Per il filosofo Dewey l’opera d’arte non ha nessun senso di esistere come categoria peculiare. L’esperienza estetica può scaturire da qualsiasi attività significativa e l’arte è un’esperienza che si vive dal lato di chi la esperisce, non di chi la crea.
In copertina e lungo il testo Joan Brown, “Year of the Tiger” (1983), enamel on canvas, 72 x 120 inches (Courtesy George Adams Gallery, New York)
di Marco Mattei
Beauty is truth, and truth beauty
that is all ye know on Earth, and all ye need to know.
Ode on a Grecian Urn, John Keats
La più antica esperienza dell’arte deve averne riconosciuto la natura incantatoria, magica: l’arte era uno strumento del rito.
Contro l’interpretazione, Susan Sontag
Arte come esperienza
‹‹Per una delle perversità ironiche che spesso affliggono il corso delle cose›› scrive John Dewey, filosofo statunitense di inizio ‘900, in Arte come Esperienza ‹‹l’esistenza delle opere d’arte da cui dipende la formazione di una teoria estetica è diventata un ostacolo per la teoria che le concerne››. Affermazione di una certa perversità ironica, come riconosce lo stesso filosofo: che l’esistenza delle opere d’arte renda complicato – se non impossibile – parlare di teoria dell’arte sembra anzi un controsenso. Di cosa dovrebbero occuparsi, infatti, i critici, se non delle opere d’arte? Che cos’altro rimane dell’arte se si eliminano le opere d’arte? Per Dewey, invece, il problema è esattamente l’opposto. L’”oggetto” che noi chiamiamo opera, argomenta il filosofo, è un’invenzione recente, che va di pari passo con la creazione del museo, ma prima che queste istituzioni venissero al mondo, l’arte, più che la materialità delle cose, riguardava pratiche, rituali, eventi… in poche parole, aspetti della vita. L’arte religiosa è un ottimo esempio di questo fenomeno. Prendiamo i templi, che sono spesso pieni di opere dal significato religioso. Queste opere non soddisfano una funzione puramente estetica; o meglio, il piacere estetico che offrono serve l’esperienza religiosa. La amplifica. Nel tempio, dunque, arte e religione non sono separate ma collegate. Ancor di più, se si pensa all’arte preistorica: le statue, le pitture rupestri, non sono oggetti d’arte nel senso moderno del termine. Al contrario, queste creazioni sono profondamente immerse nella vita degli individui nel tempo: lungi dall’essere pensate come bersagli dello sguardo puramente contemplativo, erano piuttosto attività, strumenti utili alla vita. La scena di caccia sulla parete rocciosa era parte attiva dell’esperienza della caccia, svolgeva una funzione propiziatoria, anticipatrice, ma anche per così dire, estetica: come in alcune teorie sui sogni – o sul teatro – inscenava in maniera fittizia ciò che presto stava per succedere, preparando gli esseri umani primitivi al futuro. Così l’esperienza estetica aveva anche – e anzi, soprattutto – un ruolo strumentale: era parte della vita quotidiana dell’individuo. Se pensiamo invece ad un’opera più recente – una qualsiasi, dal ritratto al ready-made – esposta in un museo, è facile renderci conto che non esiste nulla di più lontano dalla vita quotidiana. L’arte raramente, se non mai, fa parte dell’esperienza giornaliera delle persone. Piuttosto è isolata, individuata, posta all’interno del contesto del museo. Il ready-made è infatti proprio l’apice di questo fenomeno: un oggetto della vita di tutti i giorni, che non ha nessuna pretesa estetica, diventa ipso facto arte soltanto perché esposto in un museo.
Non dobbiamo pensare ai musei, infatti, come istituzioni neutre. In senso politico, questo è evidente. Ci sono (e ci sono state) innumerevoli discussioni sul colonialismo culturale portato avanti da alcune istituzioni museali: il Museo Egizio di Torino, ad esempio, è forse il più importante museo egittologico al mondo. Il fatto che si trovi in Italia solleva non poche questioni politiche: da dove derivano e come sono state ottenute le opere lì esposte? È giusto che sia l’Italia a trarne guadagno economico e non l’Egitto? Privando una nazione di importanti artefatti culturali non la si priva anche di una parte della sua identità storica? Più in generale, se si vede la nascita di questi spazi, si nota che i musei sono stati originariamente creati per ospitare il bottino della colonizzazione. Nel XVI secolo, le “wunderkammer” europee contenevano i tesori dell’età dell’esplorazione. Queste “stanze delle meraviglie” erano intrinsecamente occidentali e coloniali in quanto legate alla “scoperta” di “nuovi mondi” da parte dell’impero occidentale: le case e i musei che esponevano questi oggetti fungevano da spazio per i colonizzatori, generalmente ricchi, per rivendicare i manufatti come prova del loro dominio su altre culture e tale patrimonio come proprio. Ciò ha avuto forti implicazioni per l’identità nazionale e per gli sforzi di costruire una legittimità politica. Nelle parole dello storico dell’arte James Cuno, i musei funzionano così come strumenti di propaganda: sono ‹‹[U]sati per raccontare la storia del passato di una nazione e confermare la sua importanza attuale››.
-->Al di là del problema politico, però, che pure è importante, l’aspetto di mancata neutralità del museo su cui voglio concentrarmi è quello psicologico – cognitivo. Come tutte le istituzioni, i musei sono anche istituzioni cognitive. Dal momento che siamo al loro interno, il modo in cui facciamo esperienza del mondo esterno è profondamente influenzato dall’aura di cultura in cui ci troviamo. Come fa notare la filosofa Natalie Wynn, in arte Contrapoints, addirittura il desiderio stesso, nel museo, si comporta diversamente. Se infatti normalmente, nella vita quotidiana, il desiderio è materiale – siamo mossi dalla brama di ciò che vogliamo: cibo perché abbiamo fame, sesso perché è piacevole, gloria perché siamo vanesi; desiderio e godimento vanno di pari passo – nel museo il desiderio è completamente scorporato: l’art for art’s sake. Gli oggetti nei musei sono decontestualizzati dal loro ambiente quotidiano: sono esposti su piedistalli, con luci che ne esaltano le proprietà e li fanno apparire quasi-magici, e, il dettaglio principale, tali oggetti non possono essere acquistati. O meglio, all’interno del contesto che viene chiamato feticismo delle merci, il gusto (e quindi l’esperienza estetica) è in stretta relazione con il desiderio materiale. È il motivo per cui compriamo cose che ci piacciono, il motivo per cui amiamo curare la nostra estetica con abiti o prodotti di lusso, arrediamo le nostre case con mobili di design e così via. Nel museo invece, proprio perché non si può comprare nulla, abbiamo la sensazione che il piacere estetico che proviamo davanti un’opera sia puro, ovvero che si stia semplicemente godendo della bellezza di alcuni oggetti particolari senza alcun contesto (sia esso economico, politico o altro). Ma, naturalmente, è un’illusione: perché il museo è il contesto, ed è proprio il contesto che ci sta dicendo che le cose che guardiamo sono arte. In questo senso, la musealizzazione dell’arte ha avuto un ruolo normativo nel recintare l’esperienza estetica al di fuori della vita quotidiana, per rinchiuderla in ambienti specifici e protetti: delle vere e proprie enclosures estetiche.
In un certo senso, la culturalizzazione – o l’eliminazione dell’estetico – dal quotidiano è una conseguenza della quantificazione del mondo. Non a caso, se si ha familiarità con il dibattito sul disincanto del mondo, se ne riconosceranno qui alcuni aspetti fondamentali. Anzi, forse l’ambito estetico è l’ambito più immediato in cui riconoscere ciò di cui i filosofi e le filosofe che parlano di disincanto si lamentano: la vita, e per vita intendo quella quotidiana, è stata letteralmente impoverita, spogliata dell’esperienza forse più interessante che aveva, l’esperienza estetica, che è stata confinata in ambienti controllati e comunque non accessibili a chiunque. Secondo Dewey, la rottura tra arte e vita quotidiana si è verificata quando l’arte si è configurata come un campo indipendente. E in questo, le teorie estetiche accademiche sono servite ad allontanare ulteriormente l’arte, presentandola come qualcosa di etereo e scollegato dall’esperienza quotidiana. Dunque, nell’era moderna, l’arte non fa più parte della società, ma è esiliata nel museo. Questa istituzione, secondo Dewey, ha una funzione particolare: separa l’arte dalle “sue condizioni di origine e di funzionamento dell’esperienza”. L’opera d’arte nel museo è tagliata fuori dalla sua storia e trattata come un oggetto puramente estetico. Prendiamo ad esempio la Gioconda di Leonardo da Vinci. I turisti che visitano il Louvre molto probabilmente ammirano il dipinto per la sua maestria o per il suo status di “capolavoro”. È lecito supporre che pochi visitatori si interessino alla funzione che la Gioconda aveva. Ancora meno sono quelli che capiscono perché sia stata realizzata e in quali circostanze. Anche se lo capiscono, il contesto originale è perso e tutto ciò che rimane è la parete bianca del museo. In breve, per diventare un capolavoro, un oggetto deve prima diventare un’opera d’arte, un oggetto astorico puramente estetico. Una pratica del reincantamento deve dunque abolire gli oggetti d’arte, per ridare dignità all’esperienza estetica quotidiana. E questo è proprio lo scopo di Dewey, secondo il quale l’arte non si nasconde negli oggetti ma nelle esperienze: quelle esperienze estetiche che si trovano nella vita di tutti i giorni.
Riconosce le fonti dell’arte nell’esperienza umana chi vede come la grazia carica di tensione del giocatore contagia la folla che sta guardando; chi nota il piacere che ha la padrona di casa a prendersi cura delle sue piante e l’interesse con cui il suo buon marito si dedica alle cure del ritaglio di prato davanti a casa; il gusto che ha chi guarda il fuoco ad attizzare la legna che sta bruciando nel camino e a osservare le fiamme che guizzano e le braci che si sgretolano. Queste persone, se interrogate sui motivi delle loro azioni, darebbero senz’altro risposte ragionevoli. Chi attizzava il pezzetto di legno che bruciava direbbe che lo faceva per ravvivare il fuoco; ma egli è affascinato egualmente dal variopinto gioco di trasformazioni messo in scena davanti ai suoi occhi a cui prende parte con l’immaginazione. Non resta un freddo spettatore. Ciò che ha detto Coleridge del lettore di poesia è vero a suo modo di tutti coloro che sono felicemente assorbiti nelle loro attività della mente o del corpo: «il lettore dovrebbe essere sospinto innanzi non già semplicemente, o principalmente, dall’impulso meccanico della curiosità, né da un desiderio irrequieto di arrivare allo scioglimento finale, bensì dalla piacevole attività […] del viaggio stesso
Non capendo che l’arte permea qualsiasi ambito della vita quotidiana, non siamo in grado di viverla appieno. C’è solo un modo per far sì che l’arte torni a far parte della vita sociale: quello di accettare la connessione tra esperienza estetica ed esperienza ordinaria. Ancor di più, aggiunge Dewey, qualsiasi cosa può diventare oggetto di un’esperienza estetica:
Il meccanico intelligente preso dalla sua opera, interessato a far bene e a trovare soddisfazione nel suo lavoro manuale, che si prende cura con vera passione dei suoi materiali e dei suoi strumenti, è impegnato in un’attività artistica. La differenza tra un lavoratore di tal genere e un pasticcione inetto e negligente è grande nella bottega di un artigiano così come nello studio di un artista.
Per Dewey, dunque, l’opera d’arte, cioè l’oggetto, non ha nessun valore, nessun senso di esistere come categoria peculiare. L’esperienza estetica può scaturire da qualsiasi attività significativa, viene quindi meno il privilegio dell’arte “oggettuale”. L’arte è un’esperienza, e come tale si vive dal lato di chi la esperisce, non di chi la crea. L’esperienza ordinaria, dobbiamo notare, non ha struttura: è un flusso continuo. Viviamo la nostra vita normalmente e continuativamente. L’esperienza estetica, invece, è ben diversa: in questo caso un evento significativo si distingue dall’esperienza generale. Scrive Dewewy:
Può essere stato qualcosa di enorme importanza: un litigio con una persona un tempo intima, una catastrofe finalmente evitata per un soffio. Oppure può essersi trattato di qualcosa che, in confronto, è stato di poco conto – e che forse proprio per la sua leggerezza illustra ancora meglio ciò che deve essere un’esperienza estetica. Quel pasto in un ristorante di Parigi di cui si dice “è stato meraviglioso”. È un ricordo indelebile di ciò che il cibo può essere.
Un’esperienza estetica ha una struttura, con un inizio e una fine. Non ha buchi e ha una qualità che la definisce, che la unifica e le dà il nome; ad esempio, quel temporale, quella rottura dell’amicizia… La vera opera d’arte, dirà Dewey, è ciò che il prodotto fa all’esperienza.
Strani Strumenti di Alva Noë
Dewey scriveva, o meglio, teneva il ciclo di lezioni che poi sono diventate un libro, nel 1934. Ad oggi, alcune sue riflessioni possono sembrare strane. E infatti, John Dewey è molto conosciuto come pedagogo, come filosofo politico, come pragmatista, ma le sue riflessioni sull’arte e l’estetica sono raramente ricordate. Ma, come sempre, le idee piantano i loro semi nei posti meno prevedibili. Alva Noë è un filosofo della mente e scienziato cognitivo statunitense, autore di un bellissimo libro che si chiama Action in Perception in cui sostiene l’enattivismo: una metafisica della coscienza rivoluzionaria dal punto di vista sia scientifico che filosofico. Per Noë percepire, essere coscienti, è anzitutto muoversi, agire.
Che dalla stessa teoria metafisica su cosa sia la coscienza – una teoria che affronta il cosiddetto problema difficile, “come mai siamo coscienti?” – arrivino anche risposte illuminanti su cosa siano e come funzionino la moda, la musica pop, il baseball e l’arte più in generale, può sembrare assurdo; eppure è proprio quello che succede in “Strani Strumenti: l’arte e la natura umana” il nuovo libro di Alva Noë, uscito la settimana scorsa per Einaudi (traduzione di Vincenzo Santarcangelo). Forse proprio perché la moda, lo sport, la letteratura e la musica trap sono fenomeni profondamente mentali, cognitivi, lo studio della mente non può prescindergli. Contrariamente, infatti, alle scienze cognitive tradizionali, che pensano la mente sulla base di una metafora forse troppo letterale con un computer, la fisica e l’informatica, per Alva Noë che è anche un esponente della svolta 4E, teoria per cui la mente è qualcosa di essenzialmente corporeo (Embodied), immerso in un ambiente sociale preesistente (Embdedded), che ha uno stretto contatto con la vita e dunque è attiva (Enactive), ed è intimamente legata a quegli strumenti tecnici che ne permeano l’esistenza e la estendono oltre i confini spaziali del semplice corpo (Extended). Insomma, la 4E cognition, continua la rivoluzione iniziata da Varela, Thompson e Rosch nel 1991 con “The Embodied Mind” che vede la cognizione come un fenomeno profondamente legato – e forse indistinguibile – dalla vita. E vivere significa agire. “Non c’è realismo degno di questo nome se astrae da questo elemento fondamentale della realtà: la sua incompiutezza” scrive Ernst Bloch, evidenziando un aspetto spesso trascurato quando si parla di scienza, filosofia e verità: la realtà non esiste. O meglio, non esiste come entità completa e statica, che tutto include, poiché la realtà è sempre in continuo mutamento, in continuo aumento; in poche parole… è sempre incompleta. Gli esseri viventi sono in grado di agire, e questa è una facoltà sorprendente. Tramite l’azione, gli esseri viventi possono strutturare e modificare l’ambiente e il mondo che li circonda, potendo addirittura arrivare a cambiare la pressione selettiva dell’evoluzione: un paradigma noto ai biologi come costruzione di nicchia. Così, gli organismi non sono solo oggetti passivi ma anche soggetti attivi dell’evoluzione. Ancor di più, attraverso l’azione, le persone possono creare forme e oggetti apparentemente ex nihilo: l’idea nella testa del compositore diventa una suite tangibile che può essere ascoltata nei teatri; la visione sognata dall’ingegnere diventa l’aereo che ridisegna le distanze del mondo; il malcontento della classe sfruttata diventa una rivoluzione che ha effetti concreti nel tempo a venire. Studiare che cos’è una mente significa anche tener ben presente questo sfondo, una visione che paga i suoi debiti, come abbiamo visto, al pragmatismo americano di John Dewey in primis, ma anche a Heidegger. In questo modo, una delle dicotomie più nascoste, e quindi più radicate, del pensiero occidentale viene scardinata: quella tra statico e dinamico. Il mondo, il cosmo, non è un’entità statica che i soggetti possono contemplare: “mondo” ed “io” sono entrambe entità che si compenetrano, si influenzano, si costruiscono a vicenda. Così come la realtà è incompleta, anche l’io è sempre in fieri, essere una persona significa essere un processo in continua costruzione.
È sulla base di queste considerazioni che bisogna intendere le riflessioni di Alva Noë, che cerca di dare una risposta in armonia con l’enattivismo alla domanda “Che cos’è l’arte?”. Spingendo ancora contro la dicotomia tra statico e dinamico, Noë si concentra sull’arte come pratica. Non solo la pratica di fare arte, ma anche – anzi, soprattutto – quella di esperirla. Percepire il mondo significa navigarlo, non c’è percezione senza movimento; ma non c’è nemmeno arte senza percezione – che sia visuale, tattile, acustica, del gusto o dell’olfatto – l’arte dipende dai sensi e dunque una filosofia della coscienza è necessariamente una filosofia dell’arte. La frase di John Dewey contro le opere d’arte che c’era all’inizio di quest’articolo viene messa da Noë in esergo al suo libro. A ciò, il filosofo della mente aggiunge anche, a scanso di ogni equivoco:
Le cose stanno esattamente così. Gli oggetti non c’entrano, così come non c’entrano gli effetti da questi innescati dentro di noi. Come dice Dewey: l’arte è esperienza. Possiamo dire che al centro di tutto vi sia quello che noi facciamo con gli oggetti d’arte. […] Dewey aveva ragione quando affermava che il museo, in un certo senso, è antitetico all’arte, proprio perché non è possibile fare esperienza dell’arte semplicemente guardandola, prendendo nota di ciò che dice l’audioguida o l’esperto, come se i valori dell’arte fossero facili da trasmettere! Le opere d’arte non stanno in bella mostra nei musei affinché tutti possano semplicemente guardarle. Pubblico e creatori interagiscono attraverso le opportunità realizzate dagli artisti. Non ci limitiamo a percepire l’arte, la mettiamo in scena.
L’esperienza estetica non è nell’ambito dell’arte ma nell’ambito della coscienza, dell’esperienza in generale. L’arte, quindi, non è tanto un concetto astratto, ma un metodo, una praxis. Parallelamente alla teoria wittgensteiniana secondo cui la filosofia non è una dottrina ma una pratica, anche per Noë l’arte è un fare. E l’opera d’arte, l’oggetto, è dunque al massimo uno strumento, ma uno strumento strano.
Gli strumenti, cioè la tecnologia, sono intimamente legati al nostro ambiente. Prendete una maniglia: ogni volta che ci troviamo davanti una porta, se il design è buono, non ci fermiamo a riflettere su cosa sia quell’oggetto. La afferriamo e spingiamo. La maniglia è una affordance, ci dice come essere usata e a quale scopo. Ma questo solo perché in una maniglia si nascondono molte informazioni su come è fatto il nostro corpo, come funziona la nostra mente, come è organizzata la società. Una maniglia è una tecnologia profondamente immersa nell’ambiente umano, ed è per questo motivo che non ci fermiamo ad interrogarci riguardo la sua esistenza. E l’essere umano è tecnico per natura: come l’antropologia sostiene da tempo, la tecnologia ci è intima. Siamo designer per natura. La tecnologia non solo estende ciò che possiamo fare: estende anche ciò che siamo. Non siamo solo soggetti attivi della tecnologia, ma anche oggetti passivi, siamo organizzati dalla tecnologia. Il sistema legale, una “tecnologia mentale” è sì un’invenzione umana, ma ci organizza anche: ci dà un modello entro il quale si struttura la nostra azione e il nostro modo di pensare. Siamo intimamente organizzati dalla tecnologia.
L’arte è invece uno strumento rotto, si potrebbe dire, senza una funzione, “una tecnologia pervertita”. Il design, la tecnologia, si ferma e l’arte inizia quando non riusciamo a dare per scontato proprio quello sfondo delle tecnologie e delle attività che ci sono familiari. Quando parliamo, io non faccio caso ai rumori che escono dalla tua bocca; il tuo linguaggio è una trasparenza attraverso la quale ti incontro. Il design, almeno quando è ottimale, è trasparente proprio in questo modo; scompare dalla vista e viene assorbito dall’applicazione. L’arte, al contrario, per Noë, rende le cose strane, sconvolge l’apparenza e lo fa di proposito. Così facendo, svela proprio ciò che l’apparenza nasconde. Se normalmente guardiamo il mondo, è attraverso la pittura e la fotografia che lo vediamo, le immagini portano a galla i meccanismi della visione; se quando siamo felici danziamo, è attraverso la coreografia che indaghiamo cosa significa muoversi; se nella vita di tutti i giorni ci vestiamo, è tramite la moda che ci costruiamo come persone, decidendo come voler apparire. Nel dipingere un quadro non è l’oggetto finale ad avere valore – l’opera d’arte è solo un ostacolo! – è l’esperienza stessa del dipingere a porre l’accento su quelle qualità estetiche della vita. Non c’è bisogno di particolari capacità tecniche, né di altro: conta un certo atteggiamento – il voler indagare l’esperienza. Alla stessa maniera, l’outfit non è il fine della moda: l’arte del vestirsi comporta un certo atteggiamento volto ad indagare la cura e la costruzione del sé. L’arte è dunque uno strumento strano perché è tramite essa che indaghiamo e mettiamo in scena quegli aspetti della vita che normalmente sono dati per scontati. L’arte ci svela noi stessi. L’arte è un’attività di creazione, perché per natura e cultura siamo organizzati in attività di creazione. L’opera d’arte quindi non esiste per come la intendiamo normalmente, ma è anzi uno strumento strano, è un attrezzo estraneo che ci offre l’opportunità di portare alla luce tutto ciò che la vita nasconde nello sfondo.
Dunque, se Noë ha ragione, l’arte non è un fenomeno da spiegare. Né dalle neuroscienze, né dalla filosofia. Che cos’è l’arte? Perché facciamo arte? Perché ci piace l’arte? Sono tutte domande mal poste. L’arte è essa stessa una pratica di ricerca, un modo di indagare il mondo e noi stessi. L’arte ci mostra a noi stessi e in un certo senso ci fa rinascere, interrompendo le nostre attività abituali.
L’arte non consiste in un atto di creazione. L’arte non consiste in un atto performativo. L’arte non è intrattenimento. L’arte non è bellezza. L’arte non è piacere. L’arte non si esaurisce nel semplice accesso al mondo dell’arte. L’arte non è mera compravendita di oggetti. L’arte è filosofia. L’arte consiste nel mettere in mostra, al nostro cospetto, la nostra vera natura. Perché ne abbiamo bisogno. Fare arte significa scrivere noi stessi.
In un certo senso, dunque, si può dire che la filosofia – e la scienza – sono arte tanto quanto l’arte è filosofia e scienza. Sono metodi di indagine – e forse anche costruzione – del mondo, di portare a galla ciò che è nascosto.
Wittgenstein ha sostenuto che un problema filosofico ha la forma dell’espressione “non mi ci raccapezzo”. È molto simile ad ammettere che ci si è smarriti. Il suo metodo filosofico consisteva, in ultima istanza, nel creare mappe utili («rappresentazioni perspicue») per ritrovare la strada. Se è vero quanto ho sinora sostenuto, si tratta dello stesso, identico compito svolto dalla coreografia: foggiare una rappresentazione di esseri umani intenti nell’atto di ballare; rendere manifesto ciò che sarebbe altrimenti nascosto o compreso solo in parte. Il compito della coreografia – il compito dell’arte – è eminentemente filosofico. O meglio: sia la filosofia che la coreografia mirano allo stesso obiettivo – una forma di conoscenza che, per usare l’espressione di Wittgenstein, consiste nell’ottenere una rappresentazione perspicua –, ma lo fanno, per così dire, in ambiti diversi della nostra esistenza. La filosofia è coreografia di idee, di concetti e credenze, perché anche questi esistono nel contesto di attività organizzate come il pensare e il parlare. La coreografia, a sua volta, è filosofia del ballo (o del movimento). Entrambe partono dal presupposto che, pur essendo organizzati, noi non siamo gli autori della nostra organizzazione. Piuttosto che concepire la coreografia come pratica filosofica o la filosofia come pratica coreografica, faremmo meglio a valorizzare il fatto che sia la prima che la seconda sono specie di un unico genere: in mancanza di un nome migliore, lo chiamerò studio della nostra organizzazione; filosofia e coreografia sono pratiche organizzative e riorganizzative. Sono pratiche (non attività) – metodi di ricerca – che mirano a far luce sulle modalità in cui siamo organizzati e pertanto anche sui possibili modi in cui potremmo riorganizzarci.
Quindi è arte tutto ciò che ci permette di ri-organizzarci, di mostrare il modo in cui la tecnologia e la società ci strutturano e quindi come possiamo liberarci da queste costrizioni.
L’arte, effettivamente, ci coinvolge nella misura in cui le nostre pratiche, le nostre tecniche e le nostre tecnologie ci organizzano ed è, in fin dei conti, un mezzo attraverso il quale comprendiamo in che modo siamo organizzati e, di conseguenza, come possiamo riorganizzarci. […] L’arte ci offre un’occasione unica, quella di farci cogliere nell’atto di realizzare la nostra vita cosciente, di mettere il mondo al centro della propria coscienza percettiva (cosí come di altre forme di coscienza).
Torna in mente forse la famosa frase di Keats in esergo a quest’articolo. Ma in questo caso non conta tanto la destinazione, quanto il percorso. I matematici lo fanno già: si sente spesso parlare di bellezza o eleganza di alcune dimostrazioni, di teorie fisiche. Anche l’indagine filosofica sarebbe da condurre così: a nessuno verrebbe mai da chiedere se una poesia è vera, se una composizione musicale è vera. Così anche le teorie filosofiche potrebbero essere indagate semplicemente per le loro qualità estetiche. Si può far arte con tutto, anche con le equazioni matematiche.
Trovo la teoria di Dewey-Noë bella in questo senso. Non mi interessa se sia vera, e forse non dovrebbe neanche a voi. L’indagine filosofica viene percorsa perché ci dà piacere farlo. Come ricordava Edoardo Camurri in un precedente articolo:
Lo stupore e la meraviglia, sì! È tutto lì! È lo stesso motivo per cui noi ci siamo riuniti, questa domenica, per parlare delle nostre idee, delle nostre passioni… perché tutto questo ci dà felicità! Ci regala stupore! Ci sono state giornate, pomeriggi, notti, in cui ciascuno di noi con i propri amici, fidanzate, da soli in casa guardando le macchie sul soffitto… abbiamo pensato a queste cose e ci siamo stupiti e meravigliati, abbiamo provato gioia. Questo sentimento primordiale è tutto. C’è una conferenza bellissima di Aldous Huxley che si intitola “Perché le pietre preziose sono preziose?”. Huxley prova a rispondere a questa domanda zen dicendo che la questione non è economica. Le pietre preziose sono preziose perché brillano, e l’essere umano è attratto da ciò in maniera primordiale, perché l’essere umano serba, nelle profondità della sua anima, il ricordo di un mondo luminoso e brillante. Le pietre preziose sono uno mnemoneuma di un’altra realtà a cui noi avevamo accesso e da cui noi siamo caduti. Questa visione gnostica, questo gnosticismo acido, va di pari passo con il comunismo acido di Fisher. Come diceva Aristotele, la meraviglia è all’inizio della filosofia, ed è all’inizio di qualsiasi riflessione.
Questo è il reincantamento, è questo quello che significa ridare incanto al mondo, e passa anche tramite l’arte. Dunque, sullo spirito di questo incanto, vorrei sviluppare alcuni suggerimenti che Dewey e Noë ci danno per affrontare due questioni che infestano il dibattito culturale contemporaneo: l’arte delle intelligenze artificiali e le proteste che coinvolgono la distruzione o il vandalismo di opere nei musei.
L’unica vera arte postumana
La vera opera d’arte è ciò che l’oggetto fa all’esperienza
John Dewey
Se l’oggetto, l’opera d’arte, non esiste, il problema dell’arte generata dalle intelligenze artificiali di cui tanto si discute oggi, in quanto problema estetico… be’ svanisce. È un problema inesistente. Certo, rimane come problema legale, ad esempio. Ma sia le discussioni sulle text-based images come tecnica, che le discussioni come critica sono fuori fuoco. È semplicemente un ulteriore sviluppo. L’esperienza estetica si giudica dal lato del consumatore, non del creatore. E se una pietra, un tramonto, un meccanico che ripara un’automobile possono dar vita all’arte, perché non un algoritmo? Chi è l’autore del tramonto? E della pietra? La teoria di Dewey-Noë è, in questo senso, l’unica vera teoria postumana dell’arte, che vede nella vita – e con vita si intende l’esistenza, il cosmo – l’unica vera fonte di esperienza estetica. Anche questo è reincantamento. Così, quegli artisti che scelgono di tenere nascosto il prompt da loro utilizzato altro non fanno che riproporre la concezione museale dell’oggetto, per cui ciò che conta è la materialità più che gli effetti.
Allo stesso modo, se l’oggetto d’arte non esiste, la conseguenza più interessante si ha in campo politico. La provocazione di Dewey e Noë qui è molto forte, ma entrambi credono fermamente in quello che dicono, e secondo me, vale la pena di ascoltarli. Se l’opera, nel museo, è staccata dal contesto della vita e dunque è corrotta, è solo riconducendola in un contesto quotidiano – portandola nel mondo – che l’opera si può redimere. Così, in un moto sorprendente e forse molto onesto dal punto di vista intellettuale, la teoria dei due filosofi ci porta a sostenere che è soltanto nel momento in cui sono stati imbrattati che i girasoli di Van Gogh sono diventati arte. Prima erano dei segni, delle tracce di colore su una superficie. Ma per entrare nel regno dell’estetico, le opere devono essere a contatto con la vita. E cosa c’è di più vivo di una manifestazione per il clima? Entrando nel tangle dell’ecologia, della politica, della biografia, la dimensione quotidiana è stata finalmente riappropriata dall’opera, che così si configura come costruttrice di nuove esperienze. Non dobbiamo dimenticarci che l’arte non è l’oggetto, ma l’esperienza. L’oggetto è uno strumento… e come tale va usato. Allo stesso modo, è arte il gesto di imbrattare, o vandalizzare, il museo. Purtroppo – o mi sento di dire, per fortuna – non si scappa dall’arte. Non parliamo di parole consegnateci dagli dèi che vanno tenute intatte: la distruzione di un’opera di un maestro può essere tanto arte come la sua creazione; e anzi, in alcuni casi, è solo tramite la sua distruzione che un lavoro diventa arte.
Anche questo è reincantamento.
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