Agosto su Indiscreto è sinonimo di racconti: abbiamo deciso di affidare ogni anno a una persona diversa la curatela del nostro breve mese letterario. Quest’anno a curare la selezione per noi è lo scrittore Vanni Santoni. Il racconto che segue è di Giovanna Daddi, che ringraziamo.
IN COPERTINA, Dream City, di Paul Klee (Dettaglio), 1921
di Giovanna Daddi
(l’agosto letterario 2023 è curato da Vanni Santoni)
Il mio abito da sposa lo ha cucito una nana da circo. Si chiamava Rita, un giorno aveva lasciato i tendoni e si era messa a fare la sarta, come sua madre. Al casamento cuciva per chiunque, per pochi soldi, che lì non ce n’erano. La stoffa era costata più di tutto il suo lavoro.
“Voile color avorio, ti va bene? Per me è voile, non può essere altro con questo caldo”.
Era l’estate della Grande Invasione delle Piattole: piattole ovunque, mai viste così tante. Il ticchettio metallico delle loro corazze sudice scandiva la vita delle case minime: i litigi, le risse, l’amore con le finestre spalancate, il lavoro (poco), il pallone ai giardinetti, le pere ai giardinetti, le chiacchiere. Ogni azione aveva questo sottofondo di maracas. Nessuno sapeva da dove fossero venute, ma quell’estate era così, quarantadue gradi all’ombra e l’umidità densa della periferia vicino al torrente color marron glacé. Il casamento era diventato la Cambogia.
La canottiera e le mutande erano la divisa quotidiana di chiunque non dovesse andare a lavoro, le donne stavano con le magliette sformate lunghe a coprire appena il culo. Tutti rigorosamente in ciabatte.
Rita invece non è mai stata vista da nessuno con un vestito diverso da quello che aveva anche il giorno della prima prova: pantaloni gessati, mocassini di pelle nera, camicia nera e gilet color antracite. I capelli corti ingelatinati e il sigaro in bocca, spento o acceso. Il sigaro si vedeva ancora prima di lei, che non arrivava al piano della cucina.
“Va bene il voile, ma non troppo trasparente” dicevo io.
-->“E va bene anche trasparente, anzi meglio” diceva mia madre, che la merce va presentata bene.
Stavo in piedi in quell’unica stanza che era la casa di Rita, piano terra, blocco due, interno uno.
Rita prendeva le misure tenendo in bocca anche gli spilli, oltre al sigaro. Si muoveva rapida, a me sembrava di avere un cane che mi girava intorno. Non sudava, inspiegabilmente, a parte una piccola striscia di perline che si era formata sopra il labbro superiore, attaccata alla peluria di pesca.
Mia madre invece aveva le vampe. Fumava e si sventolava con un ventaglio spennacchiato che aveva da sempre, verde, i disegnini cinesi, preso all’emporio che poi ha chiuso. La guardavo di sottecchi, sperando di vedere un rimorso, un velo di tristezza, un dubbio. Invece vedevo solo la sua faccia deformata dall’età, i capelli biondo platino che sembravano la stoppa delle damigiane, con l’attaccatura grigio topo, lo smalto consumato sulle unghie, i polpacci grossi, tirati come gavettoni, con le vene che sembravano esplodere. Dagli occhi e dal naso, nient’altro, si poteva immaginare quanto era stata bella prima.
Santo, Santino, Boss, Capo, qualunque nome o soprannome gli dessero, era il tizio che gestiva tutto il malaffare lì alle case minime: dalle puttane allo spaccio, dalla ricettazione al pizzo, dalle spedizioni punitive all’arruolamento di clandestini, dalle scommesse ai combattimenti di cani, dal riciclaggio alla truffa, dalle rapine agli omicidi. Santino era di giù, anche se viveva lì da talmente tanto che l’accento calabrese non si sentiva quasi più. Era un uomo di cinquant’anni. Io ne avevo diciannove. Era basso, pelato, magro ma con la pancia, pelle scura sfregiata in più punti. Io alta un metro e settanta, bionda, occhi verdi, pelle chiara, misure da selezione di Miss Italia.
Io ero innamorata di Rodrigo, il ragazzo con cui stavo, che era orfano, bianco come un cencio e lavorava per Santo occasionalmente.
Il giorno in cui mio padre prese in consegna una Peugeot 508 di Santo per truccargliela, come richiesto, e ci trovò dentro, nascosti bene nel vano di plastica lato passeggero, due chili di cocaina, invece di rimetterli dove li aveva trovati, smanettare sulla marmitta, richiudere tutto e restituire le chiavi con un gran sorriso ingenuo, pensò di essere furbo. Si intascò i due chili di coca e andò a piazzarli lontano, fuori città.
Nei due mesi seguenti comprò abiti nuovi a me e mamma; pranzavamo e cenavamo tutti i giorni; fece riparare le tubature, la TV, rimbiancare la casa e rattoppare la porta; andò dal barbiere, portò mamma dal parrucchiere e dall’estetista; giocò tutto il resto, perdendolo.
Dopo tre mesi eravamo di nuovo poveri come prima, ma con la TV che funzionava.
In quei tre mesi Santo aveva osservato bene, da lontano, aveva ricontrollato più volte il vano di plastica lato passeggero, sapendo di averci messo due chili di coca lui stesso, e alla fine qualcosa non gli era tornato.
Trovammo mio padre in un lago di sangue, sul solito letto di piattole, vicino all’argine del torrente in secca, dopo averlo cercato per più di un giorno. Era vivo, non lo aveva voluto ammazzare. Aveva voluto fargli capire cosa succede se.
Per non ammazzarci tutti, l’accordo era che si sarebbe preso me.
Fece uccidere Rodrigo da un certo Rashad, un tunisino che faceva da esattore e guardia del corpo a Santo.
E questo è il motivo per cui mi trovavo, vedova di fatto, insieme a una nana e a una donna triste in menopausa in una stanza piccola e scrostata nell’estate più calda di sempre.
E mentre a mia madre il sangue scarseggiava, io ne avevo in abbondanza, e tutto insieme decise di venir fuori dal mio naso con un fiotto vigoroso che si disperse sul vestito da sposa. Rita indietreggiò d’istinto, poi corse a prendere una bacinella di acqua fredda e si mise a lavare via il sangue dal voile:
“Con il caldo capita, non ti preoccupare che va via, torna nuovo”.
Spero di no, pensavo, spero che resti una scia indimenticabile, come quella del maiale sgozzato mandato al macello.
La mamma restò impietrita: nella sua testa ottusa quello era un segno brutto e come tutti i creduloni pensava di dover intervenire.
La mia epistassi era un presagio maligno. Non ricordava che mi era sempre successo con il caldo, fin da piccola, e che una volta addirittura ero svenuta.
Ma lì da noi a certe cose davano importanza e la malasorte era il nemico da combattere a ogni costo, anche rivolgendosi a quelli che, per tutto il resto del tempo, ci limitavamo a odiare: gli zingari delle roulotte vicine.
“Bisogna andare dalla zingara, muoviti” mi disse, prendendomi per un braccio e trascinandomi fuori da casa di Rita che la guardava con commiserazione.
Camminammo velocemente; io guardavo l’asfalto e sentivo l’odore del diesel.
Davanti a una roulotte più grande delle altre mia madre si fermò, si tirò indietro i capelli e si asciugò il sudore con il lembo della maglia.
“Ma che fai, ti sistemi per gli zingari?” le chiesi, visto che passava la vita a infamarli e a volerli cacciare.
“Zitta cretina, non ti avesse a sentire!”
Anche paura aveva. Io alzai la testa e mi stampai in faccia l’espressione più sprezzante possibile.
Bussò alla porta, prima piano, poi un po’ più forte, e restò in attesa a mani giunte, manco fosse davanti alla Madonna.
Ci lasciarono ferme lì sotto il sole ad aspettare per un bel po’, io guardavo i finestrini della roulotte e percepivo che ci stavano osservando. Soppesavano, forse ridevano di noi.
Poi qualcuno aprì.
La prima cosa fu il fresco, vagamente umido, poi il profumo un po’ marcio, come quello dello smalto per le unghie: sembrava che avessero messo delle gardenie in infusione nella benzina.
Un bambino bianco slavato, con un cappello di lana in testa, ci apriva la strada e mi sembrò inspiegabile tutto quello spazio: non si poteva immaginare, da fuori, che la roulotte fosse così grande. Drappi colorati coprivano i finestrini, in terra erano stesi tappeti e cuscini, c’era un lavello, c’era una credenza da salone coperta di centrini con al centro una statuetta luminosa di un angioletto. Varie lampade erano sparse qua e là. C’erano delle piccole porte sul lato destro del corridoio, altre stanze.
In fondo al percorso un vano salotto, con i sofà coperti di stoffe pacchiane e di cuscini lucidi di specchietti, e in mezzo ai cuscini, seduta a gambe incrociate, una Madonna Nera con gli occhi verdi e le unghie più lunghe che avessi mai visto.
Era Maria, la veggente, come la chiamavano, e sembrava la Regina degli Zingari.
Mia madre balbettò qualcosa, con in mezzo un Santità a caso. Maria la zittì: “Tu vai, lascia la ragazza”.
Restai sola davanti a lei, non riuscivo a non fissarla. Non era nera e non era bianca, aveva occhi e mani da indiana, denti bianchissimi (dov’erano i denti marci alternati a denti d’oro di cui parlavano tutti?), unghie laccate, un arabesco di henné che decorava la metà destra del suo volto, dalla tempia allo zigomo, i capelli lunghi, lisci, color rame scuro.
“Da dove vieni?” mi uscì dalla bocca.
“Da tanti posti”.
“Mia madre mi ha trascinata qui perché devo sposarmi e il vestito si è macchiato di sangue, mi è uscito dal naso. L’uomo che devo sposare è pericoloso e cattivo ma sono costretta e…”
“So già”, e iniziò a mescolare carte, a disporle sul tavolino e a far dondolare un incensiere: l’odore che avevo sentito appena entrata diventò fortissimo, mi girò la testa e svenni. Quando mi riebbi ero distesa sul divano con Maria che aspettava paziente e almeno cinque bambini sbucati da chissà dove, come i Mastichini che escono dai cespugli intorno a Glinda.
“Ma perché rubate i bambini?” le chiesi, guardando quei piccoli biondi, bianchissimi, vestiti di cenci di seta.
“Non rubiamo bambini: vengono loro, gli piacciono le favole”.
“Che è successo?”
“Sei svenuta. Adesso vai, ho visto quello che dovevo”.
“Non voglio sposarlo”.
“Le cose succedono”.
I bambini mi aiutarono a alzarmi e mi accompagnarono fuori.
Mi ritrovai a ondeggiare nella bolla di calore e fumo di benzina, sulla striscia nera di asfalto liquido.
A casa respinsi tutte le domande di mia madre e me ne andai in camera: per la prima volta piansi, a lungo, pensando a chi avevo perso e a cosa mi stava aspettando.
Pensai a Maria che veniva da tanti posti e che aveva tolto il malocchio all’abito, lavato il sangue con la magia e quindi ora non c’era più nulla che impedisse il matrimonio: avrei dato tutto per un accidente secco, per un tifone improvviso, un terremoto distruttivo, una piena di fiume che portasse via le case con tutti noi dentro e ci lasciasse a cullarci nella morte in fondo a un oceano qualunque.
Lo desideravo talmente tanto che, addormentandomi, sognai di essere la regina del mare, seduta su un conchiglione con in mano un forcone e le bolle che mi uscivano dalla bocca: tutti davanti a me si inchinavano ondeggiando, i miei genitori erano in ceppi, legati a un grosso macigno, Santo galleggiava morto e il suo intestino usciva da lui e si attorcigliava a una murena, che continuava a nuotare trascinandoselo dietro, a fare da esca ai pescecani.
Il giorno dopo, senza dirlo a nessuno, tornai da Maria. Questa volta mi aprirono subito e un altro mastichino mi accompagnò dalla padrona.
“Ho fatto un sogno”.
“E che vuoi da me?”
“Niente, voglio raccontarti il sogno, magari è importante”.
“È solo un sogno”.
Glielo raccontai comunque, lei lo ignorò, prese una scatola lucida e me la fece vedere.
“Questa è la Scatola degli Occhi. Dentro ci sono gli occhi di tutti, anche dei morti. Quasi tutti gli occhi dormono. Ogni tanto si aprono e vedono le cose”.
Allungai la mano per toccarla ma la zingara la allontanò brusca.
“Posso restare qui?” le chiesi. Mi disse di no, perché io non ero come loro.
Mi invitò a andare via, con gentilezza e con un piccolo braccialetto, un “dono di nozze”.
Era un cerchio di argento con dipinti tanti occhi blu.
Decisi che non volevo tornare a casa e mi misi a camminare per il quartiere, ascoltando attentamente le piattole e le chiacchiere.
Io volevo essere la Regina del Mare, non volevo stare in un covo bollente di piattole, non volevo invischiarmi nella violenza sorda e grossolana di quelle viuzze asfittiche, dove il puzzo di cipolle e DDT stordiva anche i tossici.
Camminai fino al torrente, che segnava un confine non scritto, e andai oltre il ponte. L’ultima volta che lo avevo varcato era stato tanto tempo prima: volevo andare al cinema, non avevo i soldi, e avevo deciso di mettermi fuori dalla cancellata di un cinema all’aperto che era nella parte elegante del quartiere. Ma poi avevano piantato delle siepi a recintare lo spazio e non si poteva più vedere lo schermo.
Questa volta invece non sapevo dove andare, passai un semaforo, attraversai una strada, c’era un tabaccaio, chiesi una sigaretta a un tizio che stava fuori a bere una birra: mi guardò a lungo, mi dette la sigaretta e me la accese. E poi mi chiese se volevo bere con lui. Lo guardai, era brutto, me ne andai. Arrivai alla piazza grande, piena di negozi e signore, bambini e anziani sulle panchine. Non c’era traccia di piattole, tutto era ordinato e non osai buttare la sigaretta in terra: la spensi sotto la scarpa e la gettai in un cestino.
Non appartengo nemmeno a questo posto, pensai. Non appartengo né a quello né a questo.
Tornai indietro, era buio. Arrivata di nuovo al torrente, fissai il punto in cui avevamo trovato il babbo. Perché non lo hai ucciso? Perché sei il più crudele degli uomini, è sicuro. Perché nella morte c’è la pietà che quelli come te non conoscono.
Arrivata a casa sentii le bestemmie di mio padre da lontano. Litigava con mia madre. Li trovai lui in piedi a urlare, lei seduta con il ghiaccio sulla testa: era caduta scivolando mentre tentava di schiacciare le piattole, e ora mio babbo cercava di finire il lavoro dando colpi di scopa a caso sul pavimento, sembrava che piangesse.
Il nodo alla gola che sentii non riesco a raccontarlo.
Mancava una settimana al matrimonio, la mattina dopo avevo l’ultima prova dell’abito da Rita. “Ci vai da sola, perché io mi sono spaccata la fronte e non sto in piedi” disse mia madre, “e se vuoi mangiare in frigo c’è un po’ di frittata avanzata”.
Uscii di casa presto per evitare il caldo, passai accanto alla roulotte di Maria ma non mi fermai, mi aveva mandata via già troppe volte e tanto non capivo quello che diceva. Poi si alzò un finestrino e mi chiamò. Mi aprì lei stessa.
“Dove sono i piccoli maggiordomi?”
“A scuola”.
“Li mandate a scuola? Pensavo non ci andaste, voi”.
“Tu sai tutto, eh”.
“Scusami. Ma tutti qui dicono così”.
“Allora sei come loro”.
“No. Non sono come loro, voglio essere libera da loro”.
“Vuoi libertà, ma non sai niente”.
“Cosa devo sapere?”
Mi squadrò, sembrava infastidita dalla mia ottusità, “Quello che succede dopo”.
Poi mi fece sedere sui cuscini morbidi, mi preparò un tè e mi offrì dei dolci buonissimi.
Non mangiavo da tanto, mi abbuffai.
“Sto andando da Rita, ho l’ultima prova”.
“La nana sta dalla tua”.
“Che dici? Che vuol dire?”
Maria non rispose, io uscii dalla roulotte.
Andai da Rita, la colazione della zingara mi aveva rimesso in forze, ero pronta a tutto, anche alle conseguenze.
“Il vestito è finito, è venuto bene, sai?” mi accolse così, e mentre entravo andò a prenderlo.
Lo indossai piano, con il suo aiuto, lei agganciò i bottoncini di raso e mi fece vedere la sua sorpresa, il tocco d’artista: aveva cucito delle roselline con la stoffa avanzata e ci aveva decorato il corto strascico.
Mi guardai allo specchio e restai stupita da me stessa: “È bellissimo, Rita!” Somigliavo alla versione di me Regina dei Mari che avevo sognato.
“È perfetto per te. Sprecato per l’occasione”.
Ci guardammo negli occhi, lei li abbassò, per compassione, adesso lo so.
“L’ultimo dettaglio” mi disse, porgendomi una crocchia di roselline di organza disposte su uno spillone: “Ho pensato che mancava qualcosa per raccogliere i capelli, il vestito è molto semplice, così diamo un tocco in più”.
Mi fece sedere e iniziò a sistemarmi i capelli. Mi rilassai, mi addormentai quasi, mentre le sue mani piccole mi acconciavano la pettinatura. Nello specchio vidi un riflesso di luce, era lo spillone color ottone, intonato al biondo cenere dei capelli. Aveva gusto Rita.
“Attenta a questo, è come uno stiletto, rischi di ferirti: va sistemato bene, ti faccio vedere come fare”.
Lo presi in mano: era freddo, abbastanza lungo, e acuminato. Sembrava un ago da uncinetto, ma le roselline che Rita ci aveva infilato gli davano un’aria romantica.
Poi è arrivata la mattina delle nozze. Non ricordo molto.
C’erano donne chiassose molto grasse, bambini molto grassi, uomini con occhiali scuri, auto scure.
Santo era arrivato sulla Peugeot truccata da mio padre.
Qualcuno dispose gli invitati a caso, in modo da riempire anche il mio lato, che era vuoto.
C’erano solo i miei: mia madre sembrava un rotolo di sugna avvolta in una stagnola colorata. Le mancava il fiocco del prosciutto sul fianco. Mio padre era malfermo, sudava, si era fatto prestare l’abito da uno che abitava nelle case dei dipendenti del comune all’altro lato della strada. Doveva accompagnarmi all’altare.
Non ricordo altro, se non il disgusto per le mani di Santo sui miei fianchi e il bacio sulla bocca che fui costretta a prendere. Poi qualcuno applaudì, uscimmo nell’afa e tutti tiravano manciate di riso.
Pensavo alle conseguenze, che bisogna saperle le conseguenze. E se uno non le sa? Se le deve immaginare.
Maria era non lontano dal sagrato, in piedi, con uno dei suoi bambini e mi guardava, non mi perdeva di vista. Io ricambiai lo sguardo, fissavo i suoi occhi verdi. Mi salutò agitando una mano, nell’altra reggeva la Scatola degli Occhi.
Cercai anche Rita, ma non la vidi. Mi voltai di nuovo verso Maria, che mi fece “no” con la testa.
“Dov’è Rita?”
“È morta stanotte”, mi disse mia madre, guardando in basso. E io l’ho odiata in quell’istante più di quanto abbia mai odiato nessuno.
Maria guardava me, io guardavo lei.
Più di tutti gli estranei intorno, sentivo i miei che non c’erano più: Rodrigo e Rita, i loro occhi stavano nella scatola di Maria e sicuramente erano ben aperti. E sentivo Maria, che non mi lasciava lì da sola.
Il luogo del ricevimento, noleggiato da Santo, era lì vicino: un ristorante con giardino circondato da un recinto di rose e glicine con cui i proprietari cercavano di mascherare la vista sull’autostrada. Ma si sentiva ugualmente nell’aria che era una terra desolata di passaggio per tutti, tranne che per noi che lì ci eravamo incastrati.
Un pranzo di cui ricordo gli occhi dei miei genitori, due vacche stupefatte e esaltate dall’aver evitato il macello, le battute sguaiate, i camerieri ossequiosi.
Non so come apparissi agli altri, non sentivo nulla, né il caldo, né alcuna emozione: provavo a immaginare le conseguenze. Avevo un solo punto di riferimento: il viso di Maria che, fermo nello stesso punto tra i tralci di glicine, sembrava fosse germogliato dal fusto della pianta. A intervalli regolari guardavo i suoi occhi verdi, che fissavano alternativamente me, Santo e i miei genitori.
“Che bel vestito, complimenti!” mi disse una donna giovane, meno grassa delle altre “E che bella acconciatura!”
“Grazie, sì, sono molto belli”.
Rise, ma poi andò via. Avevo troncato, non volendo, la conversazione sul nascere.
Il tramonto arrivò portandosi via i colori forti e per un attimo persi Maria. La ritrovai poco dopo: si era spostata, per evitare il sole rosso in faccia che le avrebbe impedito di tenermi d’occhio. Fu un attimo di panico, di lieve, sottile e fredda paura che mi bagnò la schiena. La paura passò subito, il freddo invece mi restò dentro. Lei continuava a accompagnarmi con lo sguardo, tenendo con sé ben in vista la Scatola degli Occhi.
Portarono finalmente la torta nuziale, una montagna bianca di panna e pan di spagna, troppo bianca, un bianco accecante.
Santo mi prese per mano e ci mettemmo in posa davanti al fotografo: tenevamo la spatola di finto argento appoggiata su quel dolce pacchiano e dovevo sorridere. Poi mi lasciò l’onore del taglio della prima fetta, dicendo anche “prego”. Affondai la lama nella morbidezza spugnosa dell’impasto e tutti applaudirono, risero, dissero frasi sconce. Io li guardai, cercai Maria, guardai anche lei. Una folata di vento forte e fresco ci travolse tutti. Mi scompigliò i capelli, la decorazione di Rita si staccò dallo chignon, la ripresi al volo e infilai lo spillone nella gola del Santo. Il dolce si macchiò di rosso mentre lui moriva cercando di tamponare il fiotto di sangue con le mani.
Mi girai verso il glicine, nel solito punto, e poi percorsi con lo sguardo tutto il recinto, ma Maria non c’era più.
0 comments on “Le conseguenze”