C’è un legame tra anatomia e scrittura nell’antichità, tra dissezione e testo, coltello e stilo. Ed è un legame che ci fa ripercorrere la storia della domesticazione e della definizione del concetto di “uomo”
In copertina: Aldo Turchiaro : La rotta dei delfini, Litografia, courtesy Pananti
«Gli allievi apprendevano, fin dall’infanzia, a sezionare, così come a leggere e a scrivere. Gli antichi si esercitavano a sufficienza nell’anatomia, e non solo i medici, ma anche i filosofi. Non c’era motivo di temere che venissero dimenticati i procedimenti di dissezione appresi fin dall’infanzia come l’arte della scrittura». È il medico Galeno, nel secondo secolo dopo Cristo, a esprimersi così, giustificando a suo modo la mancanza di trattati anatomici nell’antichità, contribuendo a creare – con pieno anacronismo – l’idea fittizia che la medicina ippocratica fosse in qualche modo dipendente dall’anatomia; per Galeno, era divenuto impossibile pensare a una medicina staccata dalla dissezione, da un sapere scientifico che non affondasse il proprio sguardo nel corpo spalancato delle pure evidenze, per sviscerarle come un qualunque trattato.
A partire da questa vicinanza tra anatomia e scrittura, cadavere e trattato, Mario Vegetti ha scritto nel 1979 un saggio la cui indagine è già tutta contenuta nel titolo: Il coltello e lo stilo. Se per Vegetti lo sguardo dei medici ippocratici indugiava ancora sull’uomo in quanto soggetto vivo, cercando di decifrarne i segni, la mistura di escrementi e umori rivelatori dei malanni, con gli alessandrini – – come Erofilo ed Erasistrato – e poi con Galeno «il paziente vivo è indagato come se fosse un cadavere», che bisogna aprire; «di qui il primato, per tutta la medicina “dogmatica” o “razionale”, dell’anatomo-fisiologia patologica sulla semiologia medica». Galeno, a cui l’ambiente romano impediva di fatto la pratica della dissezione sugli uomini che era stata «assai facile ad Alessandria», ricorreva, stando ai suoi racconti, ai cadaveri risputati dalle tombe aperte, a quelli disseppelliti, oppure – più semplicemente – ad animali ritenuti simili all’uomo, come la scimmia. La zootomia restava dunque il «fondamento della teoria medica», e agli occhi di Galeno occhi chiunque s’ostinasse a rimanere nel solco della tradizione ippocratica, lontano cioè dalle necessità della dissezione, veniva presto considerato un ciarlatano. Così, arrivando a fondare il proprio dominio sull’apparente evidenza dell’anatomia, la medicina incominciò ad aprire il corpo umano alla stessa sorte già incontrata dal corpo animale: entrambi avevano bisogno di essere spalancati, sezionati, classificati in ogni minima parte; «se per i pitagorici l’animale era un tabù, se i medici ippocratici ancora esitavano di fronte alla sua dissezione», con la scuola di Alessandria è «il turno del cadavere umano a farsi oggetto del metodo»; metodo che Galeno tratterà poi come metodo di studio in generale, come “pura teoria” tanto agognata. Per lui, infatti, le ragioni dell’anatomia sorpassano il solo campo del sapere medico, diventano meccanismi di tenace apprensione del mondo, utili ai filosofi «sia in virtù della pura teoria, sia per insegnare l’arte della natura all’opera in ogni parte del corpo» (PA II 2, K II 286s.).
L’assimilazione del corpo al testo, il farne uso per lo scavo filosofico, va però certamente rintracciata prima di Galeno. Aristotele, nell’analizzare la struttura del corpo animale, scrive infatti: «tre sono i livelli di composizione (synthesis). Come prima si potrebbe porre la composizione risultante da quelli che alcuni chiamano elementi (stoicheia), cioè la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco; ancor meglio sarebbe forse parlare della composizione come risultante dalle qualità… infatti il fluido, il solido, il caldo e il freddo sono la materia dei corpi composti. La seconda composizione (systasis), risultante dagli elementi primi, costituisce negli animali la natura delle parti omogenee, come l’osso, la carne e le altre dello stesso genere. Terza e ultima della serie è poi la composizione delle parti non omogenee, come il viso, la mano e le altre simili» (PA II 1). Synthesis, stoicheia, systasis: questa triade sintetizza l’assorbimento del corpo animale nell’economia testuale – economia che spolpa le carni vive, le disgrega per ridurle a limpidi oggetti d’indagine. Esplicita Vegetti che stoicheion «significa, com’è noto, la lettera dell’alfabeto la cui composizione genera sillabe e parole; sappiamo dalla Poetica che Aristotele definisce il linguaggio della tragedia come la composizione (synthesis) dei versi, e che systasis indica la struttura del racconto e del testo tragico»; il corpo dell’animale «è dunque come un testo, in cui le lettere danno luogo a diversi livelli di aggregazione», e «non sorprende certo che sia proprio Aristotele a consolidare questo punto di vista», segnando «l’avvento di uno sguardo che fa del corpo un testo predisposto alla lettura».

Del resto, il processo di razionalizzazione, il passaggio dal mondo nebuloso alla ragione, avviene in Grecia come spoliazione e decostruzione del mito, i cui elementi non sono cancellati, ma ripartiti e trasferiti dalla filosofia in una forma di pensiero laicizzato – pensiero che non assomiglia alla nostra scienza, essendo ancora completamente distante dall’idea di esperimento. Piuttosto, come spiega Jean-Pierre Vernant ne La formazione del pensiero positivo, il filosofo «dà il cambio al vecchio re-mago, signore del tempo: egli fa la teoria di ciò che il re, una volta, effettuava». Se nella Teogonia di Esiodo, Terra e Cielo, Gaia e Ouranos si mantenevano ancora in una indecidibilità, costituendo insieme realtà fisiche e potenze divine, già con i filosofi di Mileto essi sono spogliati «di ogni aspetto antropomorfo», delimitati e riclassificati come potenze astratte, che producono determinati effetti fisici: «le forze che hanno prodotto e che animano il cosmo agiscono dunque sullo stesso piano ed alla stessa maniera di quelle di cui constatiamo l’effetto ogni giorno, quando la pioggia inumidisce la terra o un fuoco asciuga un vestito bagnato». Cessando di presentarsi come oggetto mitico, il mondo incomincia ad assomigliare a una cosa quotidiana, che va per questo analizzata in ogni sua struttura, fissata e ordinata in un discorso stabile, razionale, naturale. La filosofia si trattiene nel sacro per farlo gradualmente, occultamente dileguare in teoria; l’intera cosmologia muta il suo contenuto: «da racconto storico, si trasforma in un sistema che espone la struttura profonda del reale. Il problema della génesis, del divenire, si muta in una ricerca che mira a cogliere, al di là del mutevole, lo stabile, il permanente, l’identico». Inevitabilmente, la spoliazione – secolo dopo secolo – si fa sempre più invasiva, infrange le dogane della pelle, incide la carne, con una formula prossima alla macelleria filosofica che, mentre denuda, sopraveste di nuovi significati il corpo-testo del mondo, riclassificandolo e dividendolo, alla maniera di Platone, «come un animale sacrificale, membro per membro» (Politico 287c.). Via via che si procede nell’affondo, questa oscura origine sacrificale si confonde nel buio luminoso delle viscere aperte, viene neutralizzata senza essere dispersa; è la certa purezza della scienza a conservare un carattere “sacro”, e a far comparire la dissezione come l’unica preghiera possibile nella forma della verità teorica. Leggiamo ancora nel libro di Vegetti:
In Platone (Fedro 265E), il buon macellaio, che sa spartire il corpo dell’animale secondo le sue giunture, era ancora l’analogo del dialettico impegnato nell’impresa di riordinare il mondo per via dicotomica. In Aristotele, la metafora è soppiantata dalla pratica diretta dell’uccisione inutile – inutile come la theoria che la giustifica e la esige. Se la dissezione è radicata nel sacrificio e nella ieroscopia, se Aristotele appare ancora un «anatomiste sacrificateur», è però vero che questa origine è meticolosamente occultata – proprio come l’origine della verità della theoria nel discorso sacro. E come quest’ultima finisce con l’impadronirsi del sacro e col trasformarlo in proprio oggetto, così la dissezione si presenterà come l’unica preghiera possibile nella forma della verità teorica.
Lo sguardo del medico e del filosofo non scruta più le interiora per leggervi, come nella ieroscopia, presagi o voleri divini; non cerca più la realtà pulsante e contradditoria della vita viva, ma gli indizi – nel cadavere – di una struttura ordinata, le conferme di un più vasto ordinamento che si estende all’intera natura. Lo sguardo arriva a comprendere, insomma, che «in siffatta melma di carni e di umori» – è Galeno a scriverlo – «abita tuttavia un’intelligenza, e vedendo anche la struttura di un qualsiasi animale – tutti portano il segno del sapiente artefice – comprenderà l’eccellenza dell’intelligenza celeste» (De usu partium, XVII, K IV). Così, il corpo dell’animale si contrae proprio nel momento in cui viene spalancato: raggrinzito entro il pieno dominio della teoria, che si limita a farne uso per fondarvi una tassonomia, esso viene quasi totalmente dimenticato come soggetto autonomo, sparendo dal campo percettivo pur nella sua totale esposizione. Ma che questo violento asservimento fosse soltanto una conseguenza di un processo molto più ampio, che la sovranità dell’utile fosse già in corso ben prima della confusione tra il coltello e lo stilo, è un altro fenomeno a testimoniarcelo; qualcosa che si dà allo stesso tempo come un programma millenario, e come un virus che non abbiamo ancora compreso del tutto.

II
«Tutti i cani sono lupi domesticati» annota Carl Safina mentre osserva i lupi selvatici della Lamar Valley, nel parco nazionale di Yellowstone. Trovandosi contemporaneamente a distanza, ma anche catturato da un’immediata fascinazione, Safina comincia a intuire nei branchi di lupi come un ordine sociale multiforme, fatto di cooperazione e rivalità, di violenza e cura, di protezione e abbandono, di gerarchie, compiti, libertà e vagabondaggi. Al contempo, il biologo statunitense non può fare a meno di notare la somiglianza del lupo con i cani, la sovrapposizione del loro vocabolario posturale, e insieme la distanza, la lacerazione radicale: i lupi sono «cani che si autogovernano» e che perciò continuano a mantenere una responsabilità verso la propria vita.
-->Sappiamo che sotto il profilo genetico un lupo differisce minimamente dal cane domestico: «I cani sono Canis lupus familiaris. Lupi. Quel familiaris, tuttavia, indica che sono i nostri lupi» (Al di là delle parole). La storia di questo familiaris, e del processo di domesticazione che prende l’abbrivio circa 15mila anni fa, non avviene come si potrebbe inizialmente credere, ovvero con esseri umani dell’Età della Pietra che s’impossessano di cuccioli di lupo per farne mansuete creature di compagnia, o temibili guardiani delle caverne. Non si trattò di una nostra orgogliosa conquista; ciò che accade è ben diverso. Sefina lo racconta così:
«i lupi gironzolavano intorno alle caverne e agli accampamenti umani, scroccando qualche osso gettato via e i resti delle carcasse macellate. I lupi meno ombrosi si avvicinavano di più, e ottenevano di più. Quelli con la pancia più piena allevavano una prole più numerosa, e la maggior parte di quei cuccioli era portatrice dei geni – chiave del successo – che prescrivevano un carattere meno ombroso. Questi cuccioli, leggermente modificati, crescevano nelle vicinanze di esseri umani, e questo portava a interazioni più frequenti e amichevoli. La tendenza di questi lupi a dare l’allarme in caso di avvicinamento di estranei e predatori sarebbe stata preziosa: gli esseri umani avrebbero incoraggiato questi guardiani a rimanere nei dintorni, offrendo loro una maggior quantità di scarti di carne. Gli extra avranno promosso la sopravvivenza di un maggior numero di lupacchiotti amichevoli nei confronti degli esseri umani. Tale interazione si protrasse per secoli. Questi lupi concentrati sugli esseri umani si specializzarono nello sfruttarli come nuova risorsa. Gli accampamenti umani divennero un nuovo habitat, e il comportamento amichevole procurava una maggior quantità di cibo. Alla fine, i lupi divennero presenze regolari intorno agli accampamenti, cominciarono a far la guardia ai campi come fossero il loro territorio, e presero ad accompagnare gli esseri umani quando andavano a caccia. I geni che promuovevano i comportamenti amichevoli si propagarono.»
Non furono gli umani, dunque, ma i lupi quanto meno a dare cominciamento alla domesticazione di se stessi attraverso questa prossimità; in aggiunta, non si trattò neppure di un’esperienza unilaterale, ma di un processo che coinvolse, impegnò e vincolò, inevitabilmente, anche la controparte umana, orientandola verso i cani, su cui iniziarono a fare affidamento, tanto per la difesa quanto per l’aiuto nella caccia. Si creò un rapporto di interdipendenza, e di contagio emotivo: «come indica la nostra esclusiva reazione emotiva agli scodinzolii, anche i cani – almeno in una certa misura – hanno domesticato noi». Così, l’intreccio relazionale generato tra essere umano e cane è da subito ambiguo, e ha conseguenze importanti; è, per così dire, l’avvio di un lungo autodomesticamento che lega insieme, in una dialettica irrisolvibile, conquista e impoverimento, sfruttamento e mutilazione sensoriale. La domesticazione, non solo dei lupi, ma via via di altri animali come bovini e maiali, innesca infatti una serie di accorgimenti sempre più vincolanti, come il passaggio alla vita sedentaria, il confinamento in spazi più ristretti, e la conseguente riduzione della sensibilità verso l’ambiente: quello smagrimento percettivo cui abbiamo fatto riferimento nel capitolo precedente, e di cui oggi portiamo ancora l’eredità. Mentre incomincia ad allargare il proprio dominio sulle altre specie, a farne uso per il proprio accrescimento, il mondo come moltitudine non domestica, come regno dell’imprevedibile selvaggio – tutto fatto di allarmi (e non di ripetizioni) -, inizia a scomparire, a non essere quasi più avvertito. Riparati nell’interdipendenza, essere umano e animale domestico si allevano a vicenda, percorrono un sentiero di modificazione reciproca:
Mentre i nostri animali domestici si adattavano a una vita caratterizzata da attività e stimolazioni ridotte, altrettanto facevamo noi. Nel momento in cui offrivano al bestiame condizioni di vita più sicure e più sedentarie, le popolazioni umane garantirono le medesime condizioni anche a se stesse. Il confinamento fu reciproco. Uscendo dall’ambiente naturale e insediandoci in terreni coltivati, di fatto non facemmo che diventare un’altra specie da allevamento. John Allman, che studia il cervello al Caltech, afferma che, con l’agricoltura e altri modi di ridurre i rischi quotidiani dell’esistenza, gli esseri umani si autodomesticarono. […] L’archeologo Colin Groves scrive: «Gli esseri umani sono andati incontro a una riduzione della propria consapevolezza ambientale parallelamente alle specie domestiche, ed esattamente per le stesse ragioni». Groves spiega che la domesticazione è una sorta di partenariato in cui «ciascuno dei contraenti è, in una certa misura, protetto dall’associazione con l’altro». E afferma che il prezzo di quella sicurezza è stato un certo ottundimento dei sensi, e che i cambiamenti avvenuti a livello cerebrale hanno causato, negli esseri umani, «il declino della sensibilità ambientale ».
Se nella vita del cacciatore-raccoglitore l’attorno scricchiolava di segni non univoci, di attraversamenti inquieti, di inneschi apofàntici, di mappe odorose e acustiche, di prede che richiedevano avventure percettive, prolungamenti, incorporazioni nelle vite animali (un pensarsi anche come cacciati), il passaggio all’agricoltura incista l’umano nella logica prevedibile della ciclicità. Certo: addomesticare bestie e piante, farne risorse generalmente garantite, implica un controllo più diretto sull’ambiente, un’autonomia che pare sciogliere l’umanità dai lacci miserrimi della vita affidata all’imponderabile; ma allo stesso tempo sospende indefinitamente l’allerta, accorcia di molto la gittata dei sensi, vincola a un altro tipo di obbedienza, che è l’obbedienza spaziale, l’identificazione con il gracile regno domestico in opposizione al terribile selvatico. Un intervento che si riflette inevitabilmente in ogni sfera dell’esistenza, fomentando un generale ammansimento, tanto nell’essere umano quanto delle creature di cui si circonda, che incarnano il processo: «nell’arco di generazioni successive di domesticazione moltissimi mammiferi divennero effettivamente più piccoli, e si dotarono di uno scheletro più leggere rispetto ai loro parenti ancestrali a vita libera».

L’ostracizzazione della bestialità implica un rigetto delle forme più violente di comportamento anche nel vivere delle comunità umane: un marcato intenerimento rispetto alla vita del cacciatore-raccoglitore, che coincide con una progressiva infantilizzazione di cui – a distanza di millenni – non abbiamo ancora visto la fine. Sostiene Safina, riprendendo i ragionamenti di Brian Hare e Michael Tomasello, che «se l’idea di autodomesticazione è corretta, significa che noi siamo in una fase giovanile ma che stiamo andando nella direzione di una infantilizzazione sempre più marcata».
A esprimersi con toni non dissimili è anche Paul Shepard quando parla della visione “monolitica” dell’agricoltore e dell’abitante del villaggio. Egli riconosce, in molti aspetti del mondo agricolo, un cupo arenamento infantile, che dell’infanzia non conserva l’apprendistato continuo e stupefatto verso il mondo, l’imprevedibilità del contatto con materie ancora sconosciute, ma piuttosto la fissazione, il sentimento di violenta onnipotenza, il letteralismo in assenza di una “natura metaforica”, l’incapacità di staccarsi dai luoghi e dalle abitudini familiari, di sperdersi, di farsi momentaneamente orfani per affrontare distanze e incorporare alterità, che è invece il paradigma favoloso delle fiabe quando – in ogni tempo – insegnano un controtempo, la necessità di un’iniziazione, di un passare attraverso pelli e frontiere assai differenti da quelle “domestiche”. In assenza di questo processo iniziatorio, di una danza delle lontananze e degli avvicinamenti con l’alterità «dello stato selvaggio (interno ed esterno) – la morte e i misteri di crescita e decadimento -», la fissazione s’estende ovunque, come un virus che continua a rafforzarsi. Afferma Shepard in Natura e follia che, pur con molteplici eccezioni, l’agricoltura
[…] non solo rese infantili gli animali tramite l’addomesticamento, ma sfruttò le tendenze infantili della normale neotenia umana individuale. L’obbedienza richiesta dall’organizzazione necessaria per qualsiasi altra forma più estesa della prima vita nel villaggio, e associata alla nascita di una casta militare, è infatti essenzialmente infantile e remissiva, riflettendo una lealtà orgogliosa ma istintiva, un legame tra fratelli di sangue dello stesso sesso, atteggiamenti avventuristi di gruppo, uno stretto conformismo e la disponibilità a soffrire e a sopportare, basata sull’orgoglio. L’abbandono dell’utilizzo totemico di piante e animali selvatici, e la congenialità dell’ ecosistema a essere considerato modello per speculazioni sociali, riportò l’iniziazione mitopoietica adolescente verso il pensiero filosofico a modelli familiari, comprendenti i sottoposti animali addomesticati. L’agricoltura cancellò i mezzi tramite i quali gli uomini potevano contemplarsi in altri termini rispetto a loro stessi (o alle macchine).»
Anche se il discorso rischia d’arenarsi a sua volta in frettolose generalizzazioni, è chiaro che un dominio quasi totale esercitato su piante e animali tende quanto meno a sfavorire il compito della discesa nel teatro della vita non umana, ovvero l’incorporazione della distanza; incorporazione capace di attraversare senza asservire – «affidando all’esproprio il suo trovato». È questo il punto: che tanto la dissezione quanto lo spalancamento filosofico, tanto il motore a vapore quanto il ritmo incessante dell’industria alimentare o dell’imperialismo algoritmico, per citare fenomeni apparentemente disomogenei, s’intrecciano, partecipano e comunicano con un comune processo di integrale asservimento, con una macchinazione che, nonostante i controtempi introdotti in ogni tempo, continua a funzionare con grande vigore. Il filosofo Timothy Morton chiama tutto ciò con un’espressione che può essere accolta anche in questa nostra indagine: la macchinazione agrilogistica. Ma cosa s’intende?
III
Bruno Latour ha sostenuto che non siamo mai stati moderni. Ma forse sarebbe meglio dire che non siamo mai stati neolitici.
Timothy Morton, Ecologia oscura
L’agrilogistica, una macchinazione lunga dodicimila anni, un programma capace di creare «un iperoggetto, l’agricoltura globale», prende avvio nella cosiddetta Mezzaluna Fertile, e dura ancora oggi. Scrive Morton che un cambiamento climatico
vissuto dai cacciatori-raccoglitori come una catastrofe li spinse a trovare una soluzione rispetto alla paura su dove si sarebbero procacciati il prossimo pasto. Siamo alla fine di un’era, il colpo di coda di un periodo glaciale. Una siccità durata più di mille anni costrinse gli umani a mettersi in viaggio, a spingersi più lontano. […] In Mesopotamia, gli uomini iniziarono a fondare villaggi dotati di granai. L’immagazzinamento e la selezione dei grani hanno costretto le piante raccolte a modificarsi. Gli umani selezionarono il grano perché era buono, facile da raccogliere e per altri motivi favoriti dal programma agrilogistico. A un livello superiore, è possibile osservare quanto potente fosse la pressione evolutiva. Novemila anni fa gli esseri umani iniziarono ad addomesticare gli animali per mitigare le variazioni stagionali, una modifica al programma agrilogistico che lo mantenne in vita. Diversi millenni agrilogistici dopo, la massa degli animali domestici supera di gran lunga (letteralmente) quella degli animali non addomesticati.
Per Morton, l’agrilogistica nasce sin dal principio come conseguenza di una disperazione vissuta dai cacciatori-raccoglitori, un’angusta ritirata che prometteva non solo un controllo più certo sulle economie della propria esistenza, ma anche la cancellazione (ideale) delle contraddizioni e delle ansie ontologiche, degli oramai pericolosi mischiamenti bestiali – stabilendo così «confini rigidi e netti tra umani e non umani». Incominciando a scindere domestico e selvatico, lavando i due termini della loro reciproca interdipendenza, la “rivoluzione agricola” del Neolitico si affermò marcando ciò che escludeva, garantendo così l’insediarsi miserabile e patriarcale delle gerarchie identitarie, destinate a riprodursi – seppur tortuosamente – nei millenni a venire, come altrettanti esempi del contagio agrilogistico. Gli effetti di questo contagio sono onnipervasivi, segnano e arano il campo immaginativo, sono piantati in esso; il modo stesso «in cui scriviamo, ciò che scriviamo e ciò che pensiamo sulla scrittura sono elementi già presenti nello spazio dell’agrilogistica». Ecco perché la parentela tra coltello e stilo, la vicenda del corpo aperto come un trattato, asservito alla lettura umana, è inestricabilmente aggrovigliata al programma agrilogistico “avviato” molto prima della comparsa dei filosofi e dei medici dell’Antica Grecia. Non si poteva scrivere la parola senza inscrivere la terra, marcarla, farne la superficie, come sostenevano Deleuze e Guattari, su cui s’incide tutto il processo della produzione – processo che ci incide a sua volta. Terra e corpo, ferita e identità, debito, crudeltà e memoria: tutto è compreso e in-risolto in questa stessa macchinazione: «i primi segni sono i segni territoriali che piantano i loro drappelli sui corpi. E se si vuol chiamare “scrittura” questa iscrizione in piena carne, allora effettivamente bisogna dire che la parola presuppone la scrittura e che proprio questo sistema crudele di segni iscritti rende l’uomo capace di linguaggio, e gli dà una memoria delle parole» (L’Anti-Edipo).

Ma esattamente come le erbacce crescevano comunque nei manoscritti medievali – infestando dal margine il terreno letterario nel quale sembravano non dover più crescere –, le erbacce del non-umano continuano a crescere ovunque, e ne siamo avvolti senza accorgercene. Le conquiste del programma agrilogistico non sono mai state davvero assolute; anzi: il loro dominio è più che altro un fenomeno inibitorio, che cancella la percezione di ciò che non si può eliminare. Gridava il “folle” Domenico immaginato da Andrej Tarkovskij e Tonino Guerra in Nostalghia che «nei cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne», «dall’asfalto e dalle pratiche assistenziali», deve e può ancora entrare «il ronzio degli insetti», il disturbo intermittente che fende e spodesta il principio di non contraddizione, rivelando, appunto, che i confini fissati non sono mai stati certi: i mischiamenti bestiali o mostruosi si mantengono in noi, anche se di traverso. Morton chiama Archilitico questa relazione primordiale tra umani e non umani mai davvero cessata: «noi mesopotamici» afferma «non abbiamo mai davvero abbandonato la mentalità dei cacciatori-raccoglitori». L’ansia, l’angoscia, la necessità di asservimento dell’alterità, le facili negoziazioni quotidiane fanno sì che l’Archilitico venga dimenticato; eppure, sempre si conserva in noi una modalità di attraversamento del mondo portata oltre le rivoluzioni artificiali o le cancellazioni assolute: «l’Archilitico è uno spazio di possibile che tremola all’interno, al di sotto e al lato di periodi che abbiamo delimitato artificialmente e chiamato Neolitico a Paleolotico ». Così, è bene sapere che dentro lo schermo di ogni scrittura, dentro la pelle di ogni trattato, continua a rabbrividire – tra il coltello e lo stilo – il resto di una vita animale, che apre nell’umano non la certa cattura della dissezione, ma lo spazio imprendibile e ambiguo di altri possibili.
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