L’altare

Il racconto che segue, tradotto da Ilaria Mazzaferro, fa parte dell’antologia “Ponte di storie”, pubblicazione del progetto di scritture emergenti omonimo organizzato dagli Istituti italiani di cultura di New Delhi e Mumbai. I curatori del progetto sono stati Matteo Trevisani e Sumana Roy.


In copertina: Sergio Fergola, Sibilla Sambetha (1973) – Olio su tela – Asta Pananti in corso

di Vighnesh Hampapura

Nessuno conosce la storia di Subramanya Shastri. Nemmeno io. Cose del tipo, dov’era prima di venire nel nostro villaggio, che lavoro faceva, chi era suo padre, chi era suo nonno, qual era il vero motivo che l’aveva spinto a trasferirsi qui da noi: io non credo che gli abitanti del villaggio avessero voglia di porsi queste domande. Il suo arrivo. La nostra rovina.

La storia è questa. Quel giorno – ero un bambino, perciò tutto quello che vi racconto si basa su quello che mi è stato raccontato, che ho origliato, sulle voci che giravano e così via; non so che cos’è vero e che cos’è falso, ma vi dirò tutto ciò che so, va bene? – quel giorno, quando Almelamma era andata da sola nei campi, per cercare la mucca che non era ancora tornata dal pascolo, nemmeno per le sei e mezzo, chiamandola con la sua voce penetrante, «Kalli, amma Kalli», vide da lontano una luce fioca dietro le finestre e le porte aperte del tempio di Sangameshwara Swami, chiuso ormai da tre anni. La mucca dispersa di Almelamma, quella Kalpavalli, stava ruminando frutta selvatica da una foglia di platano lasciata sull’ultimo gradino del tempio. Quando Almelamma raccolse tutto il suo coraggio e varcò la soglia del tempio, Subramanya Shastri stava strofinando la cenere vibhuti sull’idolo linga che aveva appena lavato versandovi molte brocche d’acqua. Un tipo alquanto grossolano, quell’uomo. Aveva spalmato la vibhuti con tre dita, ma sull’idolo linga si era formata una striscia unica. Ma lasciamo stare. Quel giorno, Subramanya Shastri stava stendendo la cenere sull’idolo. Sua moglie, Shardamma, intrecciava una ghirlanda di fiori davanti al garbhagudi, il tempio interno.

«Chi siete voi, pa?» chiese subito Almelamma, e marito e moglie risposero che erano appena arrivati al villaggio, che erano rimasti a sedere a mani vuote per molto tempo perché sapevano che il loro destino era con dio e nient’altro, e che la notte prima avevano sentito una voce divina che gli aveva parlato di un tempio abbandonato, a un furlong – circa 200 metri – da Sarkote, a Sangameshwara Srikshetra – un punto in cui confluiscono tre fiumi e per questo chiamato anche triveni sangama –, dove dovevano recarsi immediatamente ed eseguire ogni giorno i rituali della puja e dell’abhiseka, lavando l’idolo, decorandolo con ghirlande, e in men che non si dica si erano ritrovati a spalancare le porte del tempio. Almelamma sparse la voce in paese, prodigandosi anche in parole di lode: «Eh, quell’uomo chiama la nostra città Srikshetra, terra della prosperità. Abba, finalmente abbiamo un sacerdote per il nostro tempio. Abbandonato com’era».

Tanto si sa cosa succede quando si sparge una notizia. Di lì a quattro giorni, tutto il paese era davanti al tempio. E quando, con le due brocche ricolme dell’acqua delle sacre sponde dei tre fiumi che confluivano l’uno nell’altro, Subramanya Shastri bagnò il linga da capo a piedi, l’avvolse in un raffinato panche, gli stese la cenere sulla fronte, gli mise delle ghirlande in testa, e infine passò a sua moglie il gong che riecheggiò per l’intera durata del solenne arati; in quel momento tutti gridarono all’unisono: «Shiva, padre nostro, Hara Gara Mahadeva!» prima di incoraggiare Chelvi, la graziosa figlioletta di Neelamma, a intonare un canto al dio della distruzione.

Sergio Fergola, Sibilla Sambetha (1973) – Olio su tela – Asta Pananti in corso

Subramanya Shastri decorò e venerò con grande devozione il linga mentre predicava a chiunque arrivasse lì – me compreso: «Come sapete, Shiva apprezza molto il rituale dell’abhiseka. Vuole fare un bel bagno. Non l’aveva già detto anche Basavanna? Nadapriyanalla. A Shiva la musica non piace. Vedapriyanalla. Neanche i veda gli piacciono, e d’altronde io non ne conosco nemmeno mezza parola. Ma Kudalasangamadeva, la divinità di Basavanna, era un bhaktipriya – gradiva molto la devozione. E altrettanto lo è Triveni Sangameshwara, il nostro dio. Tutto ciò che dobbiamo fare è l’abhiseka con grande bhaktì, con grande devozione. Dobbiamo mettergli una brocca d’acqua sopra la testa in modo che lo bagni goccia a goccia, un secondo dopo l’altro. Lui ci concederà tutte le benedizioni che vogliamo».

E perciò se ne stava lì, a parlare di filosofia spicciola, e a cibarsi delle banane e delle noci di cocco che crescevano sulle piante del tempio. Lì intorno crescevano anche patate dolci e spezie. E dormivano, moglie e marito, sui grandi davanzali di pietra fissati alle vecchie pareti del tempio. Ma non andò avanti così per molto. Perché lui non ebbe più problemi di cibo dopo la prima visita dell’adyaksha – la massima autorità politica locale – al tempio. Dopo le preghiere e l’ispezione, il nostro villaggio mise nelle mani dell’assistente dell’adyaksha un centinaio di rupie con un ordine ben preciso: «Di’ a Sharnappa di procurare loro scorte per un mese. Spiegagli che loro sono il nuovo sacerdote e sua moglie e che il villaggio pagherà per loro ciò di cui hanno bisogno». E così i due non dovettero più pensare al cibo. Anche se, ovviamente, a noi era proibito invitarli in casa nostra per il pranzo o la cena – erano bramini, non potevano venire.

Ma c’era una persona. Swarnagauramma, vedova di Naraharibhatta – non vi ancora ho detto nulla di lui, scusate; era il nostro sacerdote di prima, morto ormai da tre anni. Ora la vedova, Swarnagauramma, di sua iniziativa preparò il riso, cucinò il saaru, e chiese a Shardamma di portare suo marito per cena. Swarnagauramma servì loro il cibo quella sera, finì gli avanzi, dormì tutta la notte e non si risvegliò mai più. Le persone dicevano che la sua povera anima aveva aspettato per tutti quegli anni prima di esalare l’ultimo respiro solo per servire il cibo all’uomo che avrebbe preso il posto del marito e benedire la donna che avrebbe preso il suo. Un’anima così doveva essere cremata dal villaggio. Bruciammo il corpo e spargemmo le ceneri nel triveni sangama – i tre fiumi sacri l’avrebbero portata dritta fuori dal ciclo della rinascita.

Poiché Naraharibhatta non aveva figli, non ci furono problemi di eredità. E a ogni modo, la casa gli era stata assegnata dal villaggio. Ho sentito che le persone lo avevano addirittura seguito a piedi nel suo tragitto dalla capanna fatiscente e ancestrale in cui viveva alla casa appena costruita, che le donne del villaggio avevano decorato con fiori, foglie di mango e rangoli. Era stato invitato anche un sacerdote del villaggio vicino per la vastu puja. In questo senso, dunque, la casa apparteneva agli abitanti del villaggio, no? Ormai da qualche tempo, il nostro adyaksha era tutto preso dall’organizzazione per il nuovo sacerdote, e le porte di questa casa tornarono ad aprirsi. L’adyaksha propose l’idea nel panchayat, la folla diede il proprio assenso all’unanimità, e la casa passò a Subramanya Shastri. Il sacerdote precedente era vissuto lì e sempre lì dentro era custodito l’utsavmurthy – il piccolo idolo del tempio che si usa per le processioni –, per cui era normale che la casa spettasse al nuovo sacerdote. «Un degno successore» commentò Almelamma.

Passarono i giorni. Tutti noi ci affezionammo a loro, al punto da avere la sensazione che i due fossero sempre vissuti lì. E Shardamma – abbabbabbabba – dava addirittura una mano nelle nostre fattorie. Se le chiedevi come facesse a sapere tutte quelle cose, rispondeva con un sorriso: «Ma sì, non faccio niente di speciale. Dio dice fai questo e io lo faccio». Ricordo che una volta ci chiese di prenderle un bicchiere d’acqua da casa nostra come se a lei non importasse niente delle nostre usanze. E quando amma – mamma – nella sua innocenza le chiese se le andava del caffè, Shardamma disse di sì. Incredibile!

Dovevano essere passati all’incirca tre mesi dall’arrivo di Subramanya Shastri, quando uno di noi ebbe un’idea: chiedemmo al nostro adyaksha se potevamo rimettere in piedi il nostro Jatra. Il festival annuale presso la dimora di Sangameshwara. Chi mai poteva avere qualcosa in contrario? Quando i paesi vicini celebravano il loro Jatra, noi preparavamo le nostre mucche, capre e bambini, indossavamo i nostri sari e camicie migliori e partivamo con i nostri motorini e biciclette – e qualcuno a piedi – per goderci i colori, la musica e le danze degli dèi. Concorderete con me che i Jatra sono sempre indimenticabili. Il nostro Jatra era di gran lunga il migliore perché dovete sapere c’era quest’uomo ricchissimo, che veniva da un grande paese di cui ora non ricordo il nome. Quando venne a sapere che la divinità della sua famiglia era Sangameshwara, quest’uomo fece tutta la strada fino a qui a bordo della sua Innova, parlò con tutti quelli di noi che si erano radunati attorno a lui, fece preparare del cibo davanti al tempio e lo servì a ogni abitante del villaggio, e donò dodicimila rupie per placcare d’argento il vecchio carro di legno. Con quei soldi, Naraharibhatta e il nostro adyaksha mandarono a chiamare una persona da Malnadu e Sarpete, impreziosirono il carro ricoprendolo d’argento e fecero costruire persino una nuova capanna con i fondi del panchayat. Nei giorni del Jatra facemmo dhaam dhoom, baldoria: se foste venuti, ve ne sareste accorti. Sono arrivate persone da sedici villaggi. Si vendevano cose bellissime. Abiti, braccialetti, giocattoli, oggetti di acciaio, condimenti speziati, masala. E il festival? Naraharibhatta celebrava la puja cinque volte al giorno. Un arati finale sul fiume alla sera, perché il punto d’incontro doveva essere oggetto di adorazione. Se era stagione, usavamo l’amla per farne delle lanterne che poi affidavamo alle correnti del fiume.

Gli abitanti del villaggio volevano rivivere tutto questo, ora che avevamo un nuovo sacerdote. Subramanya Shastri disse: «Per me è una cosa completamente nuova, ma facciamolo». A quelle parole noi bambini ci mettemmo subito all’opera. In pratica, andavamo di villaggio in villaggio a spargere la voce. «Ci sarà di nuovo il Jatra nel nostro paese. Ricordatevi le date» gridammo, «Ah, non lo sapevate? Abbiamo un nuovo sacerdote ora. Subramanya Shastri, è così che si chiama. Un brav’uomo, celebra delle puja meravigliose. Oh, Gauramma, dici? Se n’è andato, vive con Shiva adesso». E ripetevamo tutto da capo.

Il giorno del Jatra, venne Srinivasappa dalla grande città. Sangameshwara è la divinità anche della sua famiglia. Tutte le volte che viene dà duemila rupie per il tempio. Non c’è da stupirsi. Una catena spessa al collo, un braccialetto sulla mano, la superficie dei terreni che possiede è grande come il nostro villaggio. È un uomo che ha sempre premura. Arriva, sorride, giunge le mani, dice: «Tutto grazie a Sangameshwara, la vostra gentilezza è la mia vita», porge i soldi, e se ne va a passo svelto. E va bene. Ma ce n’è un altro. Viene una volta all’anno puntuale come un orologio, anche quando non ci sono sacerdoti, resta fuori a pregare, fa un piccolo picnic in riva al fiume con la famiglia; insieme intonano canzoni e inni religiosi e ridono, e a sera se ne vanno. Un bramino. Una casta alta. Seshappa. Anche lui era venuto al Jatra. Sua moglie, suo figlio, tutti. Per tutti e tre i giorni.

L’ultimo giorno, appena prima del panchamruta abisheka – quella cosa quando versano latte e mostarda e ghi e miele e zucchero sul linga – Seshappa esordì: «Che ne dite di cantare il Rudra durante l’abisheka?» Il viso di Subramanya Shastri si afflosciò come i fiori nell’angolo ormai appassiti dopo qualche giorno. Intervenne Shardamma: «Perché mai, Seshappa saar? Ci siamo quasi. Le cerimonie abisheka e arati tra un po’ finiscono. Stanno tutti ad aspettare. Il Rudra non ci porterà via tempo?» Seshappa scoppiò in una risata fragorosa. «Shardamma, Shardamma. Se tuo marito non sa il Rudra» disse, aggiungendo con voce bassa e dura queste parole: «ammettilo e finiamola qua. Non provare a proteggerlo». E poi a voce alta: «È da un po’ che ascolto i suoi mantra. Non sa distinguere sa da sha, ha da aa. Si mangia le sillabe difficili. E voi dite che c’è del bhaktì in questo. Mi pare non serva aggiungere altro». Poi rivolto a suo figlio: «Vieni, Advaita, intona tu il canto, io ti vengo dietro».

Shardamma si era chiusa nel suo silenzio. E Subramanya Shastri si girò completamente verso il linga e iniziò a mettere fiori sull’idolo uno dopo l’altro. Questo Seshappa e suo figlio Advaita rimasero lì per parecchio tempo a pronunciare un mantra dopo l’altro. Non capivamo una parola, ma sembrava un momento importante e solenne. Quando era morto Naraharibhatta, quest’uomo aveva staccato il telefono in modo che i nostri anziani non potessero chiamarlo. Quando finalmente andarono a casa sua implorandolo di trovarci un sacerdote, lui disse di sì con convinzione, offrì loro due banane e un bicchiere di latte e, da quel giorno, non ci guardò più in faccia. Ogni anno che si ripresentava, diceva: «Ancora senza sacerdote, eh?», come se fosse dispiaciuto e tornava al suo picnic in famiglia. Ora voleva dimostrarci che lui e suo figlio erano meglio del nostro Subramanya Shastri, che lavava ogni giorno il linga con le sue mani. Quand’ebbero finito, la moglie di Seshappa li lodò: «I vostri mantra erano così belli che sono rimasti tutti immobili in silenzio». Se l’avessi saputo quel giorno – ero un bambino nella folla – avrei detto: «Non stiamo in silenzio per via dei mantra. È che ci sentiamo umiliati e non sappiamo come rispondervi».

Quella sera, l’adyaksha dovette andare a casa di Shastri a consolarlo. Aveva cercato in tutti i modi di trovare le parole giuste: «Non starti troppo a fissare, Seshappa è fatto così, vuole mettersi in mostra» e cose del genere. Altri dicevano parole rassicuranti. «Dopo il tuo arrivo, la stanza di Sangameshwara è sempre illuminata da una lampada. Credi che noi diamo importanza a qualcuno che si presenta qui una volta l’anno? Certo che no!» Almelamma, come sempre, aveva detto la sua. «Tu dai il cibo alle nostre mucche. E Shardamma si prende cura dell’utsavmurthy come nessun altro. Mi parli sempre del bakhtì, quindi perché mai dovrebbe metterti pensiero quell’uomo? Dài, mangia, Shastrappo!». Sembrava che niente potesse smuoverlo. Mi hanno raccontato che fu solo quando l’adyaksha gli suggerì di accendere le lampade al ghi davanti all’idolo che era in casa che sul volto di Shastri si intravide un accenno di soddisfazione. Ogni giorno andavano a trovarlo a casa la sera. C’era la lampada al ghi. E c’era anche la felicità. Ma quell’anno non piovve.

Non che ci mancasse l’acqua. Al nostro villaggio c’erano le pompe. E i rubinetti. Da qualche parte l’acqua arrivava anche se non dai nostri fiumi. Ma il fiume è dio. Il dio che scorre sul grembo di Sangameshwara Questa è l’acqua che deve essere usata per purificare le nostre case, per pulire le nostre mucche, per lavare il linga. E non si tratta semplicemente di un fiume o due, ma di tre fiumi che si uniscono. È per questo triveni sangama che abbiamo Sangameshwara. Quindi quando le piogge cessarono e i fiumi iniziarono a prosciugarsi, si diffusero paura e preoccupazione. L’acqua arretrava sempre di più, al punto che Subramanya Shastri impiegava ormai mezz’ora per portare l’acqua per il linga. Dopo qualche tempo, era visibile solo un rigagnolo d’acqua, nient’altro.

In quei giorni al villaggio non si parlava d’altro.

«Oddio, perché le piogge non arrivano quest’anno?».

«Haan, ho chiesto anche ad Ambaralli Kittappa. Se le piogge arriveranno o no. Lui ha rivolto gli occhi al cielo e ha detto ‘niente piogge almeno per un altro mese’».

«Ma taci, dài, che vuoi che ne sappia lui?».

«È che loro sono così di famiglia. Dal bisnonno di Kittappa in poi, in quella casa hanno tutti occhio per queste cose».

Fu durante una di queste conversazioni che Almelamma disse: «Ormai il fiume è ridotto a un rivolo. Che destino, dico io! Come farò a lavare le mie mucche?».

«Che vai dicendo, Almelu? Riempi un secchio e strofina la pelle con un asciugamano, andrà tutto bene».

«Taci, che ne sai tu?» Fu a questo punto che Almelamma aggiunse un po’ di pepe al discorso. «Se il fiume si è prosciugato, dev’essere un segno dei nostri peccati. Sì, devi credermi: il fiume è dio. Penso che tutto questo abbia a che fare con quel Subramanya Shastri».

«Cosa?! Che cosa vuoi dire? Che cosa stai dic—»

«Ragiona un attimo, no? Il tempio è rimasto chiuso per tre anni, giusto? Eppure il fiume è stato sempre pieno. Mica è un fiume piccolo, il nostro. Anzi, ne sarebbero tre. Dovrebbe essere impetuoso. E guarda ora cos’è diventato. Il fiume è arrabbiato. Il nostro Shiva è arrabbiato».

«Bla bla bla, sono solo chiacchiere. Stava andando tutto per il verso giusto…».

«Giusto cosa? Ma tu lo sai? Lo sai come si celebra la puja? Quando qualcuno che di queste cose ne capisce ce l’ha detto, noi non abbiamo ascoltato. Piuttosto siamo andati a consolare Shastrappa. D’altronde Seshappa l’aveva detto, no? Quel sacerdote non sa pronunciare neanche un mantra. Senza quello, come fanno gli dèi a essere felici?».

E continuò a sciorinare un’argomentazione dopo l’altra così da mettere a tacere tutti coloro che provavano a contraddirla.

«E anche se non conoscesse i mantra, Almelamma? Tu ci hai detto solo che a loro è comparso Shiva in sogno».

«Questo è quello che mi hanno detto loro. Ma che ne so io se è vero?».

«Adesso basta. Sono bramini. Qualsiasi cosa facciano, a dio piacerà».

«Sì, sì, sono bramini. Convinto tu. Ma si comportano come tali? Tu non lo sai: dovresti metterti davanti casa loro quando Shardamma cucina. Si sente un odore fortissimo di masala. Da quando in qua nelle case dei bramini si usa la masala forte, dimmi un po’?».

Quella sì che era una novità.

«E poi sono arrivati, hanno mangiato a casa di Gauramma e guarda caso lei ha tirato le cuoia. Oh, avrei dovuto capirlo subito. Cerchiamo almeno adesso di aprire gli occhi: loro hanno fatto il peccato e a noi ci tocca la punizione».

Le parole di Almelamma si diffusero in un lampo, divampando come un incendio. Su insistenza delle mogli, tutti gli uomini andarono dal capo del villaggio.

«Thu, credete anche voi a questa versione dei fatti? Quell’uomo fa la vita di un santo. Perché volete metterlo in cattiva luce?».

«Abbiamo i nostri motivi, swami. Non sappiamo da dove viene. Non sappiamo come si chiama. Non conosce il mantra. Non conosce il tantra. Mettono l’aglio nel saaru – non sappiamo nemmeno se sono bramini. Da quando viviamo qui, quante volte è successo che il fiume si prosciugasse?».

La questione arrivò anche alle orecchie di Shardamma e Subramanya Shastri. L’adyaksha dice che Subramanya Shastri era entrato in punta di piedi a casa sua dopo mezzanotte per dirgli che stavano lasciando il villaggio. «Ma non puoi abbandonare Shiva solo perché qualcuno dice stupidate, Shastrigale. Ti prego. Tu sei il nostro salvatore. Il salvatore del tempio. Prega per noi piuttosto. Prega per le piogge» gli aveva detto l’adyaksha, stringendogli le mani nelle sue.

Da quel momento, Shardamma non uscì più di casa. Non mise più piede neanche in giardino, né alla fattoria. Qualcuno dice di averla vista uscire di notte in giardino a cogliere fiori, con il volto coperto dal sari. Se lei aveva smesso di mettere l’aglio nel saaru, Subramanya Shastri aveva proprio smesso di mangiare. E un giorno iniziò a vivere nel tempio, dopo averne chiuso le porte alle quattro del mattino. Niente cibo. E niente sonno – chissà? Passava tutto il giorno in preghiera.

Almelamma non smise di parlare, però. «Secondo lui, chiudendo le porte del tempio gli verranno in mente i mantra? Uno, prima di mettersi a pregare, dovrebbe sapere come si fa. Shiva è arrabbiato. Se apre il terzo occhio, l’acqua è sparita, noi siamo spariti. Spariti, spariti, spariti».

Credo che a quel punto anche Subramanya Shastri fosse arrivato al capolinea. Probabilmente piangeva dietro le porte chiuse. Shardamma piangeva di sicuro, lo sapevamo tutti. Aveva sempre gli occhi gonfi e arrossati. Quell’uomo restò rinchiuso nel tempio per quarantotto giorni. La notte in cui tornò, la quarantottesima, sentimmo il rombo dei tuoni. Io ero uscito a vedere. A quanto pare, tutto il villaggio era uscito a vedere e le prime gocce di pioggia. Una pioggia fortissima. Una pioggia scrosciante. Giorno e notte, notte e giorno, era come vivere nell’oscurità. La terra divenne bagnata e melmosa. L’ultima notte di pioggia imperversò il vento. Nessuno di noi riuscì a dormire bene. Una specie di frastuono. Come un ritmo ipnotico. Una specie di paura.

Quando l’indomani l’adyaksha e gli altri andarono a casa di Shastri, Shardamma li mandò via dicendo che suo marito non era in casa. «Non appena si è messo a piovere, è andato verso il tempio. Ha detto: ‘Shiva ci ha protetti, devo andare a pregare, tornerò quando smetterà’. Ma non è ancora tornato» disse, chiudendosi la porta alle spalle. Povera donna, quella notte nemmeno lei aveva chiuso occhio.

Shardamma aveva detto così, ma Subramanya Shastri non si vedeva da nessuna parte. Le lampade nel tempio erano accese. Il pavimento era cosparso di impronte fangose. Gli abitanti del villaggio lo cercarono ovunque, ma no, sembrava scomparso nel nulla. Shardamma andò al tempio e rimase lì per due mattinate. Uhoon, di Shastri nessuna traccia. Di lì a tre giorni l’avremmo saputo. A circa quattro furlong – quasi un chilometro –, a Karur, il suo corpo era rimasto intrappolato tra le rocce, vicino alla sponda del fiume. Ma nessuno sa dire come abbia fatto ad arrivare lì. Almelamma una spiegazione ce l’aveva. «Sarà andato lì a dare una namaskar al fiume, sarà scivolato ed è caduto. Che uomo senza macchia! Ha portato a tutti noi la pioggia e se n’è andato, ayyo!».

Se volete sapere come la penso io, non credo che Subramanya Shastri fosse così stupido da andare vicino al fiume per fare dei namaskar e cose del genere sotto una pioggia torrenziale. Chissà cosa stava cercando di fare in realtà? In ogni caso, Shardamma rimase vedova. E un giorno, scappò dal villaggio, o perlomeno è questo che pensiamo noi. Dov’è andata? Dove si trova ora? Non lo sappiamo.

Ah, e c’è anche un’altra cosa. Abbiamo sbarrato di nuovo il tempio di Sangameshwara Swami. Sono passati quasi sei anni ormai. Non abbiamo trovato un altro sacerdote.


Vighnesh Hampapura studia letteratura all’Ashoka University e a Oxford, dove ha conseguito una Rhodes Scholarship. Scrive narrativa e poesia e traduce dal kannada all’inglese

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