L’uso di anidride carbonica nel trattamento di depressione e ansia per rieducare il respiro e la gestione della paura ottiene risultati più promettenti (ed economici degli) psicofarmaci, ma la ricerca è stata arrestata.
IN COPERTINA e nel testo, Francis Picabia, Composition mecanique (1919) – Inchiostro e acquerello su carta, Asta Pananti in corso
Questo testo è tratto da “L’arte di respirare” di James Nestor. Ringraziamo Aboca Edizioni per la gentile concessione.
di James Nestor
Nel 1968 il dottor Arthur Kling lasciò il suo ufficio al Medical College dell’università dell’Illinois e prese un volo per Cayo Santiago, un’isola selvaggia e disabitata sulla costa sudorientale di Porto Rico. Si procurò qualche trappola, catturò un gruppo di scimmie selvatiche e portò gli animali in laboratorio per condurre un esperimento bizzarro e crudele. Cominciò aprendo i crani delle scimmie e rimuovendo un pezzo di cervello su ogni lato. Lasciò che le scimmie si ristabilissero, poi le liberò di nuovo nella giungla.
A parte qualche cicatrice sulla testa, le scimmie apparivano del tutto normali, ma nel loro cervello c’era qualcosa che non andava. Faticavano a orientarsi nel mondo. Alcune morirono di fame. Altre annegarono. Altre furono divorate. Nel giro di due settimane, tutte le scimmie di Kling erano morte.
Un paio di anni dopo, Kling andò in Zambia, poco a monte delle Cascate Vittoria, e ripeté l’esperimento. Nel giro di sette ore da quando erano state rilasciate nella foresta, le scimmie alterate sparirono tutte.
Le scimmie morirono perché non sapevano riconoscere quali animali fossero prede e quali predatori. Non avvertivano il pericolo di guadare un fiume in piena, di dondolarsi da un ramo fragile o di avvicinarsi a un gruppo rivale. Non avevano nessuna sensazione di paura, perché Kling aveva asportato la paura dai loro cervelli.
In particolare, Kling aveva rimosso le amigdale, due nodi grossi come mandorle al centro dei lobi temporali. Le amigdale aiutano le scimmie, gli esseri umani e altri vertebrati superiori a ricordare, prendere decisioni ed elaborare le emozioni. Si pensa anche che questi nodi costituiscano il circuito di allarme della paura, segnalando minacce e innescando una reazione di lotta o fuga. Senza l’amigdala, scrisse Kling, tutte le scimmie “apparivano ritardate nella capacità di prevedere ed evitare scontri pericolosi.” Senza la paura, la sopravvivenza era impossibile, o quanto meno molto precaria.
Attorno a quel periodo, negli Stati Uniti, era nata una ragazza, che gli psicologi avrebbero chiamato S.M., con una rara malattia genetica detta sindrome di Urbach-Wiethe. La malattia causava mutazioni cellulari e un accumulo di materiale grasso in tutto il corpo, dava alla pelle un aspetto gonfio e granuloso e rendeva la voce roca. Quando S.M. ebbe compiuto dieci anni, i depositi si erano diffusi nel cervello. Per motivi che nessuno riusciva a comprendere, la malattia lasciò intatta la maggior parte delle aree, ma distrusse l’amigdala.
-->S.M. aveva vista, udito, pensiero, tatto e gusto simili a quelli di chiunque altro. Aveva un QI, una memoria e una percezione normali. Ma quando raggiunse la tarda adolescenza, il suo senso di paura cominciò a spegnersi. Avvicinava perfetti sconosciuti, stando a pochi centimetri dalla loro faccia, e rivelava loro i suoi più intimi segreti sessuali, senza mai temere imbarazzo o rifiuti. Usciva in mezzo alla bufera per chiacchierare con una vicina, senza preoccuparsi delle conseguenze. Mangiava cibo quando lo aveva a portata di mano, ma non si preoccupava di procurarsene se la dispensa era vuota. Non aveva paura della fame.
Perse persino la capacità di riconoscere la paura nei volti di chi la circondava. Non aveva problemi a percepire la felicità, la confusione o la tristezza di amici e familiari, ma non riusciva ad afferrare che qualcuno fosse spaventato o si sentisse minacciato. Le preoccupazioni, lo stress e l’ansia si dissolsero insieme alla sua amigdala.
Un giorno, quando S.M. era sulla quarantina, un uomo su un camioncino accostò e le chiese di uscire con lui. Lei salì a bordo e l’uomo la portò in un fienile abbandonato, la gettò a terra e le strappò i vestiti. Di colpo, un cane corse nel fienile, e l’uomo ebbe paura che dietro ci fossero delle persone. Si allacciò i pantaloni e si spolverò. S.M. si alzò con disinvoltura e seguì l’uomo sulla sua vettura. Chiese di essere riportata a casa.
Il dottor Justin Feinstein incontrò S.M. nel 2006, mentre studiava per un dottorato in neuropsicologia clinica all’università dell’Iowa. Feinstein era specializzato in ansie, e in particolare nelle tecniche per superarle. Sapeva che al cuore di qualsiasi ansia c’era la paura: la paura di prendere peso portava all’anoressia; la paura delle folle degenerava in agorafobia; la paura di perdere il controllo causava gli attacchi di panico. Le ansie costituivano una ipersensibilità alla paura percepita, che riguardasse i ragni, il sesso opposto, gli spazi angusti o qualsiasi altra cosa. A livello neuronale, le ansie e le fobie erano causate da un’amigdala troppo reattiva.
I ricercatori avevano passato due decenni a studiare S.M., cercando di capire la sua condizione e provando a spaventarla. Le mostravano riprese di esseri umani che mangiavano escrementi, la portavano nelle case dei fantasmi del luna-park, le mettevano serpenti striscianti sulle braccia. Non c’era niente da fare.
Deciso a trovare una soluzione, Feinstein scavò più a fondo e trovò uno studio in cui ai soggetti umani veniva somministrata una singola boccata di anidride carbonica. Anche con una piccola quantità, i pazienti riferivano sensazioni di soffocamento, come se fossero stati costretti a trattenere il respiro per diversi minuti. I loro livelli di ossigeno non cambiavano e i soggetti sapevano di non essere mai in pericolo, ma molti soffrivano comunque di debilitanti attacchi di panico che duravano per diversi minuti. Non era una reazione a una paura percepita o a una minaccia esterna; non era qualcosa di psicologico. Il gas innescava fisicamente qualche meccanismo nei loro cervelli e nei loro corpi.
Feinstein e un gruppo di neurochirurghi, psicologi e assistenti di ricerca organizzarono un esperimento in un laboratorio dell’ospedale dell’università dell’Iowa. Invitarono S.M. e la fecero sedere a una scrivania, le sistemarono sul viso un inalatore e lo collegarono a un sacchetto che conteneva alcune boccate di anidride carbonica al trentacinque per cento e aria ambiente. Spiegarono alla donna che l’anidride carbonica non le avrebbe danneggiato il fisico, e che i suoi tessuti e il suo cervello avrebbero avuto ossigeno a sufficienza. Non avrebbe corso nessun rischio. Nel sentire queste parole, S.M aveva la stessa espressione di sempre: annoiata.
“Non ci aspettavamo che succedesse niente” mi disse Feinstein. “Nessuno di noi se lo aspettava.” Qualche attimo dopo, Feinstein rilasciò il misto di aria e anidride carbonica nell’inalatore. S.M. lo respirò.
Di colpo, i suoi occhi svogliati si spalancarono. I muscoli delle sue spalle si irrigidirono, il respiro si fece affannoso. Si aggrappò alla scrivania. “Aiuto!” urlò nell’inalatore. S.M. sollevò un braccio e lo agitò come se stesse affogando. “Non ce la faccio!” strillò. “Non riesco a respirare!” Un ricercatore le strappò l’inalatore, ma non servì. S.M. si dimenava come una pazza e ansimava. Un minuto dopo circa, lasciò cadere le braccia e ricominciò a respirare lentamente e con calma.
Una sola boccata di anidride carbonica riuscì dove serpenti, film dell’orrore e temporali avevano fallito. Per la prima volta da trent’anni, S.M. aveva provato paura, un attacco di panico in piena regola. Le sue amigdale non erano ricresciute. Il suo cervello era lo stesso di sempre. Ma qualche leva dormiente era stata azionata all’improvviso.
S.M. non volle mai più inalare anidride carbonica. Anni dopo, la sola idea la stressava. Così Feinstein e i suoi ricercatori confermarono i risultati grazie a due gemelli tedeschi che soffrivano come lei della sindrome di Urbach-Wiethe. I gemelli avevano perso l’amigdala, e nessuno di loro provava paura da un decennio. Una singola inalazione di anidride carbonica cambiò la situazione: entrambi accusarono un’ansia travolgente, panico e una paura terribile, come S.M.
I manuali sbagliavano. Le amigdale non erano l’unico “circuito di allarme della paura”. C’era un altro circuito più profondo nei nostri corpi che generava un senso di pericolo forse più potente di qualsiasi cosa potesse innescare l’amigdala da sola. Era condiviso non solo da S.M., dai gemelli tedeschi e dalle poche decine di malati di Urbach-Wiethe, ma da chiunque, praticamente da ogni creatura vivente: tutte le persone, gli animali, persino gli insetti e i batteri.
Era la paura profonda e l’ansia schiacciante che nasce dal credere di non riuscire a respirare.
***
Inspirate aria, dal naso o dalla bocca (per questo esercizio non è importante). Ora trattenetela. Dopo qualche istante, avvertirete una lieve fame d’aria. Mentre questa fame si intensifica, la mente gira a mille, i polmoni fanno male. Diventate nervosi, paranoici e irritabili. Cominciate a farvi prendere dal panico. Tutti i sensi si concentrano su questa sensazione sgradevole e soffocante, e il vostro unico desiderio sarà fare un altro respiro.
Il bisogno opprimente di respirare viene attivato da un gruppo di neuroni chiamati chemocettori centrali, collocati alla base del tronco encefalico. Quando respiriamo troppo lentamente e i livelli di anidride carbonica aumentano, i chemocettori centrali monitorano queste variazioni e mandano segnali d’allarme al cervello, avvertendo i polmoni di respirare più in fretta e più a fondo. Quando respiriamo troppo velocemente, gli stessi chemocettori ordinano al corpo di respirare più lentamente per aumentare i livelli di anidride carbonica. È così che i nostri corpi determinano con quale velocità e frequenza respirare: basandosi non sulla quantità di ossigeno, ma sul livello di anidride carbonica.
La chemocezione è una delle funzioni più essenziali della vita. Quando si sono evolute, due miliardi e mezzo di anni fa, le prime forme di vita aerobica dovevano percepire l’anidride carbonica per evitarla. La risposta che si sviluppò fu trasmessa dai batteri alle forme di vita più complesse, ed è ciò che stimola la sensazione di soffocamento che si prova quando si trattiene il respiro.
Con l’evoluzione degli esseri umani, la chemocezione è diventata più flessibile, nel senso che può cambiare e adattarsi ad ambienti in mutamento. È questa capacità di adattarsi a diversi livelli di anidride carbonica e ossigeno che ha aiutato gli esseri umani a colonizzare altitudini da 243 metri sotto il livello del mare a 4800 metri sopra.
Oggi, la plasticità della chemocezione contribuisce a distinguere i buoni atleti da quelli davvero grandi. È il motivo per cui alcuni celebri alpinisti possono arrivare in cima all’Everest senza ossigeno supplementare, e alcuni apneisti possono trattenere il fiato sott’acqua per dieci minuti. Tutte queste persone hanno allenato i loro chemocettori ad affrontare fluttuazioni estreme nell’anidride carbonica senza andare nel panico.
I limiti fisici spiegano solo metà della questione. Anche la nostra salute mentale dipende dalla flessibilità dei chemocettori. S.M. e i gemelli tedeschi non subirono un devastante attacco di panico e ansia per una malattia mentale, ma a causa di una linea interrotta di comunicazione tra i loro chemocettori e il resto del cervello.
Suonerà forse banale: è normale che siamo condizionati a spaventarci se ci viene negato di respirare o se pensiamo che stia per succedere. Ma la ragione scientifica di questo panico – il fatto che possa essere generato dai chemocettori e dalla respirazione invece che da minacce psicologiche esterne elaborate dall’amigdala – è gravida di conseguenze.
Tutto ciò suggerisce che negli ultimi cent’anni gli psicologi potrebbero aver curato le paure croniche, e tutte le ansie che le accompagnano, nel modo sbagliato. Le paure non erano solo un problema mentale, e per trattarle non ci si poteva limitare a condizionare i pazienti a cambiare il loro pensiero. Le paure e le ansie avevano anche un’espressione fisica. Potevano essere generate al di fuori dell’amigdala, in una parte più antica del cervello rettiliano.
Il diciotto per cento degli americani soffre di qualche forma di ansia o panico, e i numeri aumentano di anno in anno. Forse la mossa migliore per curare loro, e centinaia di milioni di altre persone in tutto mondo, sarebbe prima di tutto condizionare i chemocettori centrali e il resto del cervello a diventare più adattabili ai diversi livelli di anidride carbonica. Insegnando insomma alle persone ansiose l’arte di trattenere il fiato.
Già nel primo secolo a.C., gli abitanti di quella che oggi è l’India descrivevano un sistema di apnea conscia, che a loro dire rigenerava la salute e assicurava una lunga vita. La Bhagavadgītā, un testo spirituale induista scritto circa duemila anni fa, attribuiva alla pratica respiratoria del pranayama il significato di “trance indotta dall’interruzione di ogni respiro”. Qualche secolo dopo, gli eruditi cinesi scrissero diversi volumi in cui descrivevano l’arte del trattenere il respiro. Un testo, Un libro sul respiro del Maestro del Grande Nulla di Sung-Shan offriva questo consiglio: “Ogni giorno sdraiati, acquieta la tua mente, taglia fuori i pensieri e blocca il respiro. Stringi i pugni, inspira dal naso ed espira dalla bocca. Non lasciare che il respiro sia udibile. Rendilo più sottile e impercettibile che puoi. Quando il respiro è pieno, bloccalo. Il blocco (del respiro) ti farà sudare le piante dei piedi. Conta per cento volte ‘uno e due’. Dopo aver bloccato il respiro fino al limite, esala dolcemente. Inala un po’ di più e blocca (il respiro) di nuovo. Se (senti) caldo, esala con ‘Ho’. Se (senti) freddo, soffia fuori l’aria ed esala con (il suono) ‘Ch’ui’. Se riesci a respirare (così) e a contare fino a mille (mentre blocchi), non ti serviranno medicine.”
Al giorno d’oggi, la ritenzione del respiro è associata quasi sempre alla malattia. “Non trattenere il fiato” si dice spesso. Negare al nostro corpo un flusso consistente di ossigeno, ci hanno detto, è sbagliato. Nella maggior parte dei casi, è un consiglio saggio.
L’apnea del sonno, una forma di ritenzione inconsapevole del respiro, è terribilmente dannosa, come molti di noi ormai sanno, perché causa, o contribuisce a causare, ipertensione, disturbi neurologici, malattie autoimmuni e altro. Anche trattenere il fiato durante le ore di veglia fa male, ed è un fenomeno ancora più diffuso.
Fino all’ottanta per cento degli impiegati (secondo una stima) soffre di una cosa chiamata attenzione parziale continua. Scorriamo la posta elettronica, scriviamo qualcosa, controlliamo Twitter, e ricominciamo da capo, senza mai concentrarci su un compito specifico. In questo stato di distrazione perpetua, la respirazione diventa superficiale e incostante. A volte non respiriamo per mezzo minuto o più. Il problema è tanto grave che i National Institutes of Health hanno arruolato diversi ricercatori, compresi David Anderson e Margaret Chesney, per studiarne gli effetti negli ultimi decenni. Chesney mi ha spiegato che questo vizio, anche noto come apnea da e-mail, può contribuire agli stessi malesseri dell’apnea del sonno.
Come possono la scienza moderna e le pratiche antiche essere così in disaccordo?
Ancora una volta, è tutta questione di volontà. La ritenzione del respiro che si produce nel sonno e nella attenzione parziale costante è inconscia: una cosa che succede ai nostri corpi, fuori dal nostro controllo. Quella praticata dagli antichi e da chi li riprende oggi è conscia. Sono pratiche che ci induciamo a eseguire.
E quando lo facciamo nel modo corretto, sembra proprio che possano fare miracoli.
***

È un afoso mercoledì mattina e sono seduto su un divano grinzoso nello studio di Justin Feinstein al Laureate Institute for Brain Research nel centro di Tulsa, Oklahoma. Di fronte a me c’è una finestra che affaccia su un cielo color cartone e un paesaggio a motivi cachemire di foglie rosse e gialle. Feinstein è seduto sotto di essa, e sta sfogliando una pila di articoli scientifici su una enorme scrivania che non ha un solo centimetro di spazio libero. Indossa una camicia fuori dai pantaloni, con le maniche arrotolate, infradito e pantaloni cachi un po’ cascanti pieni di macchie di pastelli, regalo della figlia di tre anni. Ha l’aspetto tipico del neuropsicologo nell’immaginario collettivo: cervellotico e un po’ trasandato.
Feinstein ha appena ricevuto una borsa di studio di cinque anni dai NIH per testare l’uso dell’inalazione di anidride carbonica in chi soffre di attacchi di panico e disturbi d’ansia. Dopo la sua esperienza di somministrazione del gas a S.M. e ai gemelli tedeschi con la sindrome di Urbach-Wiethe, si era convinto che l’anidride carbonica potesse non solo causare panico e ansia, ma anche contribuire a curarli. Aveva pensato che respirare grosse dosi di anidride carbonica potesse provocare gli stessi benefici fisici e psicologici delle tecniche millenarie di ritenzione del fiato.
La sua terapia, però, non richiedeva che i pazienti trattenessero effettivamente il respiro, o chiudessero la gola, o contassero fino a cento con le mani strette a pugno come gli antichi cinesi. I suoi pazienti erano troppo ansiosi e irrequieti per praticare una tecnica così intensa. Ci pensava l’anidride carbonica. Loro entravano, pensavano quello che volevano pensare, inalavano qualche volta il gas, riportavano i loro chemocettori alla norma e se ne andavano. Era l’antica arte della ritenzione del respiro per persone troppo ansiose per trattenere il fiato.
Le tecniche di ritenzione del respiro o, come le chiamerebbe Feinstein, le terapie a base di anidride carbonica, sono in circolazione da migliaia di anni. Gli antichi Romani prescrivevano immersioni nei bagni termali (che contenevano alti livelli di anidride carbonica assorbita dalla pelle) come cura per qualsiasi malanno, dalla gotta alle ferite di guerra. Secoli dopo, i francesi della Belle Époque si radunavano alle fonti termali di Royat, sulle Alpi Francesi, per sguazzare nelle acque gorgoglianti per diversi giorni di fila.
“Lo studio della composizione chimica delle quattro sorgenti minerali di Royat mostrerà che abbiamo diversi agenti potenti a portata di mano, e che sono a disposizione per la terapia di molte condizioni morbose, che resistono alle comuni applicazioni farmacologiche di cui facciamo uso nella pratica quotidiana” scriveva George Henry Brandt, un medico britannico che si recò sul posto alla fine degli anni settanta dell’Ottocento. Brandt parlava di disturbi dermatologici come l’eczema e la psoriasi, ma anche di malattie respiratorie come l’asma e la bronchite, che venivano tutte “curate quasi con certezza” dopo qualche seduta. (Dal rapporto di Brandt, migliaia di ricercatori hanno esaminato gli effetti delle terapie all’anidride carbonica sulla salute cardiovascolare, la perdita di peso e il sistema immunitario. Una rapida ricerca delle parole “terapia transdermica anidride carbonica” su PubMed dà come risultato più di 2500 studi. Buona parte di questi studi, ho notato, confermano quello che avevano scoperto i ricercatori di Royat un secolo prima, e i Greci migliaia di anni prima: esporre il corpo all’anidride carbonica, che sia nell’acqua o attraverso iniezioni o inalazione, aumenta l’apporto di ossigeno a muscoli, organi, cervello e altro; dilata le arterie aumentando il flusso sanguigno, aiuta a sciogliere il grasso e costituisce una potente terapia per decine di disturbi. Per una storia completa della ricerca sull’anidride carbonica e diverse altre risorse, visitate questo sito).
I medici di Royat alla fine avrebbero imbottigliato l’anidride carbonica per somministrarla come sostanza da inalare. La terapia era così efficace che all’inizio del Novecento arrivò negli Stati Uniti. Un misto di anidride carbonica al cinque per cento e ossigeno promosso dal fisiologo di Yale Yandell Henderson fu usato con grande successo per trattare ictus, polmoniti, asma e asfissia nei neonati. I dipartimenti dei vigili del fuoco di New York, Chicago e altre città importanti installarono sui loro camion taniche di anidride carbonica. Si dice che il gas abbia salvato molte vite.
Nel frattempo, misti di anidride carbonica al trenta per cento e ossigeno al settanta per cento diventarono un trattamento sicuro per ansia, epilessia e persino schizofrenia. Dopo qualche boccata, pazienti che avevano passato mesi o anni in stato catatonico si riprendevano di colpo. Aprivano gli occhi, si guardavano in giro e cominciavano a parlare con i medici e gli altri pazienti come se niente fosse.
“Era una sensazione meravigliosa. Incredibile. Mi sentivo così leggero e non sapevo dove fossi” raccontò un paziente. “Sapevo che mi era successo qualcosa, ma non sapevo bene cosa.”
I pazienti restavano in questo stato lucido e coerente per una trentina di minuti, finché l’anidride carbonica non si esauriva. Poi, senza preavviso, si interrompevano a metà di una frase e si paralizzavano, con lo sguardo perso nel vuoto e una impressionante posa da statua, o a volte svenivano. Insomma, ripiombavano nella malattia. Restavano così fino alla successiva dose di anidride carbonica.
Poi, per ragioni che nessuno ha capito fino in fondo, negli anni cinquanta un secolo di ricerca scientifica sparì. Le persone con malattie della pelle si affidarono a pillole e creme; quelle con l’asma gestirono i sintomi con gli steroidi e i broncodilatatori. I pazienti con disturbi mentali gravi assunsero sedativi.
I farmaci non curavano veramente la schizofrenia o altre psicosi, ma non provocavano nemmeno esperienze extracorporee o sensazioni di euforia. Intorpidivano i pazienti, e continuavano a intorpidirli per settimane, mesi e anni… finché loro continuavano ad assumerli.
“L’aspetto che mi sembra interessante è che nessuno ha mai dimostrato che non funzionasse” dice Feinstein della terapia con l’anidride carbonica. “I dati, le ipotesi scientifiche, sono tuttora validi.”
Mi racconta come sia incappato in alcuni oscuri studi di Joseph Wolpe, un rinomato psichiatra che aveva riscoperto la terapia all’anidride carbonica come trattamento per l’ansia e aveva scritto un importante articolo al riguardo negli anni ottanta. I pazienti di Wolpe mostravano miglioramenti impressionanti e duraturi dopo poche boccate. Anni dopo, Donald Klein, un altro famoso psichiatra ed esperto di ansia e attacchi di panico, ipotizzò che il gas potesse aiutare a resettare i chemocettori del cervello, permettendo ai pazienti di respirare normalmente in modo che potessero anche pensare normalmente. Da allora, pochi ricercatori hanno studiato queste terapie (Feinstein calcola che più o meno in cinque le stiano esaminando in questo momento). Ci si continua però a chiedere se i primi ricercatori avessero ragione, se questo antico gas potrebbe essere un rimedio per le malattie moderne.
“Come psicologo, mi chiedo quali alternative ho, qual è la terapia migliore per questi pazienti?” dice Feinstein.
Le pillole, mi dice, offrono una falsa promessa e alla maggior parte delle persone non garantiscono molti benefici. L’ansia e la depressione sono le malattie mentali più diffuse negli Stati Uniti, e circa la metà di noi soffrirà di una o dell’altra nel corso della vita. Per affrontarle, il tredici per cento delle persone sopra i dodici anni userà antidepressivi, perlopiù inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, detti anche SSRI. Questi farmaci sono stati una salvezza per milioni di persone, soprattutto per chi soffre di depressione grave e altre malattie molto serie. Eppure, meno della metà dei pazienti che li assume ne trae giovamento. (Uno studio britannico del 2019 pubblicato sulla rivista “The Lancet” ha scoperto che i sintomi depressivi erano del cinque per cento meno intensi dopo sei settimane in un gruppo trattato con un SSRI, cosa che, nelle parole dell’autore, non offriva “nessuna prova convincente” di un effetto. Dopo dodici settimane, si rilevava una diminuzione del tredici per cento, un risultato che i ricercatori consideravano “debole”).
“Continuo a chiedermi” dice Feinstein “se questo sia il meglio che possiamo fare”.
Feinstein aveva esplorato diverse terapie non farmacologiche e aveva passato un decennio a imparare e insegnare la meditazione chiamata Mindfulness. Una grande quantità di studi scientifici dimostra che la meditazione è in grado di modificare la struttura e la funzionalità di aree critiche del cervello, contribuisce ad alleviare le ansie e migliorare la concentrazione e la compassione. Può davvero fare prodigi, ma pochi di noi ne godranno mai, perché la stragrande maggioranza delle persone che cercano di meditare si scoraggia e abbandona la pratica. Per chi soffre di ansia cronica, le percentuali sono di gran lunga peggiori. “La meditazione consapevole, come è praticata di solito, non è favorevole al nuovo mondo in cui viviamo” spiega Feinstein.
Un’altra possibilità, la terapia di desensibilizzazione, è una tecnica che espone ripetutamente i pazienti alle loro paure, in modo che imparino ad accettarle. È molto efficace, ma richiede tempo, di solito molte lunghe sedute nel corso di settimane o mesi. Trovare psicologi che abbiano tutto quel tempo, e pazienti con le risorse necessarie, può essere problematico.
Tutti, d’altro canto, respirano, e al giorno d’oggi pochi respirano bene. Chi soffre delle forme più gravi d’ansia mostra coerentemente le abitudini respiratorie peggiori.
Le persone con anoressia, attacchi di panico o disturbi ossessivo-compulsivi mostrano spesso livelli di anidride carbonica bassi e una paura assai maggiore di trattenere il respiro. Per evitare un nuovo attacco, respirano troppo e alla fine diventano ipersensibilizzati all’anidride carbonica e si fanno prendere dal panico se avvertono un aumento di questo gas. Sono ansiosi perché respirano troppo, e respirano troppo perché sono ansiosi.
Feinstein ha scoperto alcuni stimolanti studi recenti di Alicia Meuret, psicologa alla Southern Methodist University, che ha aiutato i suoi pazienti ad alleviare gli attacchi di asma rallentando la loro respirazione in modo da far aumentare l’anidride carbonica. Questa tecnica funzionava anche per gli attacchi di panico.
In uno studio clinico controllato randomizzato, lei e un gruppo di ricercatori hanno dato a venti persone che soffrivano di attacchi di panico dei capnometri, che registravano la quantità di anidride carbonica nel loro respiro per tutto il corso della giornata. Meuret ha elaborato i dati e concluso che il panico, come l’asma, è in genere preceduto da un aumento del volume e della frequenza respiratori e da un calo nell’anidride carbonica. Per fermare l’attacco prima che colpisse, i soggetti respiravano lentamente e meno, aumentando la loro anidride carbonica. Questa tecnica semplice e gratuita invertiva i capogiri, la mancanza di fiato e le sensazioni di soffocamento. Poteva curare efficacemente un attacco di panico prima che questo investisse il paziente. “Fare un respiro profondo non è un buon consiglio” ha scritto Meuret. Trattenere il respiro è molto meglio.
Usciamo dallo studio di Feinstein e passeggiamo in un labirinto di ascensori e scale fino a varcare una porta insonorizzata. Siamo nella sua tana. Oltre la porta a destra, lui e il suo team conducono ricerche sul galleggiamento, una terapia che comporta immergersi in una piscina di acqua salata, dentro una stanza buia e priva di suoni. Oltre la porta a sinistra si trova l’ultimo progetto di Feinstein: un laboratorio per la terapia con l’anidride carbonica. È una minuscola scatola senza finestre che sembra aver ospitato, a un certo punto, un impianto di condizionamento. Ci strizziamo nel locale come pagliacci in una cabina telefonica. Su un tavolo ripiegabile c’è la solita sfilata di monitor, computer, cavi, elettrocardiogramma, capnometri e altri aggeggi che mi sono abituato a indossare negli ultimi anni. In un angolo c’è un malconcio cilindro giallo che sembra un missile russo dell’era della Guerra fredda. Feinstein mi dice che contiene trentacinque chili di anidride carbonica pura.
Negli ultimi mesi, nell’ambito della sua ricerca per i NIH, Feinstein ha portato in questo laboratorio pazienti malati di ansia e panico e ha somministrato loro qualche boccata di anidride carbonica. Per il momento, dice, i risultati sono promettenti. Certo, nella maggior parte dei pazienti il gas ha scatenato attacchi di panico, ma questo fa parte del battesimo del fuoco. Dopo l’iniziale disagio, molti affermano di essersi sentiti rilassati per ore, se non per giorni.
Ho deciso di far scendere in pista i miei chemocettori. Mi sono iscritto per capire che cosa possono fare alcune dosi pesanti di anidride carbonica al mio corpo e al mio cervello.
Feinstein mi aggancia sul medio e sull’anulare un materiale bianco simile a gommapiuma con un sensore metallico. Questo dispositivo, chiamato misuratore dell’attività elettrodermica, monitorerà le piccole quantità di sudore rilasciate durante gli stati di stress simpatico. Sull’altra mano, un saturimetro registrerà la mia frequenza cardiaca e i miei livelli di ossigeno.
Il cocktail che inalerò contiene anidride carbonica al trentacinque per cento, mentre il resto è aria ambiente: circa la stessa percentuale un tempo usata per trattare gli schizofrenici, ma senza l’ossigeno. Feinstein aveva somministrato questa stessa dose a S.M., che si era fatta prendere dal panico e aveva detestato l’esperienza. L’aveva anche provata su qualche paziente all’inizio, ma pure loro avevano sofferto di gravi attacchi di panico. Alcuni andavano così fuori di testa che rifiutavano di prendere un’altra boccata, e così oggi Feinstein ha ridotto la dose al quindici per cento: abbastanza da offrire un buon allenamento ai chemocettori, ma non tanto da impedire ai pazienti di volerne ancora. Poiché io non soffrivo di attacchi di panico o ansia cronica, almeno non ancora, mi ha proposto di aumentare la mia dose ai livelli di S.M. per scoprire che cosa sarebbe successo.
Mi spiega con calma, per la terza volta oggi, che qualsiasi senso di soffocamento io possa sentire dopo aver inalato il gas è una semplice illusione, che i miei livelli di ossigeno resteranno immutati e io non sarò in pericolo. Anche se la sua intenzione è calmare le mie paure, le costanti avvertenze non fanno che rendermi più… be’, più ansioso.
“Tutto bene?” chiede Feinstein, mentre strige i cinturini in velcro dell’inalatore. Annuisco, prendo qualche ultima, gustosa boccata di aria ambiente, e sprofondo ancora di più nella mia poltrona. Fra due minuti si decolla.
Mentre Feinstein si avvicina a un computer e armeggia con cavi, tubi e fili, io resto seduto a fissarmi le cuticole, e mi faccio prendere dai ricordi. La mia mente torna all’anno scorso, quando per la prima volta sono andato a trovare Anders Olsson a Stoccolma.
Avevamo appena terminato il nostro colloquio nella sala della reception del co-working, e Olsson mi portò nel suo ufficio, un bugigattolo pieno di articoli scientifici, volantini e inalatori. Una scalcagnata tanica di anidride carbonica spiccava nel caos. Olsson mi disse che lui e il suo gruppo di polmonauti fai-da-te avevano condotto i propri esperimenti con l’anidride carbonica nei due anni precedenti. A loro non interessavano le dosi massicce usate per curare l’epilessia e i disturbi mentali. Olsson e i suoi non erano malati. A loro premeva esplorare gli effetti del gas sulla prevenzione e le prestazioni fisiche, rendere i chemocettori ancora più flessibili in modo che potessero spingere i loro corpi a fare di più.
La miscela più efficace e sicura che avevano trovato era qualche boccata di anidride carbonica al sette per cento mista ad aria ambiente. Era quello il livello di “super-resistenza” che Buteyko aveva rilevato nel respiro esalato dai grandi atleti. Respirare questa miscela non aveva nessun effetto allucinogeno o generatore di panico. Si notava appena, eppure offriva risultati potenti. Olsson condivise alcuni resoconti dei polmonauti sul campo.
Utente #1: “Dunque, adesso sono a Toronto e ho deciso di farmi un giro sui roller. Sono un pattinatore esperto e ho già fatto molte volte questa strada che corre lungo la riva del lago. Ma sentite questa: per quanto ci abbia dato dentro, e io sono uno che ogni volta dà il 110 per cento […] non ho mai avuto bisogno di aprire la bocca per ansimare!”
Utente #2: “Ieri mi sono sottoposto per tre volte alla terapia con l’anidride carbonica, circa un quarto d’ora alla volta. Oggi sono uscito in canoa e poi ho fatto sesso con la mia ragazza […] alla fine lei era stanca e ansimante, e a me non mancava nemmeno il fiato! Mi sono sentito sovrumano!”
Utente #3: “Porca paletta! Stavo respirando […] e ho cominciato a sentirmi DA-DIO. Praticamente euforico. Al punto che respirare mi sembrava automatico.”
Olsson agganciò la tanica e mi fece prendere qualche boccata. Io provai un leggero stordimento, subito seguito da un leggero mal di testa. Non rimasi molto colpito.
***
Ma torniamo a Tulsa. Feinstein sta per somministrarmi qualcosa di ben diverso. È molte volte più abbondante della miscela che ho aspirato in quell’occasione, e diverse migliaia di volte più di quello a cui sono esposti di solito i miei chemocettori.
Mi indica il grosso pulsante rosso sul tavolo, che serve a far passare il tubo dall’aria ambiente all’anidride carbonica dentro il sacchetto di alluminio appeso alla parete. Il sacchetto è una precauzione. Inalerò da quello e non direttamente dalla tanica, per evitare il rischio che ci sia un malfunzionamento nel sistema, o nel mio cervello. Se un rubinetto restasse aperto o se venissi preso da un panico incontrollabile, potrei respirare solo il contenuto del sacchetto, che ammonta più o meno a tre grosse boccate.
Vicino al pulsante rosso c’è un misuratore di stress, che registrerà la mia ansia percepita. Al momento è impostato sull’1, il livello più basso. Se comincio a sentirmi ansioso dopo aver inalato il gas, posso girare la manopola fino a 20, che contrassegna uno stato di panico estremo.
Nei prossimi venti minuti, dovrò inalare tre grosse boccate di anidride carbonica. Posso consumarle una dopo l’altra, se la cosa non mi crea problemi. Altrimenti posso aspettare qualche minuto tra un’inalazione e l’altra. La durata dell’intervallo darà un’idea di quanto sia stata intensa l’esperienza.
Collegato e pronto, cerco di calmarmi e guardo i miei parametri vitali che si registrano in diretta sul monitor del computer. Quando inalo, la mia frequenza cardiaca aumenta, per poi diminuire a ogni espirazione, creando una regolare onda sinusoidale. L’ossigeno si aggira attorno al 98 per cento, e l’anidride carbonica esalata si mantiene fissa al 5,5 per cento. Tutti i sistemi sono nella norma.
Mi sembra di essere un pilota da caccia in missione segreta, che fa respiri da Dart Fener attraverso una maschera facciale, la mano sul pulsante per il lancio dei missili. Non è il genere di scena che avrei mai associato con una terapia per la salute mentale. Ma lo scopo di Feinstein non è cambiare il modo in cui si sente il paziente a livello emotivo: è resettare i meccanismi di base del cervello primitivo.
Ai chemocettori, in fondo, non potrebbe importare di meno se l’anidride carbonica nel sangue sia generata da strangolamento, annegamento, panico, o da un sacchetto di alluminio appeso a una parete a Tulsa. Tutte queste situazioni attivano gli stessi campanelli d’allarme. Subire un attacco del genere in un ambiente controllato aiuta a sdrammatizzarlo, insegna ai pazienti che sensazione dà un attacco prima che arrivi, in modo che possano prevenirlo. Regala un potere inconsapevole su quello che per troppo tempo è stato considerato un malanno inconscio, e ci mostra che molti dei sintomi di cui soffriamo possono essere causati, e controllati, dalla respirazione.
Un’altra inalazione lenta e profonda, un pollice alzato, poi chiudo gli occhi e butto fuori tutta l’aria dai polmoni. Premo il pulsante rosso e sento la pompa aspirare dal sacchetto, poi faccio un respiro profondo.
L’aria ha un sapore metallico. Mi si riversa in bocca, facendo pizzicare lingua e gengive. Ho la sensazione di bere del succo d’arancia da un bicchiere di alluminio. Il gas va più a fondo, nella gola, rivestendo le mie parti interne con quello che sembra un foglio di carta stagnola. Attraversa i bronchioli, entra negli alveoli e poi nel flusso sanguigno. Mi preparo all’impatto.
Un secondo. Due secondi. Tre. Niente. Non mi sento diverso da come mi sentivo pochi secondi fa, o anche pochi minuti fa. La manopola dello stress rimane a 1.
Feinstein ha detto che poteva succedere. Mesi prima ha somministrato questa dose pesante a un praticante del metodo Wim Hof, e lui non si è quasi accorto di niente. Dopo tanta respirazione intensa e ritenzione del fiato, Feinstein ha ipotizzato che il soggetto abbia già reso molto flessibili i suoi chemocettori. Quanto a me, vengo da dieci giorni di respirazione forzata con la bocca seguiti da dieci giorni di respirazione forzata con il naso. Ho alzato i miei livelli di anidride carbonica a riposo del venti per cento. È probabile che i miei chemocettori siano già stati spinti al massimo di elasticità che possono ragionevolmente raggiungere.
In mezzo a questi pensieri, sento una leggera costrizione nella gola. È quasi impercettibile. Prendo una boccata di aria ambiente, esalo. La cosa mi richiede un certo sforzo. Il pulsante rosso è spento; non sto più respirando la miscela con l’anidride carbonica, ma mi sembra che qualcuno mi abbia ficcato un calzino in bocca. Cerco di fare un altro respiro, ma il calzino continua a espandersi.
Bene, adesso sento pulsare le tempie. Apro gli occhi per controllare i miei parametri, ma la stanza è sfocata. Qualche secondo dopo, vedo il mondo attraverso quello che ha tutto l’aspetto di un binocolo sporco e screpolato. Non riesco a respirare. Ogni senso sembra strappato al mio controllo, risucchiato via.
Passano qualcosa come dieci o venti secondi prima che il calzino si restringa: sento la nuca raffreddarsi e il vortice di ansia invertirsi e scorrere via. Il colore e la nitidezza della mia visione si espandono verso l’esterno, come se una mano lucidasse via la condensa da una finestra. Feinstein è a pochi metri da me, e mi sta osservando con attenzione. Tutto torna alla vita. Riesco di nuovo a respirare.
Resto lì seduto per qualche minuto a sudare, un po’ ridendo, un po’ piangendo. Sto cercando di prepararmi ad altre due inalazioni di questa terrificante miscela di gas nei prossimi quindici minuti. Qualsiasi rassicurazione possa darmi – “Il soffocamento è solo un’illusione; rilassati, durerà solo qualche minuto” – non ha il minimo effetto.
In fondo, la paura che ho appena sentito e che sentirò di nuovo con la prossima boccata non è mentale. È meccanica, e condizionare i chemocettori ad allargarsi richiede qualche ripetizione, per questo i pazienti di Feinstein tornano a fare rifornimento nei giorni successivi. Si tratta, in sostanza, di una terapia desensibilizzante. Più mi espongo a questo gas, più sarò resiliente quando mi sentirò sovraccarico.
E così, nel nome della ricerca, e per il bene della futura flessibilità dei miei chemocettori, premo il pulsante rosso e faccio altre due boccate, una di seguito all’altra.
E vengo travolto, ancora una volta, dal panico.
Ma avete tolto le note e le fonti!!!
Quelle sono disponibili nel libro, questa è solo un’anteprima