Da Federico Campagna ad Alberto Manguel, sciamani, mistici e profeti sono chiamati a stabilire cosa lasciare in eredità al nuovo mondo a venire.
In copertina e nel testo: Alessandro Kokocinski, Bambina sulla giostra (1973), Asta Pananti in corso
di Alessandro Mazzi
«Bisogna andare avanti, non posso andare avanti, e io andrò avanti»
Samuel Beckett
Viviamo un interregno tra la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Questa civiltà è in rovina e per ora non sembra esserci nessuna alternativa all’orizzonte, ma quando crolla ogni certezza si deve camminare nella catastrofe con la nobiltà del cavaliere spirituale futuwwah dello sciismo, e lavorare attivamente alla nascita di nuove cosmologie. In Cultura profetica, edito per Tlon, il filosofo Federico Campagna chiama a raccolta profeti, sciamani, e mistici per cartografare un nuovo tempo adottando l’invenzione/rivelazione profetica. In gioco c’è la responsabilità di nutrire l’immaginazione e le storie di quelli che Campagna chiama gli adolescenti arcaici, coloro che ci succederanno, per aiutarli a sentirsi a casa in questo cosmo. Il worlding dell’autore è l’atto di fare-mondo, ripreso da Heidegger, «un processo metafisico che distingue i diversi “qualcosa” individuali, creando così delle discontinuità in un piano di pura esistenza in cui non esistono divisioni». Dal mare oceanico delle percezioni indifferenziate, il mondo e il tempo sorgono come «una storia probabile», il ritmo del mondo che mondeggia è il tempo di un particolare mondo. Il tempo e i mondi sono come i canti dei rapsodi greci: la metrica poetica scandisce un tempo-segmento e genera la canzone-mondo di una civiltà.
Campagna si chiede che cosa lascerà la Modernità occidentalizzata del Capitale, delle informazioni e dei fatti in eredità agli arcaici futuri, rispetto a tutte le altre civiltà passate e future. Soprattutto, cosa dovrebbe rimanere? A confronto con le civiltà antiche, la nostra non produce niente di fondativo che possa essere trasmesso e rielaborato in ulteriori cosmologie. Per Campagna la modernità come concetto richiama il tempo presente che si vive ed è legata alla propria canzone-mondo, ma se le civiltà antiche si relazionavano anche ad altri tempi oltre al proprio che ne compensavano l’azione, la nostra invece è una «modernità idiota» perché si chiude solo su se stessa. Le sue creazioni sono tutte tarate per sé e incapaci di sopravvivere in un altro mondo. Maree di dati spazzatura caricati su server inaccessibili fuori dalla nostra tecnosfera, un consumo costante di risorse per abusare dei propri processi, contenuti digitali creati con la stessa angoscia degli archeologi ottocenteschi desiderosi di arricchire i propri musei di reperti da tutto il mondo. Città invivibili a causa della gentrificazione, dello smog e del mercato affittuario, con edifici e infrastrutture che sbricioleranno in neanche un paio di secoli senza lasciare rovine ma solo cumuli di cemento, plastica e ruggine. Scorie nucleari e isole di plastica, spazi urbani e interi ecosistemi alluvionati o desertificati, la massima efficienza e crudeltà realizzate in secoli di estinzioni di massa e allevamenti intensivi che riprendono il modus operandi delle segregazioni indigene nelle riserve e dei migranti nei campi profughi. L’intelligenza artificiale in Campagna è il compimento perfetto della modernità: sostituisce la coscienza umana e crea sudditi senza possibilità d’appello a formare una coscienza collettiva senza emozioni e consapevolezza. Non sorprende che in Dune, Herbert concepisca il futuro senza di essa, preferendole il volo sciamanico-spaziale della spezia.
Nella Cosmografia in coda al libro, dove la prosa saggistica passa oltre la porta egizia dell’aldilà per narrare il viaggio immaginale oltre questo tempo, la nostra civiltà è l’Isola dei Fatti, una monade chiusa da una Cupola di Vetro alienata da tutto. I suoi abitanti sono infestati da un parassita, un Leviatano-Capitale che si nutre delle loro informazioni e interazioni, sopprimendoli se si fermano. Gli abitanti credono che fuori ci sia solo il nulla e gli unici che possono uscire dalla Cupola sono i morti, bruciati su pire funerarie in mare. La morte come liberazione, e quindi trasformazione nella fiamma. Per Campagna quest’ordine di cose nasce a partire dal 1648 con la Pace di Vestfalia, quando gli Stati si costituiscono unità sovrane dei propri membri. Il potere viene settorializzato: l’idea di nazione rende ogni Stato sovrano assoluto dei suoi membri e del territorio. Le interferenze esterne sono denunciate e gli Stati vivono slegati dal resto del cosmo. Le identità vengono classificate, ridotte a norme categoriche che saranno applicate dal capitalismo emergente, oltre a essere schedate, controllate e oppresse dalle prime forze di polizia nate nel 1667. Al contempo, aggiungo di mio, non è un caso che vengano create in questo momento le categorie speculari di politeismo e monoteismo, prima inesistenti. Nel 1580 il filosofo francese Jean Bodin scrive De la démonomanie des sorciers dove chiama politeismo tutte le conoscenze non cristiane, considerate inferiori, sia dell’antichità che delle arti stregonesche presenti, rinnovando l’accusa biblica di idolatria. Il politeismo è una risposta all’ateismo, termine già nato in Francia dal 1566, a cui viene equiparato, perché credere in molti dèi nega l’unicità del dio cristiano. A seguire, nel 1660 il filosofo britannico Henry More conia il termine monoteismo nel suo pamphlet An Explanation of the Grand Mystery of Godliness per attaccare il materialismo di Hobbes. Monoteismo però è un termine paradossale, perché istituisce l’unicità della razionalità divina includendo la pluralità interna del dio cristiano. Dopo l’Età teocratica del Medioevo, il dio unico cerca di sopravvivere nel suo rovescio, ovvero come ideologia nella filosofia razionalista e demiurgo nel Capitale. Quando una cosmologia decade, può tentare di perpetuarsi in metastasi concettuali. Perciò, per parafrasare Latour, non siamo mai stati monoteisti.
Se in Campagna «un mondo riesce a sopravvivere alla fine del suo corpo storico solo attraverso le alterazioni sincretiche postume, piuttosto che attraverso i propri sforzi di conservazione archivistica», ciò implica che un mondo non solo sia in grado di lasciare una traccia della propria cosmologia, ma anche che questo seme sia fertile abbastanza da farne fiorire altre. «Molti tipi di “mondo” non hanno saputo offrire nulla che favorisse la nascita di nuovi mondi dalle loro ceneri», e d’altronde innumerevoli cosmologie umane e non-umane di cui non conosciamo il destino sono scomparse al punto che ne ignoriamo l’esistenza. I tre esempi di Campagna toccano la civiltà minoico-micenea, le cui rovine palaziali attraverseranno i quattro secoli muti del Medioevo Ellenico, fino a ispirare il cieco aedo Omero a narrare l’Iliade e l’Odissea. La grandezza di Omero è di aver tratto dall’antica traccia rimasta un nuovo mito, non importa se non sia storicamente accurato, perché «i miti non indicano l’ora esatta di una civiltà, ma il modo in cui essa produce il proprio tempo». Oppure ancora l’Europa carolingia, che dopo il periodo buio dal VI al IX secolo d.C. vede Carlo Magno assumere il titolo di Imperatore dei Romani attingendo all’apparato romano preservato dalla Chiesa, nonostante non avesse più alcun peso da più di quattro secoli e le rovine romane fossero già fatiscenti.
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Nel terzo esempio, quando l’Egitto venne ellenizzato da Alessandro Magno, poteva vantare già più di duemila anni di storia sacra, e più recentemente diversi secoli di dominazioni assira e persiana. Per gli egiziani di età ellenica le antiche piramidi di Giza erano tanto antiche quanto lo sono i romani per noi, eppure anche se certe conoscenze erano andate perdute, si sapeva che quelle opere erano la canzone-mondo dei propri antenati. L’Egitto tolemaico però è a tutti gli effetti un pallido fantasma di ciò che era stato, ricorda Campagna, costretto a un processo di traduzioni e reinterpretazioni a partire dal faraone Tolomeo I Sotere. Per legittimare il nuovo impero del 300 a.C., diverse divinità greche ed egizie furono fuse tra loro, tra cui Zeus, Ade, Dioniso, Osiride, Api, e per traslato finanche lo sciamanico dio mesopotamico Enki-Ea, per dare vita a Serapide, il cui culto principale si diffuse da Alessandria in tutto il Mediterraneo. Un fenomeno tipico dell’Età del Ferro e dell’Età Assiale di Jaspers. Nel Vicino Oriente antico c’è un tacito riconoscimento che i vari dèi tra i diversi popoli possono ricoprire lo stesso ruolo dei propri e quindi condividere la stessa natura totemica, perciò durante gli scontri tra potenze straniere, spesso questi dèi vengono assimilati dal dio del popolo più forte, sia perché si intende che il dio sconfitto abbia riconosciuto la forza superiore del vincitore, sia perché ciò dimostra che il vincitore è per propria virtù più degno dell’altro dio di ricoprire lo stesso ruolo. Sovente le due cose si equivalgono. La statua del dio vinto, che ne incarna la presenza divina, viene portata alla corte del dio vincitore per dimorare nel suo tempio, di modo che possa infondere la propria energia al dio più degno osannandolo, dedicando il suo potere alla corte/pantheon dell’altro. Queste dinamiche tipiche delle civiltà dell’Età del Bronzo poggiano sul fatto che tutti gli dèi condividono gli stessi totem animali, ruoli e geografie sacre simili. Dopo il collasso dell’Età del Bronzo (1200 a.C.) si inaugura un’epoca buia. Le società complesse e gerarchiche del Bronzo vengono devastate da cambiamenti climatici, siccità, terremoti, epidemie, invasioni e migrazioni di massa, lotte intestine; solo gli egizi e gli assiri riescono ad arginare i danni. Il passaggio all’alchimia del ferro, il crollo della mente bicamerale di questo periodo e i nuovi equilibri politico-sacerdotali trasformano tutto l’apparato metafisico per favorire l’accentramento di poteri e funzioni nelle presenze di pochi dèi regi, promuovendo la monolatria che sfocerà nei nostri ultimi duemila anni. Serapide nasce alla fine di questa lunga ierostoria, come la chiama Corbin. E se Campagna nota come la testa del dio sincretico apparirà sul sigillo di Carlo Magno, di mio ricordo che l’iconografia di Serapide, umano barbuto dai lunghi capelli mossi, verrà ripresa dai primi cristiani come modello di riferimento per rappresentare la natura divina di Gesù che fino ad allora, per via della sua fama di taumaturgo, era stato ritratto tra i romani come un giovane uomo imberbe con la toga. Questo processo rientra nel valore della menzogna, che Campagna considera forse l’ultima possibilità per la modernità di lasciare qualcosa di sacro. I cristiani non conobbero mai Gesù in vita, perciò adoperarono l’iconografia degli dèi dell’epoca per immaginarselo, e così le varie comunità si dotarono di una figura guida per diffondersi nel mondo antico. L’elite giudea fece lo stesso nel VI secolo a.C. quando tornò dall’esilio babilonese, inventando la Genesi e l’Esodo dopo aver attinto ai miti mesopotamici negli archivi babilonesi e ai miti cananei ugariti, per dotarsi di un passato glorioso e rifondare la monolatria di Yahweh sul modello zoroastriano. Mentire è un’arte potente.
Fuori la tecnosfera, un tentativo di tornare alle radici della cosmopoiesi occidentale viene compiuto da Alberto Manguel nel suo Frammenti d’argilla edito da Olschki, dove tutta l’esperienza umana si inscrive nella cosmologia dei quattro elementi in Dante. Fuoco, acqua, aria e terra hanno costituito un cosmogramma sin da quando Empedocle raccolse gli insegnamenti degli antichi sapienti sophoi nelle quattro radici che costituiscono la totalità dell’essere. I filosofi sciamanici Talete, Eraclito, Anassimene e Anassimandro fanno contemporaneamente lo stesso. Per loro i quattro non erano ancora elementi, ma delle manifestazioni in cui si realizzava di volta in volta una potenzialità universale ineffabile, illimitata, arcaica, infinitamente capace di divenire ogni cosa senza esaurirsi in nessuna delle proprie conformazioni, chiamata da Anassimandro apeiron, il senza-fine. Ognuno dei veggenti eleggeva una di queste potenzialità, come il fuoco per Eraclito o l’acqua per Talete, a principio di tutto, perché in essa ritrovava l’epifania che meglio esprimeva la forza della propria immaginazione creatrice/cosmica. A seguire Platone e Aristotele sistematizzeranno i quattro elementi, e da lì entreranno a far parte delle cosmologie egizio-elleno-ermetica e di quella cristiana. Nel Timeo i quattro elementi vengono adoperati dal demiurgo per creare le forme corporee tangibili. Dante riprenderà i quattro dal Timeo per formare la cosmologia dei vari cerchi della Commedia. Il mondo sublunare come l’Empireo e tutto il resto del cosmo sono le uniche zone soggette al mutamento perché formate dai quattro elementi ordinati dal dio demiurgo. Dante opera una gerarchia basata sulla costanza dell’identico e dell’eterno, dove l’aria del Purgatorio si trova in cima, letteralmente, per la sua immutabilità rispetto al fuoco che brucia, l’acqua che scorre e la terra che si muove. Manguel riprende il libro nella sua matericità alchemica. L’acqua fabbrica la carta che si intinge d’inchiostro nella scrittura del poema fino a diventare i fiumi dell’Eden nel cantico. La terra è sia l’essenza dell’argilla di cui siamo fatti, sia il mondo circolare che imita la perfetta circolarità del dio mistico, di cui non riusciamo a vedere mai l’interezza ma solo una parte. L’aria è il fiato che vivifica l’argilla, rende visibile la materia con la sua trasparenza, è il respiro dell’universo che inscrive il linguaggio del libro del mondo insufflato dagli alchimisti nelle arti magiche combinatorie. Il fuoco brucia e illumina, per gli alchimisti ha in sé le qualità di ciò che tocca, quindi di ogni cosa. Bruciando asciuga l’argilla, immobilizza la materia. Nell’opera di Athanasius Kircher rivela la scrittura nelle crepe, oppure purifica, monda, trasfigura. Manguel rompe l’oggettualità “culturale” del libro e lo riporta ai tomi miniati, microcosmi elementali. L’alchimia è un’arte che aiuta ad abitare gli elementi.
Volendo unire i discorsi di Campagna e Manguel, potrei dire che anche se dovessimo trovarci sprovvisti di una canzone-mondo, fuori una qualunque cosmologia o metafisica ereditate da un’altra civiltà, esiste un intero universo che si perpetua anche senza umani, da cui eventuali comunità future possono trarre immagini preziose, a prescindere dall’esistenza di civiltà precedenti. Un caosmo deleuziano da cui si possono trarre gli aspetti più immediati ed elementali del cosmo che fungono al contempo da origini e canzoni universali, onnipresenti e inesauribili, tanto di metafisiche quanto di processi mentali. Campagna lo sa, «in assenza di una civiltà umana che li avesse preceduti, i cosiddetti popoli primitivi si sarebbero comunque imbattuti nelle grandi civiltà non-umane dei regni vegetale e animale, con i loro modi di vita e le loro prospettive metafisiche», perciò da dietro le quinte concentra il suo discorso sulla trasmissione tra civiltà. Credo che valga la pena combattere per una cosmologia prismatica dove l’identità e l’ibridezza sprigionino tutti i possibili poter-divenire tra tutte le esistenze, riposandosi e ridendo ogni tanto nella notte in cui tutte le epoche sono nere, scrollandosi di dosso questi millenni per distendersi su uno dei tetti di Çatalhöyük. La Storia insegue gli eventi, ma dimentichiamo che per eoni non è successo nulla. A parte grossi eventi isolati come invasioni, calamità, innovazioni tecnologiche e incoronazioni, prima e durante la storia umana la maggior parte del tempo speso da cacciatori, agricoltori e pastori consiste nel cacciare, raccogliere, coltivare, raccontarsi storie a fine giornata e incontrarsi negli spazi comuni. La routine e i tempi morti scandiscono l’esistenza. Per quanto possiamo dire, nella società egualitaria di Çatalhöyük per mille anni non è successo niente. Una rara benedizione, a cui si può tornare proprio quando si balza oltre nella terra-del-non-dove. Il Nulla può essere una confortevole reggia da cui cominciare l’opera di fare mondo. Anche lì non saremmo soli.
Chiaramente l’ordinamento del cosmo in quattro, cinque o ulteriori elementi è già di per sé una cosmologia “umana troppo umana” basata sull’immediata percezione del mondo circostante che eccita alcune nostre facoltà piuttosto che altre. L’estetica in Campagna è il processo di fare-mondo per eccellenza. Inscrive i rapporti e la tensione visionaria dei popoli desiderosi di fornirsi un orizzonte immaginale-iconografico entro cui dimorare, «chiede solo un’altra occasione, dopo la fine di una storia, per iniziarne da capo una diversa». Aggiungo, è il motivo per cui le ali delle divinità e dei geni egizi hanno tratti rigidi lungo le sponde tranquille del Nilo, mentre man mano che le sfingi viaggiano dall’Egitto lungo il Levante, giungendo al limitare dell’impero persiano, verso la Grecia e sfiorando l’India, le loro ali e movenze si fanno gradualmente più sinuose e rapaci, perché entrano in territori più selvaggi dalla geografia aperta. L’estetica configura l’esperienza diretta del mondo, trae dalla realtà le possibili mondità che si traducono in prospettive, stili, proporzioni, pigmenti, armonie delle forme e dei suoni, alchimie di tinture e fiati, vesti, architetture, linguaggi. È il tempio antico come centro cosmico della fiamma iridescente nelle cui mura/lingue di fuoco sono dipinte/sorgono le immagini degli dèi e delle chimere sacre dalle pelli d’oro, la totalità dei viventi sul manto maculato del leopardo dionisiaco.
Per Campagna il «linguaggio assoluto» della modernità occidentale codifica e classifica, fomentando la paura per le identità fluide e l’ibridezza. In compenso, direi, il linguaggio primigenio anima. Non sorprende che i primi geroglifici egizi siano animati dagli animali che ne sono i glifi, le presenze e gli spiriti protettori, anche dopo il processo di alfabetizzazione. In egiziano antico non si distingue tra scrivere e disegnare. Scrivere/disegnare evoca gli animali dei geroglifici, nominare realizza. Tra questi, molte intelligenze non-umane genereranno altri mondi basandosi su elementi e strumenti per noi inconcepibili, così come ne generano innumerevoli proprio ora in qualsiasi istante, formando realtà policrome come nei dipinti del Tempo del Sogno degli aborigeni australiani. Non è necessario augurare la nascita di un nuovo mondo perché una canzone-mondo trovi qualcuno per cantarsi, e non serve l’umano per tradurre tutto ciò in estetica. Lo scarabeo stercorario africano spinge la sua sfera di feci seguendo le vie tracciate dalla luce polarizzata della Luna e dagli ammassi di stelle della Via Lattea. Seguendolo, si cammina lungo le stesse traiettorie degli astri e dei miti, la sua estetica che diviene anche la nostra. Gli egizi hanno immaginato la nascita del Sole imparando dallo scarabeo. Il dio scarabeo Khepri rigenera il Sole nascente ogni giorno, lo trasporta lungo la volta celeste e oltre l’orizzonte, per poi rinascere nuovamente. La rigenerazione dello scarabeo formula il geroglifico ḫpr, «venire all’esistenza», «trasformare», «modalità d’esistenza»; il suo significato è lo stesso dell’essere-nel-mondo di Heidegger, dei modi d’esistenza di Latour, ed è legato a una sfera come l’essere-nel-mondo sferico di Sloterdijk. Da quando abbiamo smesso di scrivere con le immagini viventi, inseguiamo concetti sterili, ma per il mondo a venire serve un linguaggio diverso. Dato che storicamente l’alfabeto fonetico che adoperiamo deriva dalla trasposizione di alcuni geroglifici in lettere proto-sinaitiche, poi giunte lungo il Mediterraneo fino a divenire lettere fenicie, greche, etrusche e latine, auspico l’abbandono della scrittura fonetica e la rinascita di una lingua disegnata sul mondo vivente.
Il filosofo sufi anarchico Hakim Bey cita spesso nei suoi scritti la traccia sciamanica presente nella civiltà, perché ogni mondo può essere riforgiato e la sua (ri)fondazione sorge dall’attività dei suoi sciamani. La traccia sciamanica ricorda che una civiltà non è mai compiuta del tutto ma si eccede sempre. Qualora non fossero mai esistite altre civiltà e la storia non fosse mai sorta, gli sciamani avrebbero comunque continuato a cantare mondi infiniti. Le TAZ, zone temporaneamente autonome riportate da Hakim, nascono proprio dalla traccia sciamanica che serpeggia ovunque in guisa di un serpente piumato. Sono piccole oasi che si espandono nel deserto della modernità, utopie potenziali che sorgono con la grazia del loto sul lago. Sono varchi, incrinature e mulinelli nella Cupola di Vetro dell’Isola dei Fatti. Volendo si possono chiamare utopie/eutopie, luoghi belli da abitare fuori dal noto, nelle parole inventate da Tommaso Moro nel suo Utopia, ripreso dalle edizioni (†*) Timeo.
Non concepisco l’utopia come qualcosa che debba essere creato, ma rigenerato. Abitare nell’azteca Tenochtitlan basta a sentirsi a casa in una città sacra al centro del cosmo. Se la modernità si fonda sullo Stato territoriale, l’utopia è anzitutto de-urbanizzazione e de-nazionalizzazione, ritorno dell’atemporale. Bisogna attivamente rimuovere asfalto, costruzioni e ogni intrusione moderna per far respirare il mondo, esercitare l’arte di scomparire dei mistici e fare spazio al futuro. Questo sarebbe il senso più alto dell’ecologia. Un governo sano oggi è un governo che si de-struttura e si suicida, ma «chiedere al potere di riformare il potere. Che ingenuità!», dice Bruno nel film di Montaldo. Perciò Hakim propone nel suo libro La vendetta di Zarathustra un assalto (meta)fisico metodico e ponderato alla modernità. Esercitare la cultura profetica con la vendetta di Zarathustra forma un connubio esplosivo che mi piace riportare alle forme irate dei Buddha presenti nei rami esoterici del buddhismo tibetano, Shingon e Tendai, chiamate Re di Saggezza. L’esistenza di Buddha irati dalle fattezze terrifiche serve a esprimere la tonitruanza dell’immaginazione illuminata, il colpo di spada e di lancia come atto fondativo contro la paura del collasso e l’oppressione teofascista. Arrabbiarsi e lottare per attuare l’utopia. Come i Re di Saggezza rimuovono gli ostacoli all’illuminazione, così noi possiamo rimuovere i ristagni della Modernità che ritardano il sorgere di nuove realtà. Distruggere il vecchio mondo di giorno, crearne un altro di notte.
Campagna concepisce la tradizione nel suo senso originale di «consegnare», evitando sapientemente le idiosincrasie settarie della destra. «Consegnare a posteri sconosciuti le ceneri della propria eredità, come un terreno fertile per la nascita di nuove storie, del tutto slegate e infedeli rispetto alle proprie: questo è il significato della tradizione e dell’arte di costruire rovine». La destra esoterica manipola la realtà per perpetuare se stessa, mentre la cavalleria spirituale semina grano sapendo che non lo vedrà crescere. Per guarire l’angoscia della perdita del mondo, Campagna distilla un potente tetrafarmaco. La cultura profetica combina quattro presenze in una che si completano a vicenda per creare intere geografie immaginali. Il metafisico/filosofo elabora ordini sulla totalità vivente per renderla logica e senza contraddizioni, ma rischia di castrarsi in una cosmologia chiusa. A questo rimedia lo sciamano, che vive tra le soglie delle cose, dei mondi e del nulla, immerso in distese continue dove gli esseri sono e non sono al contempo, ma in cui è costantemente coinvolto in quanto soggetto. Da qui il mistico esercita il ritiro dall’esistenza e l’obliazione di sé, permette all’ineffabile di riflettersi in un’esistenza pura, ma rischia di ritirarsi asceticamente dall’atto creativo di nuovi mondi. Infine il profeta, trait d’union che riprende tutti questi volti formulando il linguaggio adatto per trasmettere il seme cosmologico alle comunità e tradurre in dicibile il silenzio prima della canzone-mondo. Il profeta contempla simultaneamente i diversi livelli di realtà, parla da fuori il tempo, adopera la filosofia-letteratura, o anche qualsiasi altra arte di cui è capace, assieme allo sciamano il suo potere plasma la realtà con il ritmo poetico che scandisce i tempi-segmenti di ogni cosmo. Ognuna delle quattro figure è un’esistenza irriducibile a se stessa, i filosofi-profeti sono anch’essi adolescenti arcaici che oscillano tra orizzonti sempre aperti, l’infanzia e la vecchiaia, l’alba e il tramonto. La descrizione che ne dà Campagna è funzionale al discorso, ma proporrei di concepire sciamani, mistici e profeti in senso radiale, ovvero il profeta è contenuto nel mistico e nello sciamano, il mistico è contenuto nello sciamano e nel profeta, e lo sciamano è l’origine da cui si irradiano entrambi. Profeta e mistico sono sintonie che lo sciamano adotta in base alla necessità e alla presenza con cui interagisce. Per esempio l’iniziazione sciamanica prevede già un’apertura mistica nelle prime visioni dell’infanzia che ne appurano la chiamata, nello smembramento di sé da parte degli spiriti o nell’autosacrificio del Chöd tibetano, e quando lo sciamano ne rinasce non si costituisce come soggettualità ma come una sfera prismatica nuda, tarata sul cosmo della propria comunità. Il profeta incarna la medialità e teatralità dello sciamano quando parla di fronte ad altre presenze divine o popoli, ma quando incluso al cospetto di presenze troppo potenti che ne dominano l’immaginazione creatrice, lo sciamano può diventare profeta. In questo l’antropologia di Viveiros de Castro e Descola, un po’ meno in Ingold, manca il bersaglio, perché mantiene un’impostazione ontologica per ampliare l’idea di soggettività ai non umani, ma continua a muoversi erroneamente sul livello del soggetto, considerando lo sciamano solo in base a ciò che può essere, divenire e operare. Serve ridefinire alla radice chi sia lo sciamano fuori l’antropologia, piuttosto che prendere singoli contesti indigeni come riferimento ed eleggerli a esempi universali.
Come Nietzsche e poi Gibran, anche Campagna salpa per mare nella favola a fine libro. La ciurma che compone le varie identità umane dell’autore-cartografo esplora isole e mondi disegnando una mappa verso la natura stessa della coscienza, dall’ineffabile al sogno, il dio della mistica e gli dèi dormienti, dall’Essere al Non-Essere, fino alla Morte e alla Non-relazionalità. In La Specie Storta, Giorgiomaria Cornelio scrive allo stesso modo una favola poetica partendo per mare verso altre isole poste oltre la soglia dei mondi. Campagna giunge alla fine nella Morte del sé, «Io sono solo il raggio di uno sguardo; consapevolezza senza corpo», chiudendo con la pagina bianca della non-relazione a siglare l’approdo mistico. Ma è proprio giunti a questo punto che inizia la danza cosmica e si sale in groppa alle chimere alate. Il mistico è uno sciamano che riposa. Dal mare oceanico dove siede sorgono infiniti esseri misti. Crisomalli, Lamassu, Sfingi, Buraq, Fenici, Anzu, Simurg, Grifoni, Peryton, Cherubini e Serafini, Kamadhenu, Kimnara, Sirene, Longma, Qilin, tutti gli esseri ibridi sacri sono spiriti guardiani, amici, amanti, fratelli/sorelle, sposi, e gli stessi sciamani-profeti. Sono daimon e divinità che viaggiano in ogni punto del cosmo e dell’ineffabile, incarnano la quintessenza dell’immaginazione creatrice, nessuna porta e nessun tempo gli sono preclusi. Al viaggio in mare di Campagna e Cornelio accompagno il volo chimerico in groppa agli animali sacri, per impegnarci tutti alla creazione di nuovi mondi.
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