Le conseguenze dell’intelligenza artificiale

Le tecnologie, le scienze, le pratiche, i prodotti e i servizi digitali, in breve il digitale come fenomeno globale sta profondamente trasformando la realtà. Tutto questo è piuttosto ovvio e pacifico. Le vere domande consistono casomai nel chiedersi perchécome e con quali conseguenze, soprattutto in relazione all’IA.


IN COPERTINA: Still from Sunshowers, a real-time animation by Marija Avramovic and Sam Twidale

Questo testo è tratto da Etica dell’intelligenza artificiale di Luciano Floridi. Ringraziamo Raffaello Cortina Editore per la gentile concessione.


di Luciano Floridi

Nel 1964, la Paramount Pictures distribuì Robinson Crusoe su Marte. Il film descriveva le avventure del comandante Christopher “Kit” Draper (Paul Mantee), un astronauta statunitense naufragato su Marte. Se lo guardiamo su YouTube anche solo per pochi minuti, ci rendiamo conto di quanto radicalmente sia cambiato il mondo in pochi decenni. In particolare, il computer che compare all’inizio del film sembra un motore di epoca vittoriana, con leve, ingranaggi e quadranti. Un pezzo di archeologia che avrebbe potuto usare il dottor Frankenstein. Eppure, verso la fine della storia, Friday (Victor Lundin) viene rintracciato da un’astronave aliena attraverso i suoi braccialetti. Un pezzo di futurologia che sembra inquietantemente preveggente.

Robinson Crusoe su Marte apparteneva a un’epoca diversa, tecnologicamente e culturalmente più vicina al secolo scorso che al nostro. Descrive una realtà moderna, non contemporanea, basata sull’hardware e non sul software. Computer portatili, Internet, servizi web, touch screen, smartphone, orologi intelligenti, social media, shopping online, video e musica in streaming, automobili a guida autonoma, tosaerba robotizzati o assistenti virtuali non esistono ancora. L’intelligenza artificiale è più un progetto che una realtà. Il film mostra una tecnologia fatta di dadi, bulloni e meccanismi che seguono le goffe leggi della fisica newtoniana. È una realtà del tutto analogica, basata sugli atomi piuttosto che sui byte, di cui i Millennials non hanno esperienza, essendo nati dopo i primi anni Ottanta. Per loro un mondo senza tecnologie digitali assomiglia a ciò che era per me (nato nel 1964) un mondo senza automobili: qualcosa di cui ho sentito parlare solo da mia nonna. 

Si fa spesso osservare che uno smartphone racchiude molta più potenza di calcolo in pochissimo spazio di quanto la NASA potesse mettere insieme quando Armstrong atterrò sulla Luna cinque anni dopo Robinson Crusoe su Marte, nel 1969, e tutto questo a un costo pressoché trascurabile. Molti articoli hanno tracciato alcuni raffronti precisi nel 2019, per il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, facendo emergere alcuni fatti sorprendenti. L’Apollo Guidance Computer (AGC) a bordo dell’Apollo 11 aveva 32.768 bit di RAM (random access memory) e 589.824 bit (72 KB) di ROM (read only memory): uno spazio di memoria su cui non saremmo stati in grado di salvare questo libro. Cinquant’anni dopo, un cellulare possiede, in media, 4 GB di RAM e 512 GB di ROM: vale a dire, un milione di volte in più di RAM e sette milioni di volte in più di ROM. Per quanto riguarda il processore, l’AGC funzionava a 0,043 MHZ. Un processore per iPhone funziona, in media, a circa 2490 MHZ: vuol dire che è circa 58.000 volte più veloce. Per afferrare meglio il senso di questa accelerazione, forse un paragone può esserci di aiuto. In media, una persona cammina alla velocità di 5 km/h. Oggi, alcuni jet supersonici possono viaggiare alla velocità di 6100 km/h, vale a dire a una velocità più di cinque volte superiore a quella del suono (1235 km/h). Eppure è soltanto poco più di mille volte più veloce che camminare. Immaginiamo di moltiplicarlo per 58.000.

Dove sono andate a finire tutta questa velocità e questa potenza di calcolo? La risposta è duplice: fattibilità e usabilità. Possiamo fare sempre di più, in termini di applicazioni, e possiamo farlo in modi sempre più semplici, non solo per ciò che concerne la programmazione, ma soprattutto per ciò che riguarda l’esperienza dell’utente. I video, per esempio, sono avidi di potenza di calcolo, così come i sistemi operativi. L’IA oggi è possibile anche perché abbiamo la potenza di calcolo necessaria per far funzionare il suo software.

Grazie a questa crescita sbalorditiva delle capacità di archiviazione ed elaborazione, a costi sempre più contenuti, oggi miliardi di persone sono connessi e trascorrono molte ore online ogni giorno. Nel Regno Unito, per esempio, “nel 2018, il tempo medio trascorso utilizzando Internet è stato di 25,3 ore a settimana. Si è trattato di un incremento di 15,4 ore rispetto al 2005”. Ciò è tutt’altro che insolito. E la pandemia ha generato un incremento ulteriore […] Un altro dei motivi per cui l’IA è possibile oggi è proprio il fatto che noi esseri umani trascorriamo sempre più tempo in contesti digitali e, pertanto, adattati all’IA.

Più memoria, più velocità e più ambienti e interazioni digitali hanno generato più dati, in quantità immense. Tutti abbiamo osservato diagrammi con curve esponenziali, che indicavano quantità che non sappiamo neppure come rappresentare. Secondo la società di analisi di mercato IDC, nel 2018 abbiamo raggiunto 18 zettabyte di dati creati, catturati o riprodotti, e questa sorprendente crescita di dati non mostra segni di rallentamento: a quanto pare, diventeranno 175 zettabyte nel 2025. Si tratta di un aspetto difficile da cogliere in termini di quantità, ma due conseguenze meritano un momento di riflessione. La velocità e la memoria delle nostre tecnologie digitali non crescono alla stessa velocità dell’universo dei dati. Ne consegue che stiamo rapidamente passando da una cultura della registrazione a una della cancellazione: la questione non è più che cosa salvare ma che cosa eliminare per fare spazio ai nuovi dati. La maggior parte dei dati disponibili è stata creata a partire dagli anni Novanta, anche se contiamo ogni parola pronunciata, scritta o stampata nella storia dell’umanità e ogni biblioteca o archivio mai esistiti. Per rendersene conto, basta osservare uno dei tanti diagrammi disponibili online che illustrano l’esplosione dei dati: l’aspetto sorprendente non sta solo sulla parte destra, dove la freccia della crescita sale, ma anche sulla parte sinistra, dove la crescita ha avuto inizio: si tratta solo di una manciata di anni fa. Poiché tutti questi dati sono stati creati dalla generazione attuale, stanno anche invecchiando insieme, in termini di supporti e tecnologie obsolete. Per questo motivo la loro conservazione costituirà una questione sempre più urgente. 

Una maggiore potenza di calcolo e una maggiore quantità di dati hanno reso possibile il passaggio dalla logica alla statistica. Le reti neurali che erano interessanti solo da un punto di vista teorico sono diventate strumenti ordinari nell’ambito dell’apprendimento automatico. La vecchia IA era per lo più simbolica e poteva essere interpretata come una branca della logica matematica, ma la nuova IA è principalmente connessionista e potrebbe essere interpretata come una branca della statistica. Il principale cavallo di battaglia dell’IA non è più la deduzione logica ma l’inferenza e la correlazione statistica. 

La potenza e la velocità di calcolo, le dimensioni della memoria, la quantità di dati, i potenti algoritmi, gli strumenti statistici e le interazioni online sono tutti fattori che stanno crescendo in modo incredibilmente rapido. Ciò accade anche perché (e la relazione causale procede in entrambe le direzioni) il numero di dispositivi digitali che interagiscono tra loro è già notevolmente superiore alla popolazione umana. Perciò, la maggior parte delle comunicazioni avviene da macchina a macchina, senza coinvolgimento umano. Ci sono robot computerizzati su Marte controllati a distanza dalla Terra. Il comandante Christopher Kit” Draper li avrebbe trovati assolutamente fantastici. 

Tutte le tendenze precedenti continueranno a crescere, inarrestabilmente, nel prossimo futuro. Queste tendenze hanno modificato il modo in cui impariamo, giochiamo, lavoriamo, amiamo, odiamo, scegliamo, decidiamo, produciamo, vendiamo, compriamo, consumiamo, pubblicizziamo, ci divertiamo, ci preoccupiamo di qualcosa e ce ne prendiamo cura, socializziamo, comunichiamo e così via. Sembra impossibile trovare un qualsiasi aspetto della nostra vita che non sia stato influenzato dalla rivoluzione digitale. Nell’ultimo mezzo secolo circa, la nostra realtà è diventata sempre più digitale, fatta di zero e uno, gestita da software e dati, piuttosto che da hardware e atomi. Un numero crescente di persone vive sempre più diffusamente onlife, sia online sia offline, e nell’infosfera, sia digitalmente sia analogicamente. Questa rivoluzione digitale ha anche influito sul modo in cui concepiamo e comprendiamo le nostre realtà, che sono sempre più interpretate in termini computazionali e digitali. Basti pensare alla “vecchia” analogia tra il nostro DNA e il nostro “codice”, che ora diamo per scontata. Tutto ciò ha anche alimentato lo sviluppo dell’IA, dal momento che condividiamo le nostre esperienze onlife e gli ambiti dell’infosfera con agenti artificiali, siano essi algoritmi, bot o robot. Per capire in che cosa effettivamente consista l’IA – la mia tesi è che si tratti di una nuova forma di agire, e non di intelligenza – occorre dunque dire qualcosa di più sull’impatto della rivoluzione digitale: è quanto mi propongo di fare nella parte restante di questo capitolo. È solo comprendendo la traiettoria concettuale delle sue implicazioni che possiamo avere una corretta prospettiva sulla natura dell’IA, i suoi probabili sviluppi e le sue sfide etiche.

IL POTERE DI SCISSIONE DEL DIGITALE: TAGLIARE E INCOLLARE LA MODERNITÀ

Le tecnologie, le scienze, le pratiche, i prodotti e i servizi digitali, in breve il digitale come fenomeno globale sta profondamente trasformando la realtà. Tutto questo è piuttosto ovvio e pacifico. Le vere domande consistono casomai nel chiedersi perché, come e con quali conseguenze, soprattutto in relazione all’IA. In ciascuno di questi casi, la risposta è tutt’altro che banale e sicuramente aperta al dibattito. Per chiarire quali siano le risposte che ritengo più convincenti e introdurre nel prossimo capitolo un’interpretazione dell’IA come una riserva crescente di capacità di agire intelligente, conviene entrare in medias res e partire dal “come”. Diventerà allora più facile fare un passo indietro, per comprendere il “perché”, e poi procedere in avanti, per affrontare le “conseguenze” e collegare le risposte all’emergere dell’IA.

Il digitale “taglia e incolla” le nostre realtà sia ontologicamente sia epistemologicamente. Con questo intendo dire che incolla, scolla o rincolla certi aspetti del mondo – e quindi le nostre corrispondenti ipotesi su di essi – che pensavamo fossero immutabili. Separa e riunisce, per così dire, gli “atomi” delle nostre esperienza e cultura “moderne”. Modifica il letto del fiume, per usare la metafora di Wittgenstein. Alcuni esempi lampanti possono chiarire l’idea in modo più diretto.

Consideriamo, anzitutto, uno dei casi più significativi di incollamento. La nostra identità e i nostri dati personali non sono mai stati incollati insieme così indistinguibilmente come accade oggi, allorché si parla di identità personale dei soggetti interessati. I conteggi dei censimenti sono molto datati. L’invenzione della fotografia ha avuto un forte impatto sulla privacy. I governi europei hanno reso obbligatorio viaggiare con il passaporto durante la Prima guerra mondiale, per motivi di migrazione e sicurezza, estendendo così il controllo dello Stato sui mezzi di mobilità. Ma è soltanto il digitale, con il suo enorme potere di registrare, monitorare, condividere e processare quantità illimitate di dati su Alice, che ha saldato insieme chi è Alice, la sua identità e il suo profilo individuali, con le informazioni personali su di lei. La privacy è diventata una questione urgente anche, se non principalmente, a causa di tale incollamento, e oggi, almeno nella normativa dell’Unione Europea, la protezione dei dati personali è discussa in termini di dignità umana e identità personale, con i cittadini descritti come soggetti interessati.

L’esempio successivo riguarda la posizione e la presenza, e il loro scollamento. In un mondo digitale, è ovvio che uno può trovarsi fisicamente in un posto, diciamo un bar, ed essere presente interattivamente in un altro, diciamo una pagina su Facebook. Eppure tutte le generazioni passate che vivevano in un mondo esclusivamente analogico hanno concepito e sperimentato posizione e presenza come due lati inseparabili della stessa situazione umana: l’essere situati nello spazio e nel tempo, qui e ora. L’azione a distanza e la telepresenza appartenevano a mondi magici o alla fantascienza. Oggi, questo scollamento è un semplice tratto dell’esperienza comune in qualsiasi società dell’informazione. Siamo la prima generazione per la quale “Dove sei?” non è soltanto una domanda retorica. Ovviamente, tale scollamento non ha interrotto tutti i collegamenti. La geolocalizzazione funziona solo se è possibile monitorare la telepresenza di Alice. E la telepresenza di Alice è possibile solo se si trova all’interno di un ambiente fisicamente connesso. Ma questi due aspetti sono ora totalmente distinti e in effetti il loro scollamento ha almeno in parte declassato la posizione a favore della presenza. Perché se tutto ciò di cui Alice ha bisogno e si preoccupa è di essere presente digitalmente e interattiva in un particolare angolo dell’infosfera, non importa in quale parte del mondo si trovi analogicamente, se a casa, in treno o nel suo ufficio. Questo è il motivo per cui banche, librerie, biblioteche e negozi di vendita al dettaglio sono tutti luoghi disegnati per la localizzazione oggi alla ricerca di un riutilizzo in termini di presenza. Quando un negozio apre una caffetteria, sta cercando di ricongiungere la presenza e la localizzazione dei clienti che è stata separata dall’esperienza digitale.

Consideriamo, inoltre, lo scollamento tra legge e territorialità. Per secoli, all’incirca dalla pace di Westfalia (1648), la geografia politica ha fornito alla giurisprudenza una pronta risposta alla questione relativa all’ambito di applicazione di una sentenza: la decisione del giudice si applica nel perimetro dei confini nazionali entro cui opera l’autorità della legge. Tale connessione potrebbe essere riassunta nei seguenti termini: “Il mio posto le mie regole, il tuo posto le tue regole”. Ora può sembrare scontato, ma ci sono voluti molto tempo ed enorme fatica per raggiungere un approccio così semplice, che funziona ancora oggi molto bene, purché si operi solo all’interno di uno spazio fisico, analogico. Tuttavia, Internet non è uno spazio fisico, e il problema della territorialità si profila a partire dallo scollamento ontologico tra lo spazio normativo del diritto, lo spazio fisico della geografia e lo spazio logico del digitale. Si tratta di una nuova “geometria” variabile che stiamo ancora imparando a gestire. Per esempio, lo scollamento tra legge e territorialità è diventato tanto palese quanto problematico durante il dibattito sul cosiddetto diritto all’oblio. I motori di ricerca operano all’interno di uno spazio logico online fatto di nodi, collegamenti, protocolli, risorse, servizi, URL, interfacce ecc. Ciò significa che qualsiasi cosa è a portata di clic. Perciò è difficile dare piena attuazione al diritto all’oblio, richiedendo a Google di rimuovere i collegamenti alle informazioni personali di qualcuno dalla sua versione .com negli Stati Uniti in forza di una decisione presa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, dal momento che tale decisione può risultare inutile se i collegamenti non sono rimossi da tutte le versioni del motore di ricerca. Si noti però che un tale disallineamento degli spazi non genera solo problemi, ma fornisce anche soluzioni. La non territorialità del digitale fa miracoli per la libera circolazione delle informazioni. In Cina, per esempio, il governo deve compiere uno sforzo costante e sostenuto per controllare le informazioni online. Parimenti, il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali deve essere ammirato per la sua capacità di sfruttare la “saldatura” tra identità personale e informazioni personali per aggirare lo “scollamento” tra legge e territorialità, fondando la protezione dei dati personali sul legame tra persona e dato (che è ora fondamentale) piuttosto che sulla geografia (il luogo dove tali dati personali sono trattati non è più rilevante).

Infine, possiamo considerare un incollamento che risulta essere più precisamente un ri-incollamento. Nel suo libro The Third Wave (La terza ondata) Alvin Toffler ha coniato il termine prosumer in riferimento all’affievolirsi della differenza e alla progressiva fusione tra il ruolo di produttore e quello di consumatore. Egli ha attribuito questa tendenza a un mercato altamente saturo e alla produzione di massa di prodotti standardizzati, che ha stimolato un processo di personalizzazione di massa e quindi un crescente coinvolgimento dei consumatori come produttori dei propri prodotti personalizzati. Questa idea era stata anticipata da Marshall McLuhan e Barrington Nevitt (1972), che hanno attribuito il fenomeno alle tecnologie basate sull’elettricità. In seguito, si è fatto riferimento con ciò al consumo di informazioni prodotte dalla stessa popolazione di produttori, per esempio su YouTube. Ignaro di questi precedenti, quasi vent’anni dopo Toffler, io ho introdotto la parola produmer per cogliere lo stesso fenomeno. Tuttavia, in tutti questi casi, la posta in gioco non è tanto un nuovo incollamento, quanto piuttosto, per essere precisi, un ri-incollamento. Per la maggior parte della nostra storia (circa il 90%) abbiamo vissuto in società di cacciatori-raccoglitori, che cercano cibo per sopravvivere. Durante questo lungo periodo, produttori e consumatori normalmente hanno coinciso. I prosumer che cacciavano animali selvatici e raccoglievano piante selvatiche erano, in altri termini, la normalità, non l’eccezione. È solo dopo lo sviluppo delle società agrarie, circa 10.000 anni fa, che abbiamo assistito a una separazione completa, e nel tempo culturalmente palese, tra produttori e consumatori. In alcuni angoli dell’infosfera, quella disgiunzione è ricongiunta. Su Instagram o TikTok, per esempio, consumiamo ciò che produciamo. Si può quindi rimarcare che, in alcuni casi, questa parentesi stia volgendo al termine e che i prosumer siano tornati, ricongiunti dal digitale. Di conseguenza, è perfettamente coerente che il comportamento umano in rete sia stato comparato e studiato in termini di modelli di foraggiamento sin dagli anni Novanta.

Il lettore può facilmente elencare ulteriori casi di incollamento, scollamento e ri-incollamento. Si pensi, per esempio, alla differenza tra realtà virtuale (scollamento) e realtà aumentata (incollamento); la consueta disgiunzione tra uso e proprietà nella share economy; la ricongiunzione di autenticità e memoria grazie alla blockchain; o l’attuale dibattito su un reddito di base universale, un caso di scollamento tra stipendio e lavoro. Ma è giunto il momento di procedere dalla domanda relativa al “come” a quella relativa al “perché”. Perché il digitale ha questo potere di scissione, vale a dire di incollare, scollare o ri-incollare il mondo? Perché altre innovazioni tecnologiche sembrano non avere un impatto simile? La risposta, suppongo, sta nella combinazione di due fattori.

Da un lato, il digitale è una tecnologia di terzo ordine. Non è solo una tecnologia che sta tra noi e la natura, come un’ascia (primo ordine); o una tecnologia che sta tra noi e un’altra tecnologia, come un motore (secondo ordine). È piuttosto una tecnologia che sta tra una tecnologia e un’altra tecnologia, come un sistema computerizzato che controlla un robot che dipinge un’automobile (terzo ordine). A causa dell’autonoma potenza di calcolo del digitale, potremmo anche non avere controllo sul (per non parlare di essere parte del) processo.

Dall’altro, il digitale non è semplicemente qualcosa che potenzia o aumenta una realtà, ma qualcosa che la trasforma radicalmente, perché crea nuovi ambienti che abitiamo e nuove forme di agire con cui interagiamo. Non c’è un termine specifico per descrivere questa profonda trasformazione, perciò in passato ho utilizzato l’espressione re-ontologizzazione per fare riferimento a una radicale forma di re-ingegnerizzazione, che non consiste soltanto nel disegnare, costruire o strutturare un sistema (come una società, una macchina o un qualche artefatto) in modo nuovo, ma nel trasformare fondamentalmente la sua natura intrinseca, vale a dire la sua ontologia. In questo senso, per esempio, le nanotecnologie e le biotecnologie stanno non semplicemente re-ingegnerizzando, ma re-ontologizzando il nostro mondo. Attraverso la re-ontologizzazione della modernità, per dirlo in breve, il digitale sta anche ridefinendo dal punto di vista epistemologico la mentalità moderna, cioè molte delle nostre concezioni e idee consolidate. Considerati unitariamente, tutti questi fattori suggeriscono che il digitale deve il suo potere di scissione al suo essere una tecnologia di terzo ordine re-ontologizzante e ri-epistemologizzante. Questo è il motivo per cui fa ciò che fa e per cui nessun’altra tecnologia neppure si avvicina ad avere un effetto similare.

NUOVE FORME DELL’AGIRE

Se quanto detto fin qui è a grandi linee corretto, allora ci può aiutare a dare un senso ad alcuni fenomeni attuali riguardanti la trasformazione della morfologia dell’agire nell’era digitale e, in tal modo, a rendere conto di alcune forme dell’agire che sono solo apparentemente non correlate. La loro trasformazione dipende dal potere di scissione del digitale, ma la loro interpretazione potrebbe essere dovuta a un implicito fraintendimento di tale potere e delle sue conseguenze ulteriori, profonde e durature. Mi riferisco all’agire politico in quanto democrazia diretta e all’agire artificiale in quanto IA. In sostanza, la re-ontologizzazione dell’agire non è stata ancora accompagnata da un’adeguata ri-epistemologizzazione della sua interpretazione. O per dirlo in modo meno preciso ma forse più intuitivo: il digitale ha cambiato la natura dell’agire, ma stiamo ancora interpretando l’esito di tali cambiamenti attraverso una mentalità moderna, e ciò genera qualche profondo malinteso. Dirò soltanto qualche parola sull’agire politico e la democrazia diretta perché, come anticipato, in questo libro mi concentrerò esclusivamente sull’agire artificiale, senza mettere a tema l’agire sociopolitico che è modellato e sostenuto dalle tecnologie digitali.

Negli attuali dibattiti sulla democrazia diretta, talora siamo indotti erroneamente a credere che il digitale dovrebbe (si noti l’approccio normativo opposto a quello descrittivo) ricongiungere sovranità (il potere politico che può essere legittimamente delegato) e governance (il potere politico che è legittimamente delegato, temporaneamente, condizionatamente e responsabilmente, e che può essere in modo altrettanto legittimo ripreso). La democrazia rappresentativa è comunemente (benché erroneamente) concepita come un compromesso dovuto a vincoli pratici di comunicazione. La vera democrazia sarebbe quella diretta, in quanto basata sulla partecipazione immediata, costante e universale di tutti i cittadini alle questioni politiche. Purtroppo, così si è soliti argomentare, siamo troppo numerosi, e quindi la delega del potere politico è il male minore ma necessario. È il mito della città-Stato, in particolare di Atene. Il compromesso a favore di una democrazia rappresentativa è sembrato inevitabile per secoli, fino all’avvento del digitale. Secondo taluni, il digitale promette ora di congiungere (o di ricongiungere, se si crede in qualche mitico tempo antico) sovranità e governance per offrire un nuovo tipo di democratica agorà digitale, che potrebbe infine rendere possibile il costante coinvolgimento diretto di ogni cittadino interessato. È la stessa promessa formulata dallo strumento referendario (soprattutto se vincolante, invece che consultivo). In entrambi i casi, agli elettori viene chiesto direttamente cosa si dovrebbe fare. Il solo compito lasciato alla classe politica, amministrativa e tecnica sarebbe di attuare la decisione popolare. I politici sarebbero funzionari delegati (e non rappresentanti) in un senso molto letterale. Eppure questo è un errore, perché la democrazia indiretta è sempre stata il vero progetto da realizzare. La disgiunzione è una caratteristica e non un difetto, per dirlo in modo esplicito. E ciò perché un regime democratico è prima di tutto caratterizzato non da talune procedure o da alcuni valori (elementi da cui pure è caratterizzato), ma da una chiara e netta separazione – cioè disgiunzione – tra coloro a cui appartiene il potere politico (sovranità) che delegano legittimamente con il voto (di tutti i cittadini che vi hanno diritto) e coloro a cui è affidato questo potere politico (governance) che esercitano in forza di tale mandato, governando in modo trasparente e responsabile, fintanto che vi sono legittimamente autorizzati. Per dirlo in termini più chiari, un regime democratico non è semplicemente un modo di esercitare e gestire il potere in base a determinate procedure e/o conformemente a determinati valori, ma prima di tutto un modo di strutturarlo: chi detiene il potere non lo esercita ma lo affida a chi lo esercita ma non lo detiene. La commistione tra queste due parti conduce a instabili forme di dittatura o di dominio delle masse. In tal senso la democrazia rappresentativa non è un compromesso ma in realtà la migliore forma di democrazia. Usare il digitale per congiungere (o, più miticamente, ricongiungere) sovranità e governance sarebbe un errore che si paga a caro prezzo. Brexit, Trump, Lega Nord e altri disastri populisti generati dalla “tirannia della maggioranza” ne sono una prova sufficiente. Dobbiamo considerare quale sia il modo migliore per trarre vantaggio dal programmato disallineamento rappresentativo tra sovranità e governance, e non come cancellarlo. Il consenso è il problema, ma non è il tema di questo libro. Ciò che volevo suggerire con l’analisi precedente era solo un saggio del tipo di considerazioni sulle forme dell’agire che mettono in relazione l’impatto del digitale sulla politica con il modo in cui esaminiamo e valutiamo l’IA.


Luciano Floridi, una delle voci più autorevoli della filosofia contemporanea, è professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, e chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, l’istituto britannico per la data science. Nelle nostre edizioni ha pubblicato La quarta rivoluzione (2017, vincitore del Walter J. Ong Award for Career Achievement in Scholarship) e Pensare l’infosfera (2020).

1 comment on “Le conseguenze dell’intelligenza artificiale

  1. La “tirannia della maggioranza”… Giusto, ma quindi perché non ripristiniamo un nuovo “censo”, giusto per non essere tiranneggiati dai più?

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