Rieccoci con un nuovo commento a un canto della Divina Commedia, uno dei cento che L’indiscreto pubblicherà per il progetto “CCC”, il Commento Collettivo alla Commedia curato dal nostro Edoardo Rialti. Il commento di oggi è firmato da Bernardo Pacini
IN COPERTINA The lustful in flames (Purgatorio XXV), Dante, Divina Commedia, Urbino and Ferrara 1477-1478 (Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb.lat.365, fol. 171v)
di Bernardo Pacini
Con il contributo di
Giugno, oppure un mese come un altro. Con modi che qualcuno direbbe cordiali, la brezza serale viene ad annunciare l’assillo della notte, si incunea nella stanza e trova un corpo sdraiato sul letto. Esausto, decimato: sembra il mio. Il vento, o per meglio dire, la sensazione del vento sulla pelle risveglia quel corpo e gli restituisce per un attimo vivezza. Il corpo, che è il mio corpo, recupera il segnale come in una valle profonda dove mai arriva rete se non quando guardi il telefono e ti rendi conto che sì, è arrivata giusto per andarsene e impedire la chiamata. Il vento di una sera qualunque di giugno cincischia nella mia mente con i suoi pollici invisibili e così fa esistere me e il letto su cui giaccio. Da quel momento tutto è una conquista: non è più un letto qualunque, ma il mio (il nostro); non è più una sera qualunque, ma la sera di un giorno preciso, a suo modo irripetibile, anche e soprattutto nella sua mediocrità.
Schiudo lentamente gli occhi: tra le fronde brune delle ciglia vedo un libro poggiato sul petto. È il volume scolastico del Purgatorio commentato dalla Chiavacci Leonardi, aperto alla prima pagina del canto XXV. A cosa pensavo prima di assopirmi? Forse ero sopraffatto dall’idea devastante che quella mia esistenza di liceale, così lontana – quel segmento della mia storia in cui sapere Dante per l’interrogazione era un’incombenza tutto sommato esaltante – non sembra avere oggi più alcun significato pratico. Eppure, prima che il vento mi risvegliasse, ricordo che sognavo i primi versi del canto infrangersi sul mio petto sillaba per sillaba, rimbalzare e ricomporsi davanti a me in un nugolo silente di vespe spezzato dai raggi del sole al tramonto. Li rileggo. Quei versi descrivono il mio ritorno a casa di poco fa: Ora era onde l’salir non volea storpio (mio figlio aspetta a scuola, sono sempre l’ultimo genitore ad arrivare); per che, come fa l’uomo che non s’affige / ma vassi a la via sua, che che li appaia (Cosimo penserà che il treno è in ritardo. È ciò che gli faccio credere quando ho perso tempo alla libreria dell’usato); se di bisogno stimolo il trafigge (penserà che lo abbandono lì per qualche motivo che non sa, tra i tanti. Una volta ci sono andato pure vicino); così intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala (“Babbo, saliamo per le scale, non sull’ascensore”. “No Cosimo, sono stanco”) …
Redivivo, riprendo la lettura del canto XXV: Dante ripensa alla magrezza di Forese Donati (lo ha incontrato nel canto XXIII tra i golosi) e chiede a Virgilio e Stazio il motivo per cui l’ombra delle anime che incontra nel viaggio ultraterreno ha ancora percezioni e sentimenti umani: chiede perché, pur lontane dai corpi fisici, le ombre sentano la fame, il dolore, l’eccitazione, la gioia, la rabbia. È un episodio principalmente teorico: Dante sta passando dalla cornice dei golosi a quella dei lussuriosi, ma quasi tutta la narrazione del canto rinuncia al resoconto del cammino e si concentra sulla questione teologica dell’origine dell’anima, quello “spirito novo” e individuale infuso da Dio (“motor primo”) che distingue l’uomo dalle piante e dagli animali. Così Stazio confuta, con San Tommaso, la teoria di Averroè per cui, non essendo visibile, l’organo dell’intelletto individuale non esiste se non esternamente al corpo. Poi spiega a Dante come al momento della morte il corpo si sciolga dall’anima senza però dimenticarne la forma: non appena ha lasciato la veste umana, l’anima porta con sé memoria, intelligenza e volontade / in atto molto più che prima agute e provvede a modellare l’aria che la circonda nella forma delle membra che ha appena lasciato sulla terra, come la luce del sole che dopo la pioggia dipinge l’aria con i colori dell’arcobaleno.
E come l’aere, quand’è ben pïorno,
per l’altrui raggio che ’n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno;
-->così l’aere vicin quivi si mette
e in quella forma ch’è in lui suggella
virtüalmente l’alma che ristette
Ecco dunque l’ologramma, l’immagine riflessa nello specchio (secondo un esempio meraviglioso di Virgilio ai versi 24-27), il corpo aereo fittizio e virtuale che – nell’attesa di ricongiungersi a quello terreno – reca con sé nell’aldilà, oltre alle virtù, anche tutti gli effetti e gli affetti dell’essere umano: Quindi parliamo e quindi ridiam noi /quindi facciam le lagrime e’ sospiri […] i disiri / e li altri affetti.
Il discorso di Stazio non è affatto semplice: lo stesso Dante lo comprende a fatica, necessita di molti esempi prima di intendere il concetto. Cosa dovrei dire io, che giaccio sul letto con un libro addosso e cerco di capire cosa ha da dire questo episodio a me, un uomo che vive nel secolo che ha cancellato l’anima? Come al liceo, so Dante, ho preso appunti. Ma posso dire di averlo voluto capire, di averlo capito? Posso dire cristianamente, umanamente, di sentire infuso nel mio corpo lo spirito che mi rende un essere capace di ragione, di amore, persino di fallimento – diverso da un piccione che scalpiccia sulla grondaia o una pianta da appartamento? Le radici che ho fatto su questo letto sembrerebbero suggerire il contrario, specialmente quando mio figlio mi chiama a giocare in camera sua e io rifiuto per rimanere qui a studiare la Divina Commedia.
Chiudo il libro e mi viene in mente un racconto di Buzzati: Il mantello. Giovanni è un ragazzo che torna a casa dalla madre dopo la guerra. È pallido, magro, sembra incapace di restituire l’affetto commosso della madre e dei fratelli. Non prova entusiasmo nel vedere la sua vecchia camera, né ristoro nell’assaggiare la torta di sua madre, che tanto apprezzava. Giovanni cela un segreto: non vuole togliersi il mantello per nessuna ragione al mondo. A nulla vale l’insistenza della madre, che lo vorrebbe comodo e sereno. Giovanni cela anche un altro segreto: non è tornato da solo. Lo accompagna un personaggio misterioso che però non vuole salire in casa a salutare e che anzi, lo aspetta giù per ripartire subito. Ripartire? La madre è disperata. Sei appena tornato e già devi ripartire? Perché non togli il mantello? Giovanni non dà spiegazioni. I fratellini, però, sono curiosi e ne tirano il lembo, che svela il segreto. Sotto c’è del sangue, un corpo promesso alla morte. Spesso, leggendo il racconto, ho immaginato sotto a quel mantello il vuoto: aria nera screziata di rosso dal sangue. Giovanni se ne va, è troppo tardi, ormai. Lascia la madre e i fratelli da soli, nel loro sterminato dolore terrestre. Che cosa è tornato a fare, mi chiedo. È venuto a mostrarsi per l’ultima volta, tenendo avvolto nel mantello un corpo che non c’è più. È tornato in compagnia della Morte per mostrare ai suoi cari il dono che ella gli ha fatto: il corpo decaduto, pronto ad essere calzato in un’ombra. Ma più di tutto, Giovanni è tornato a casa al tramonto, ha salito le scale, è entrato nella stanza e di nuovo, per l’ultima volta si è specchiato nel volto di qualcuno che lo ama, nello sguardo che fa sentire vivo un corpo morto, e insieme lascia l’impronta della morte in un’anima destinata a vivere per sempre nel suo ricordo.
Il canto, integrale
Canto XXV, lo quale tratta de l’essenzia del settimo girone, dove si punisce la colpa e peccato contro a natura ed ermafrodito sotto il vizio de la lussuria; e prima tratta alquanto del precedente purgamento de’ ghiotti, dove Stazio poeta fae una distinzione sopra la natura umana.
Ora era onde ’l salir non volea storpio;
ché ’l sole avëa il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come fa l’uom che non s’affigge
ma vassi a la via sua, che che li appaia,
se di bisogno stimolo il trafigge,
così intrammo noi per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
che per artezza i salitor dispaia.
E quale il cicognin che leva l’ala
per voglia di volare, e non s’attenta
d’abbandonar lo nido, e giù la cala;
tal era io con voglia accesa e spenta
di dimandar, venendo infino a l’atto
che fa colui ch’a dicer s’argomenta.
Non lasciò, per l’andar che fosse ratto,
lo dolce padre mio, ma disse: “Scocca
l’arco del dir, che ’nfino al ferro hai tratto”.
Allor sicuramente apri’ la bocca
e cominciai: “Come si può far magro
là dove l’uopo di nodrir non tocca?”.
“Se t’ammentassi come Meleagro
si consumò al consumar d’un stizzo,
non fora”, disse, “a te questo sì agro;
e se pensassi come, al vostro guizzo,
guizza dentro a lo specchio vostra image,
ciò che par duro ti parrebbe vizzo.
Ma perché dentro a tuo voler t’adage,
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
che sia or sanator de le tue piage”.
“Se la veduta etterna li dislego”,
rispuose Stazio, “là dove tu sie,
discolpi me non potert’io far nego”.
Poi cominciò: “Se le parole mie,
figlio, la mente tua guarda e riceve,
lume ti fiero al come che tu die.
Sangue perfetto, che poi non si beve
da l’assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,
prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch’a farsi quelle per le vene vane.
Ancor digesto, scende ov’è più bello
tacer che dire; e quindi poscia geme
sovr’altrui sangue in natural vasello.
Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme,
l’un disposto a patire, e l’altro a fare
per lo perfetto loco onde si preme;
e, giunto lui, comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
ciò che per sua matera fé constare.
Anima fatta la virtute attiva
qual d’una pianta, in tanto differente,
che questa è in via e quella è già a riva,
tanto ovra poi, che già si move e sente,
come spungo marino; e indi imprende
ad organar le posse ond’è semente.
Or si spiega, figliuolo, or si distende
la virtù ch’è dal cor del generante,
dove natura a tutte membra intende.
Ma come d’animal divegna fante,
non vedi tu ancor: quest’è tal punto,
che più savio di te fé già errante,
sì che per sua dottrina fé disgiunto
da l’anima il possibile intelletto,
perché da lui non vide organo assunto.
Apri a la verità che viene il petto;
e sappi che, sì tosto come al feto
l’articular del cerebro è perfetto,
lo motor primo a lui si volge lieto
sovra tant’arte di natura, e spira
spirito novo, di vertù repleto,
che ciò che trova attivo quivi, tira
in sua sustanzia, e fassi un’alma sola,
che vive e sente e sé in sé rigira.
E perché meno ammiri la parola,
guarda il calor del sol che si fa vino,
giunto a l’omor che de la vite cola.
Quando Làchesis non ha più del lino,
solvesi da la carne, e in virtute
ne porta seco e l’umano e ’l divino:
l’altre potenze tutte quante mute;
memoria, intelligenza e volontade
in atto molto più che prima agute.
Sanza restarsi, per sé stessa cade
mirabilmente a l’una de le rive;
quivi conosce prima le sue strade.
Tosto che loco lì la circunscrive,
la virtù formativa raggia intorno
così e quanto ne le membra vive.
E come l’aere, quand’è ben pïorno,
per l’altrui raggio che ’n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno;
così l’aere vicin quivi si mette
e in quella forma ch’è in lui suggella
virtüalmente l’alma che ristette;
e simigliante poi a la fiammella
che segue il foco là ’vunque si muta,
segue lo spirto sua forma novella.
Però che quindi ha poscia sua paruta,
è chiamata ombra; e quindi organa poi
ciascun sentire infino a la veduta.
Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e ’ sospiri
che per lo monte aver sentiti puoi.
Secondo che ci affliggono i disiri
e li altri affetti, l’ombra si figura;
e quest’è la cagion di che tu miri”.
E già venuto a l’ultima tortura
s’era per noi, e vòlto a la man destra,
ed eravamo attenti ad altra cura.
Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
e la cornice spira fiato in suso
che la reflette e via da lei sequestra;
ond’ir ne convenia dal lato schiuso
ad uno ad uno; e io temëa ’l foco
quinci, e quindi temeva cader giuso.
Lo duca mio dicea: “Per questo loco
si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
però ch’errar potrebbesi per poco”.
’Summae Deus clementïae’ nel seno
al grande ardore allora udi’ cantando,
che di volger mi fé caler non meno;
e vidi spirti per la fiamma andando;
per ch’io guardava a loro e a’ miei passi,
compartendo la vista a quando a quando.
Appresso il fine ch’a quell’inno fassi,
gridavano alto: ’Virum non cognosco’;
indi ricominciavan l’inno bassi.
Finitolo, anco gridavano: “Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tòsco”.
Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.
E questo modo credo che lor basti
per tutto il tempo che ’l foco li abbruscia:
con tal cura conviene e con tai pasti
che la piaga da sezzo si ricuscia.
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
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