili e malati. Fornendo alcuni animali che trasmettono l’energia delle piante ai carnivori, la preda può assicurare più efficacemente la sopravvivenza di quegli esemplari che porteranno avanti il patrimonio genetico della specie nelle generazioni future. La preda è infatti impegnata anche nell’obiettivo a lungo termine di eliminare i geni difettosi e le combinazioni genetiche scadenti, deviandoli dal pool genetico e migliorando così la qualità della specie.

Nel considerare l’uomo come un carnivoro, il fatto essenziale è che egli è diventato umano nello stesso momento in cui è diventato un cacciatore di selvaggina di grossa taglia. L’onnivoro Australopithecus, che si cibava di scarti, è stato un passaggio intermedio nella transizione. I successivi cacciatori dell’Era glaciale del genere Homo, con i loro strumenti raffinati e le loro tattiche di cooperazione, inseguivano i più grandi animali terrestri viventi. Gli ultimi cacciatori del Paleolitico elevarono l’arte della caccia al centro di una complessa filosofia di vita. E durante tutto questo periodo, principi fondamentali dell’equilibrio predatore-preda non furono mai abbandonati. 


Paul Shepard (1925-1996) è stato uno zoologo, naturalista e ambientalista ame-ricano. PhD in Conservation, Landscape Architecture, and History of Art a Yale, dal 1973 al 1994 ha insegnato Natural Philosophy and Human Ecology al Pitzer College di Los Angeles.

2 comments on “L’aggressività di un tenero carnivoro

  1. Il testo è molto interessante, ma mi chiedo se Paul Shepard lo abbia scritto in italiano… oppure avete dimenticato di citare chi lo ha tradotto?

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