Le donne del Vodou e il corpo queer



Nei rituali del Vodou haitiano, la commistione tra umano e divino produce identità di genere indipendenti dal sesso assegnato alla nascita. In contrasto con la visione cartesiana dello spirito chiuso nel corpo, nelle religioni afrodiasporiche il corpo è un luogo aperto.


In copertina e nel testo: DETUGBI, di Agbagli Kossi (1990)

Questo testo è estratto da Divinità queer di Roberto Strongman. Ringraziamo l’autore e Mimesis per la gentile concessione.


di Roberto Strongman

All’interno degli studi sul Vodou haitiano c’è un filone di narrativa antropologica, tuttora inesplorato, di matrice distintamente femminile. Vera e propria écriture féminine Vodou, si incentra sui temi dell’incarnazione, del desiderio e dell’omosocialità. Tutti questi testi sono accomunati dal racconto di un’antropologa che si integra in una comunità Vodou, inizialmente al solo scopo di ricerca, per poi finire col diventare una praticante e iniziata. In tutti troviamo la scelta di usare il sogno come metafora e leitmotiv della medianità. Cominciano quasi sempre con una spiegazione della metafora del cavallo e del cavaliere, e culminano con un’esperienza di possessione in trance, idealmente quella dell’autrice, oppure di conoscenze intime. In questo senso, questo tipo di narrativa può essere pensato come una sorta di cerimonia Vodou onirica e astratta, condensata e interrotta bruscamente. In questo capitolo, l’etnografia come cerimonia riflette la metafora della camera iniziatica sviluppata nell’introduzione e prefigura la nozione di transcritturalità rivelata nella conclusione.

Per comprendere la costruzione, l’evoluzione e l’impatto di questa narrativa, prenderò in esame i fondamentali lavori iniziatici di cinque antropologhe, per studiare in che modo le prospettive delle donne sulla corporeità del Vodou haitiano abbiano problematizzato il dualismo cartesiano tra il corpo e la mente. I cinque testi sono stati pubblicati a circa diciotto anni di distanza l’uno dall’altro, dall’inizio del ventesimo secolo a quello del ventunesimo. In ordine cronologico, sono Tell My Horse (1938) di Zora Neale Hurston, Divine Horsemen (1953) di Maya Deren, Island Possessed (1969) di Katherine Dunham, Mama Lola (1991) di Karen McCarthy Brown e Nan Dòmi (2010) di Mimerose Beaubrun. Sono convinto che, tramite la nozione di transcorporeità, sia possibile individuare una convergenza femminista e queer nell’uso delle potenzialità del Vodou per sviluppare modelli di incarnazione più abilitanti.

Il titolo stesso del libro più recente, Nan Dòmi, sottolinea l’importanza che i sogni rivestono nel processo per diventare vodouisant. Nan Dòmi è il culmine di una conversazione intertestuale che usa il sogno come metafora dell’ingresso nella dimensione metafisica della possessione estatica, dell’iniziazione, della comunione col divino e della conoscenza mistica. Beaubrun nel suo libro descrive ampiamente i sogni, che servono da commento, avvertimento ed esortazione per il mondo della veglia, assumendo un’importanza tale che chi legge comincia a chiedersi se essi non siano, alla fine, derivati dalla cosiddetta realtà. Magari è il sogno a essere fonte delle nostre azioni nella veglia, come ci fa pensare Beaubrun: “Il sogno, per me, era un mondo immaginario di memorie nascoste […] Ma per Tante Tansia, il sogno era una condizione del mondo dell’ignoto, senza alcuna connessione con l’immaginazione. ‘È reale’, mi diceva”. Paradossalmente, gli occhi di chi dorme sono aperti: “Sognare è vedere […] Chi sogna è un medium, testimone dell’ignoto”. Sotto la tutela della sua mentore Tante Tansia, Beaubrun comincia a comprendere l’importanza del sogno: “Sognare non significa solo la capacità di vedere il mondo conosciuto, ma anche di essere testimone dell’Ignoto”.

Questo mondo ignoto è popolato dagli spiriti ancestrali e divini dall’Africa, il continente che il Vodou conosce in senso mistico come Ginen: nan dòmi è uno stato dove padroneggiare “le manifestazioni dello Spirito e il servizio a Ginen”. Un altro mentore spirituale, Bien-Aimé, dissuade Beaubrun da darle una precisa collocazione geografica: “‘Cos’è Ginen?’, chiesi. Mi rispose: ‘Se sa w pa we’a’, è l’Invisibile”. Sognare è molto più di un viaggio o un ritorno a una terra ancestrale; è l’accesso a una reale dimensione parallela di conoscenza ed essere. E per questo è necessario espandere la propria capacità di vedere. Molto dell’apprendistato di Beaubrun con Tansia consiste nell’imparare ad accedere e gestire le tecnologie spirituali del sogno: “‘Per entrare nello stato del sogno’, mi ripeteva Tante Tansia, ‘è necessario fare silenzio dentro di sé; bisogna far tacere tutti i pensieri’”. La quiete della mente conferisce la chiaroveggenza: “Moun ginen può farlo perché ha lo Je (letteralmente ‘occhio’, o ‘apertura’, potere sovrannaturale della vista, la chiaroveggenza)”. Anche Katherine Dunham parla dell’occhio mistico come della capacità di vedere il futuro: “Prix des yeux: ‘premio degli occhi’, o ‘gioiello degli occhi’; chiaroveggenza. Il grado più alto delle persone iniziate al vaudun”.

Grazie a Nan Dòmi possiamo comprendere l’importanza del sogno nella visione del mondo Vodou e l’importanza data dalle autrici allo sviluppo di questa visione mistica. Maya Deren, il cui nome di nascita è Eleanora Derenkowskaia, costruisce per sé un’identità autoriale mistica prendendo il nome sanscrito del sogno e dell’illusione – Maya. La tecnica del flusso di coscienza dona a Divine Horsemen (il libro ma anche il documentario) una qualità surrealistica e sognante di grande profondità psicologica. Deren descrive la sua possessione alla fine del libro come un sogno. Zora Neal Hurston, invece, colloca il sogno all’inizio del suo viaggio spirituale: “Come fa un uomo a sapere di essere stato chiamato? Di solito, tutto ha inizio con dei sogni agitati”. Il sogno delimita il racconto dell’iniziazione di queste antropologhe, e questa cornice narrativa include diversi altri sogni, così che ci troviamo a chiederci, essendo il libro un microcosmo e specchio della vita, se quello che leggiamo, o l’atto stesso di leggere, non sia anch’esso un sogno. In Mama Lola, Karen McCarthy Brown racconta che Philo, la madre della sua informante, comunicava con i lwa in sogno. Quando Philo vuole mettere fine alla gravidanza, una donna bianca le compare in sogno per dissuaderla dall’aborto e la ammonisce di non venire nella sua casa, l’ospedale, per partorire la bambina. L’ospedale porta il nome di Nostra Signora di Lourdes, sincretizzata con Ezili Dantò. Grazie a questo avvertimento, la bambina nasce in casa, sfugge all’epidemia scoppiata nell’ospedale e riceve il nome creolizzato della santa cattolica: Aloud o Alourdes. Anni dopo, Dantò appare nel sogno di Aloud – come fece con sua madre – per consigliarle di tenere il figlio. McCarthy Brown reitera in questo modo l’idea di Hurston che la chiamata cominci con un sogno, raccontando come la visione onirica sia, di fatto, il primo passo del viaggio spirituale delle sacerdotesse (mambo).

Costituenti del Sé

Così come il sogno serve a descrivere il fenomeno della possessione in trance, vediamo come proprio il Sé sia sognato – cioè immaginato, proiettato, rappresentato simbolicamente – come costruito di diverse parti materiali e immateriali nella visione del mondo Vodou.

Nel Vodou, le parti che formano il Sé sono molteplici. Tre sono le componenti riferite al corpo. La prima è il kòkadav, il corpo fisico. La seconda è il nannan, il corpo astrale che funziona come doppio, normalmente racchiuso nel kòkadav. Tuttavia, durante il sogno, il corpo fisico che rappresenta il gwobonanj è contenuto dal nannan “pour pouvoir protéger le rêveur en lui donnant un sentiment de solidité” (“per proteggere chi sogna dando un senso di solidità”). Infine, la terza parte è il nannan-rèv, il corpo del sogno.

Tra gli aspetti immateriali, sono tre quelli centrali per la costruzione del corpo nel Vodou. C’è un dibattito aperto nella letteratura su quale sia il luogo della personalità o del carattere dell’individuo e quale sia più simile alla nozione occidentale di anima, ma ciò che interessa in questo caso è che, così come il corpo, nel Vodou anche la psiche è molteplice.

Il primo componente è l’esprit, che si può tradurre come “intelligenza”, “energia e azione dello spirito”, “alla base dell’atto di giudizio, di decisione, di desiderio e anche di ogni motivazione e della volontà proiettata nelle azioni visibili di un uomo”. L’esprit è “il ‘principio vitale’ di una persona, nel senso della sua natura o carattere più che in senso esclusivo e mistico. In questo senso è simile all’inglese ‘spirit’ come in ‘spirit of the times’”.

Le altre parti della psiche ricevono molta più attenzione in letteratura, perché sono più attive e coinvolte nei processi di vita, morte e trance: sono il tibonanj (piccolo angelo guardiano) e il gwobonanj (grande angelo guardiano).

Il tibonanj, detto anche lanvè o selidò, è il corpo spirituale, una porzione di Dio, che controlla lo stato di sogno: “lo slancio universale al bene, la nozione della verità come desiderabile, tutta quella coscienza che, nella nostra cultura, è intesa come una funzione dell’anima, è per l’haitiano funzione di un terzo elemento nell’uomo: il ti-bon-ange”. Al momento della morte viene automaticamente liberato. È la coscienza oggettiva e, di conseguenza, non può mentire. Il gwobonanj, invece, conosciuto anche come ladwat o sèmèdò, rappresenta il mondo mentale o l’intelletto, la personalità o la coscienza, il carattere invisibile e immateriale di un individuo distinto dal corpo fisico – più psiche, quindi, che anima. Il gwobonanj è “l’alter ego metafisico dell’essere fisico […] il gemello immortale che sopravvive all’essere mortale […] simile a ciò che noi intendiamo per anima, considerando l’anima come il duplicato dell’uomo e non come una forza morale di natura più elevata […] [il contenitore in cui] riposa la storia dell’uomo”.

La letteratura dedica tanto spazio alla spiegazione e al funzionamento del gwobonanj, perché è esattamente la parte della psiche che viene rimossa e sostituita durante la trance: “Coloro che servono gli spiriti Vodou credono che, durante la possessione, il gwobonanj lasci il corpo e vaghi senza meta per il mondo”. Deren spiega che il lwa stesso è un gwobonanj, ed è proprio questo che gli consente di sostituire temporaneamente il gwobonanj della persona devota in trance:

L’uomo [ha] un corpo materiale, animato da un esprit o gros-bon-ange (l’anima, lo spirito, la psiche o personalità) il quale, essendo immateriale, non perisce alla morte del corpo. Quest’anima può raggiungere […] lo stato di loa, di divinità e diventare la rappresentazione dell’archetipo di un qualche principio morale o naturale. Come tale, ha il potere di sostituirsi temporaneamente al gros-bon-ange di una persona vivente e diventare la forza animatrice del corpo fisico. Questo fenomeno psichico è conosciuto come “possessione”.

In questa collezione di etnografie iniziatiche femminili, è la più recente a essere la più profondamente personale, affermando con più decisione la necessità di trascendere l’individualità egoica che è il gwobonanj. Nan Dòmi comincia come una tesi di antropologia, per diventare un viaggio personale. Il suo percorso da una obiettività distaccata e idealizzata verso una soggettività partecipata costringe Beaubrun a confrontarsi con il suo forte senso dell’individualità. Tante Tansia continua a dirle che la sua crescita è limitata dal suo attaccamento alla personalità, il suo “Moi”: “‘Tu non ti senti sicura finché non trovi una spiegazione’”; “‘Devi disfarti della ragione’”, le dice Tante Tansia. “‘Danza, figlia mia, danza. […] Tutto danza. L’intero universo e tutto ciò che contiene, le energie danzano’”. Lungo tutto il racconto, Tante Tansia spinge Beaubrun a lasciare andare la sua personalità. Il suo insegnamento insiste che la personalità di una persona non è il suo essere: “‘La tua personalità è stata costruita da questo mondo per funzionare in questo mondo. Ti è stato dato un nome, una classe e un’educazione’”. Secondo Tansia, le norme sociali e le proibizioni giocano un ruolo nella costruzione della personalità. Esorta Beaubrun a guardare dentro di sé per quell’essere che è un mistero. Se l’autrice ha difficoltà a trascendere il suo sé egoico, è anche per il suo attaccamento al linguaggio. Tansia la prende in giro bonariamente: “‘Tu ami troppo le parole. Non puoi farne a meno. È questo che causa il blocco dei poeti. Prigionieri delle parole, restano eternamente nostalgici di un mondo che hanno percepito, ma che non riusciranno mai a descrivere’”. Alla fine, nell’epilogo, Beaubrun riesce a liberarsi della sua individualità egoica. Quando suo marito Lòlò le dice “Con questo libro lascerai il segno”, lei replica fermamente “No, al contrario, semmai lo cancellerò”.

La natura modulare di queste parti diverse del sé è evidente in vari rituali Vodou del ciclo della vita. Kanzo è il fuoco rituale dell’iniziazione, che crea una vita composita unendo il lwa, la persona iniziata e l’animale sacrificato nel potèt. Il rituale del desounnen separa, dopo la morte, le tre parti della persona iniziata: il corpo, il gwobonanj (l’anima personale o il sé) e il lwamètèt (lo spirito padrone della testa). Il gwobonanj, libero dal legame con il lwa e il corpo materiale della persona deceduta, può adesso diventare un lwa o uno spirito tutelare della famiglia. Infine, il rituale del retirer d’en bas de l’eau è una cerimonia che si svolge un anno e un giorno dopo la morte. È la cerimonia in cui lo spirito viene liberato e richiamato dalle acque dell’abisso per incarnarsi in un govi. Questo govi diviene un sostituto del corpo: “Il vaso d’argilla, o govi, nel quale lo spirito viene riposto, è un sostituto del recipiente di carne che un tempo lo conteneva. Dalla bocca del vaso vengono i consigli e il buon senso con i quali la persona morta continua ad aiutare e favorire la sua discendenza”. Il fatto che il vaso possa sostituire il corpo sottolinea l’immagine di questo come naturalmente recipiente.

La zombificazione è un progetto di desoggettivazione, che dimostra ulteriormente la molteplicità del sé immateriale, la rimozione e sostituzione delle varie parti, il ruolo del corpo come contenitore, e la modularità del sé sognato e costruito. Katherine Dunham fornisce la descrizione più appropriata dello zombie:

La prima definizione della creatura è quella di una persona realmente morta, che per intervento della magia nera è stata riportata in vita, ma in un modo tale che la memoria e la volontà sono sparite, e l’essere che ne risulta è interamente soggetto alla volontà dello stregone che lo ha resuscitato, al servizio del bene o del male.

Deren, forse spaventata dall’idea della zombificazione, si concede invece un uso impreciso della parola “anima”, che pure lei stessa trova inadeguata nel contesto del Vodou: “Il temuto zombie, principale oggetto di terrore, è precisamente questo: corpo senza anima, materia senza moralità”. Anche Zora Neale Hurston usa la terminologia dell’“anima”, evocandola come “soffio di vita” che può essere risucchiato, inalato e annusato:

Dopo il rituale apposito, il Bocor, nel suo aspetto più potente e temuto, monta un cavallo con la faccia rivolta verso la sua coda e cavalca dopo il tramonto verso la casa della vittima. Qui posiziona le labbra nella fessura della porta e succhia via l’anima della vittima, cavalcando via a tutta velocità. Subito la vittima cade malata, di solito cominciando con un mal di testa, e in poche ore è morta.

Dopo di che, l’houngan conserva l’anima in una bottiglia o nella sua mano. Richiama il corpo morto a mezzanotte usando l’anima come esca. Poi, “l’uomo morto risponde sollevando la testa e quando lo fa il Bocor passa l’anima sotto il suo naso per un breve secondo e gli incatena i polsi”.

Questo sognare femminile del corpo acquisisce caratteristiche ancora più di genere nel ruolo mitico che l’utero gioca nella costruzione del corpo Vodou. Nel folklore haitiano, il fenomeno della pèdysion è la credenza nella possibilità di trattenere le gravidanze. Dopo il concepimento, una gravidanza può essere sospesa e ripresa, così che le donne possono dire di essere state incinte per anni. Questo consente anche di rivendicare la paternità di uomini con i quali hanno avuto rapporti anche anni prima. Questa immagine mitica dell’utero descritta da Karen McCarthy Brown illumina la frase di Mimerose Beaubrun: “L’utero […] contiene tutte le nostre frustrazioni, le paure, i complessi, eccetera”. Per questo Tansia la esorta a fare woule vant, cioè a spianare la pancia per esorcizzare le sue paure:

Mi insegnò come fare woule vant (danza del ventre) in due direzioni. La danza consisteva nello spianare lo stomaco dalla pelvi in su, poi fare la stessa cosa nella direzione opposta. Mi consigliò di farlo fino a sentire una sensazione simile all’orgasmo. Il suo scopo era rendermi consapevole della danza nel mio utero.

Qui vediamo il grande fascino dell’esplorazione femminile di modelli di incarnazione, che possono presentare un’alternativa allo schema cartesiano del corpo che rinchiude l’anima. Se il gwobonanj, come aspetto immateriale principale del sé, può essere esterno, rimovibile e temporaneamente sostituito, in che modo una soggettività femminile, in particolare queer, può sognare di usare un simile modello per costruirsi un’identità a proprio vantaggio?

Non-eteronormatività Vodou

La modularità del sé, preservata in queste religioni afrodiasporiche, consente al lwa di sostituire temporaneamente il gwobonanj, permettendo identificazioni cross-gender durante lo stato di trance:

Se un loa maschile possiede una credente, si farà uso del nome del loa e del pronome “egli” (come si fa sempre nel vudù), riferendosi al soggetto che agisce ed è responsabile di tutto ciò che avviene durante la possessione; al contrario, se un loa femminile possiederà un uomo, il pronome sarà “ella”.

Questa ri-generazione del corpo ha anche delle conseguenze sul vestiario:

Baron Samedi adora vestire i suoi “cavalli” nello stile cencioso e fantastico di Papa Guedé. Donne vestite come uomini e uomini come le donne. Spesso, oltre a indossare abiti femminili, gli uomini mettono un calabash [zucca a fiasco, N.d.T.] sotto le gonne per simulare la gravidanza. Le donne indossano cappotti maschili e saltellano in giro con un bastone tra le gambe per imitare gli organi sessuali maschili.

Il fenomeno della possessione, che consente questa ri-generazione performativa del corpo nel contesto rituale, non è affatto confinato allo spazio sacro, ma si espande anche nell’ambito profano. Ad esempio, il Carnevale è una delle occasioni dove questa ri-generazione è più visibile:

è abituale che uomini e donne si scambino i vestiti, forse con il desiderio di soddisfare inclinazioni omosessuali. Quando scende la notte, tutte le regole saltano e la messa in scena diventa decisamente orgiastica. […] L’attività omosessuale è molto comune in questi raduni di massa. Non è affatto inusuale vedere due uomini avvinti nella danza gouillé. Una persona che, nella vita quotidiana, non mostra inclinazioni anormali cercherà nel culmine del Mardi Gras persone del suo stesso sesso per danze erotiche.

Sognare il corpo con le tecnologie della corporeità Vodou implica la possibilità di costruire una soggettività di genere più libera e flessibile di quella consentita nel modello interiorizzante della tradizione filosofica europea. L’anima esterna e rimovibile come un anacardio permette di pensare un corpo modulare e di spiegare la possessione estatica, e consente la ri-generazione del corpo femminile negli ambiti sacri e profani della vita culturale haitiana. In tutti i racconti di cui parliamo c’è una (auto)consapevolezza diffusa e carsica di una malleabilità del sé, una potenzialità attraente per l’etnografa donna e queer. Tuttavia, spetta al critico dare voce all’impeto che sottende a questa ricerca sull’incarnazione nel Vodou, perché i desideri che animano l’inchiesta di queste etnografe restano in qualche modo un tabù, forse a causa delle convenzioni socio-temporali.

DETUGBI, (c) Agbagli Kossi (1990)

Desiderio omosessuale codificato

La transcorporeità, come aspetto modulare dell’individualità che consente il fiorire quotidiano e rituale di performance e identità non-eteronormative, sostiene le varie forme di omosocialità femminile che incontriamo in questa tradizione di etnografie Vodou scritte da donne. Il marito di Mimerose Beaubrun si chiama Theodore “Lòlò” Beaubrun ed è largamente assente dal corpo della narrativa. Viene introdotto all’inizio di questo diario spirituale, per riaffacciarsi in modo significativo solo alla fine, quando si può quasi dire che lei si sia riconciliata con lui, come se ci fosse stata una separazione. Il fatto che il suo soprannome Lòlò significhi “pene” nel kreyòl della Martinica sembra ridurlo a un mero oggetto per la riproduzione e la pratica sessuale. L’intimità rinnovata si manifesta quando Beaubrun scopre la sensibilità spirituale e l’intuito del marito, imparando che la loro “intimità andava al di là dei legami maritali”. Nel racconto, la relazione più importante è quella tra l’iniziata e la mentore, Beaubrun e Tansia, che condividono un rapporto profondamente sensuale.

Il matrimonio tra l’autrice e il marito apre e chiude Nan Dòmi. Questa relazione sembra adottare e poi espellere Tansia – la sua morte sembra un sacrificio espiatorio – consentendo alla coppia eterosessuale di sperimentare un trio quasi sessuale che, alla fine, serve ad approfondire il loro rapporto. Beaubrun, a pagina 77, dichiara esplicitamente il proprio amore per Tansia, cosa che non fa mai per suo marito. Compone una poesia d’amore, in teoria rivolta alla Terra, che sembra però indirizzata a Tansia. Con un linguaggio di estasi e beatitudine erotica, scrive:

Voglio ringraziarti, cara Madre! / Tu sia benedetta, Madre / Oh! Quanto ti amo! / Amo il tuo odore… / Aiutami a esalarlo / Nelle particelle / Di polvere che formano / Il tuo tempio, la mia carne / Fammelo sentire nell’aria che respiro / In ogni momento / Insegnami a vibrare al tuo ritmo / Ho tanto bisogno di te!

Beaubrun è colpita sensualmente dall’aspetto di Tansia: “Tansia era molto bella. Era la donna più bella del paese. La sua pelle era del colore della pesca, i capelli spessi e ondulati, i denti bianchi, gli occhi di un marrone limpido, ed era alta un metro e settantacinque”. Lo sguardo di desiderio è tanto evidente che Tansia stessa indaga sulla sua natura:

Mentre parlava il suo viso si trasformò; le sue fattezze divennero quelle di una giovane donna. Era molto, molto bella. Sciolse lo chignon. I capelli erano colore del miele. Era agile, a suo agio, e si muoveva in modo ammiccante. Se questo cambiamento nel suo aspetto era sorprendente, il suo cambiamento d’umore lo era ancora di più. Ero stupefatta. Non credevo ai miei occhi. Lei notò la mia sorpresa e disse “Perché mi stai guardando così?”.

Beaubrun descrive la sua prossimità a Tansia con un linguaggio erotico appena velato. La relazione è tanto intima che Tansia può dire a Beaubrun di ricordarsi di lavare il suo bouboun (pube). Inoltre, ricordando il momento successivo a uno dei suoi episodi di sogno/possessione, scrive: “Era tutto nero. Spalancai gli occhi; a un certo punto il colore era giallo zafferano, poi bianco, e mi sono svegliata rannicchiata nella gonna di Tansia. Tremavo, scossa da spasmi. Mi fece bere dell’acqua, versandola sulla mia faccia. Ero bollente”.

Questo lesbismo in codice si percepisce anche nella vita e nelle opere di Katherine Dunham. Uno dei suoi biografi interpreta la didascalia che parla di “gay good spirits” nella compagnia di Dunham come queerness in codice. I fianchi sporgenti dei ballerini non fanno che accentuarne le implicazioni. Molti di loro facevano parte della cerchia gay di Carl Van Vechten. I racconti orali di George Chauncey confermano la reputazione della Compagnia Dunham come centro della vita gay ad Harlem intorno alla metà del secolo scorso. Island Possessed è pervaso da sensuali descrizioni di contatti fisici molto ravvicinati con altre iniziate durante le cerimonie, culminando in una situazione omoerotica appena velata:

Guédé Nimbo avrebbe dovuto aspettare prima di montare la donna che mi stava in grembo […] Aveva dormito profondamente, da quando si era inserita di nuovo tra noi, di schiena sulle mie gambe, svegliandosi appena quando ci girammo […] Respirò a bocca aperta e potei sentire il tabacco da pipa e l’alcol di Guédé.

La sua biografa identifica questa donna come lesbica. Commentando la non-eteronormatività che pervade la cultura popolare e contadina di Haiti, Dunham scrive: “C’è stata una fusione delle forme di poligamia che prosperano in tanti modi in Africa, che ha prodotto il sistema haitiano”. Lei stessa sembra avere vissuto e amato secondo questo poliamore non-eteronormativo, nel quale divinità, uomini e diverse persone dal nome e genere imprecisati sono state sue amanti. A giudicare dai suggerimenti e indizi riportati sopra, non sarebbe così improbabile che tra queste ci fossero delle donne.

Al tempo del mio matrimonio con Damballa ero già sposata, per quanto non abbastanza matura di spirito per accorgermene, con qualcuno che forse è meglio resti anonimo; mi sentivo innamorata di una cara persona amica, che è meglio resti anonima; avevo una cotta per uno o più insegnanti del college, ero affascinata da Dumarsais Estimé, e coinvolta in più di un modo con Fred Alsop.

Infine, questo lesbismo in codice è evidente nelle sue esibizioni sul palco e nella sua immagine pubblica. In Tropics – Shore Excursion, Dunham interpreta la “Donna con il Sigaro”. Personificando la donna fallica, Dunham usa il sigaro per ri-generare il corpo ma anche per “alludere alle pratiche religiose della Santería, fusione di pratiche yoruba e cattoliche nata a Cuba. Dall’altro lato, Dunham basa la danza sulle donne di mercato dei Caraibi, conosciute come Madame Sara, donne che spesso supportavano ‘mogli’”. Il fatto che il corpo serva da recipiente per un’anima esterna consente di immaginare e sognare una relazione tra il sesso e il genere meno rigida di quella del modello cartesiano di un’anima intrappolata nel corpo. Questo consente un’esplorazione dell’omosocialità femminile negli aspetti sacri e profani della cultura haitiana, anche se queste forme di legami tra persone dello stesso sesso e desiderio queer richiedono una decodifica per renderle visibili.

Il tema della Lesbica Tragica

Una delle caratteristiche distintive di queste etnografie iniziatiche femminili è la franchezza con la quale espongono il lesbismo, una mossa coraggiosa specie per chi scriveva prima degli anni ’70. Nonostante questo, l’amore omosessuale viene spesso fatto finire in tragedia, richiamando il cliché diffuso in opere della cultura europea modernista come il romanzo Il pozzo della solitudine (1928) di Marguerite (John) Radclyffe e il film Ragazze in uniforme (1931) di Leontine Sagan.

Nei testi che stiamo esaminando, il lesbismo compare per la prima volta in Tell My Horse di Zora Neale Hurston:

Un caso tragico di possessione di un Guédé accadde vicino a Pont Beaudet. Una donna nota per essere lesbica venne “montata” un pomeriggio. Lo spirito parlò attraverso la sua bocca: “Dite al mio cavallo che ho detto tante volte a questa donna di smettere di fare l’amore con le donne. È una cosa indegna e io sono contrario. Dite al mio cavallo che questa donna mi ha promesso due volte di non fare mai più una cosa del genere, ma ha infranto questa promessa ogni volta che ha trovato una donna adatta al suo scopo. Ma è stata l’ultima volta che ha fatto l’amore con una donna. Dite al mio cavallo di dire a questa donna che oggi la ucciderò. Non mentirà mai più”. La donna saltellò e galoppò come un cavallo verso un grande albero di mango, si arrampicò fino in cima e si buttò rompendosi il collo.

Il fatto che questa scena si trovi subito dopo la rivelazione del significato del titolo del libro sottolinea l’importanza accordata dall’autrice al desiderio omosessuale. Non solo questo passaggio illustra il titolo del libro, ma viene presentato in un momento culminante, verso la fine del racconto. Data la tematica e la posizione narrativa di questa scena, potremmo dire che l’asse del libro è lesbica e che Tell My Horse è incentrato sulla non-eteronormatività. Parlare di lesbismo nel 1938 è rivoluzionario nel campo delle religioni e dell’antropologia dell’Atlantico nero. La morte della lesbica è un cliché letterario dell’epoca e potrebbe essere stato l’unico modo di far passare una simile rappresentazione attraverso la censura. Tuttavia, resta importante notare che è stata l’infedeltà spirituale, non necessariamente l’omofobia, ad aver spinto il lwa a uccidere il suo cavallo.

Anche Karen McCarthy Brown, in Mama Lola, riprende il tema della lesbica tragica nel capitolo Dreams and Promises, dove si rivela che la nonna spirituale di Alourdes è lesbica:

“A Santo Domingo c’era una donna, una manbo. Madame Gilbert si chiamava, e aveva uno spirito forte chiamato Agèou. Lui lavorava, lavorava, lavorava. La gente veniva da tutto il paese per vedere Madame Gilbert e il suo Agèou. Ogni problema – ogni problema! – Agèou lo risolveva.

Ma Agèou si arrabbiò con Madame Gilbert. Lei era… sai… lesbica”, disse Philo, abbassando la voce, “e comprava sempre cose per le donne. Comprava vestiti… profumi… gioielli. Tutti i soldi li spendeva per queste donne. Non dava ad Agèou manco una candela! Pretendeva che lavorasse, ma non gli dava nulla! Un giorno Agèou venne nella testa di Madame Gilbert, ed era così furioso, che le fece tagliare un dito. Lo ha fatto!” Philo sospirò, e, per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare, guardò Rapelle negli occhi. “Quella donna – che stupida!”

La voce di Philo tornò subito alla sua cadenza severa, e gli occhi fissi sulla tazza di tè alle erbe che teneva in mano. “Madame Gilbert non cambiò per niente. Continuò a comprare, comprare per queste donne. Non offriva nulla ad Agèou. Così lui la fece ammalare. Prese la tubercolosi […], cominciò a vomitare sangue. La portarono in ospedale. Alla fine morì – e sai cosa successe?” Rapelle non provò nemmeno a rispondere. “Nessuna di queste donne venne a trovarla in ospedale. Nessuna al funerale. Nessuna”.

Anche qui, è importante notare che la morte della mambo non è causata tanto dall’omofobia in sé, quanto dall’infedeltà, la negligenza nei doveri spirituali e la gelosia che questa porta nel lwa. Niente in questo passaggio fa pensare a una condanna sociale per il desiderio omosessuale. Al contrario, troviamo una menzione aperta di sessualità non-eteronormativa e un lwa che accetta l’amore tra donne fintanto che riescono a mantenere un equilibro tra le loro vite sessuali e spirituali. Tuttavia, il fatto che le narrative sull’amore tra donne siano permesse solo se la storia finisce in tragedia e morte resta problematico e indicativo della forza dell’eteropatriarcato nella vita culturale haitiana.

Allo stesso modo, Alourdes perde un bambino a causa delle violenze fisiche del marito, che interpreta l’affetto verso la donna di servizio come un desiderio sessuale della moglie verso di lei. Più che una condanna del lesbismo, quello che abbiamo qui sembra più la descrizione dell’affronto al patriarcato che un simile legame tra donne rappresenta. La lesbica tragica, in questo canone letterario, non è un racconto morale nel quale l’eterosessualità riproduttiva si afferma come vittoriosa o virtuosa. Semmai, è il potere presente nell’omosocialità femminile e nel desiderio tra donne a essere la forza che mariti e dèi cercano di incanalare a ogni costo a proprio favore. Il fatto che la tragedia in questi racconti sia incoerente con la storia nel suo complesso fa pensare che il lato tragico sia una sorta di avvertimento poco sincero, una ritrattazione forzata dovuta alle convenzioni discorsive.

Le due Erzulie: Freda e Dantor

Spinte da un impeto femminista, le etnografe autrici di questo canone si concentrano sul lwa femminile per eccellenza, Erzulie, le cui incarnazioni principali, Erzulie Freda ed Erzulie Dantor, illustrano rispettivamente i percorsi della sensualità e della maternità. Come l’olio e l’aceto, questi due aspetti della femminilità restano separati nella visione Vodou, forse non tanto per adattarsi quanto per confrontarsi con le aspettative patriarcali verso le donne nella cultura popolare haitiana. Perché Freda possa rimanere sessualmente disponibile, deve rimanere senza figli, ma come si fa con i risultati di tanta copulazione? Freda consegna la sua piccola Anaïs a sua sorella materna Dantor, che si occupa di lei come se fosse sua. Si potrebbe pensare che lo scopo di questa doppia manifestazione di Erzulie sia supportare l’eteropatriarcato riproduttivo, impedendo la rappresentazione di identità femminili più complesse, ma queste scrittrici dimostrano che sovradeterminare la sua immagine divina apre potenti capacità queer. Deren chiarisce il desiderio eterosessuale che emana da Erzulie: “Fra tutti gli dèi, Maitresse Erzulie, nei suoi vari aspetti e personificazioni, è la divinità che richiede più sovente questo genere di matrimonio con gli uomini che la servono”. Hurston precisa che, nonostante questa inclinazione eterosessuale, Freda si intromette e sabota le coppie di sesso opposto. Puntualizza che sceglie “per sé uomini giovani e belli, impedendone il matrimonio”, e quando sono già sposati “si getta tra la donna e la sua felicità”. Dunham ci ricorda che chiunque può sposare Erzulie, anche le donne: “Una volta che si sposa Erzulie, non c’è mistero della vita o dell’amore che resti tale e uomini, donne o bambini possono essere scelti dalla dea dell’amore”. È chiaro che queste donne si troverebbero in matrimoni omosessuali, trasgredendo almeno simbolicamente l’eterosessualità. Inoltre, Hurston ci dice che le poche donne devote a Freda sono già fuori dal sistema riproduttivo eteropatriarcale: “Le donne non le offrono da mangiare a meno che siano tendenti all’ermafroditismo, anziane vedove o che hanno abbandonato la speranza di trovare un partner”. McCarthy Brown riporta la speculazione diffusa tra le persone devote che Erzulie Dantor sia in realtà un’amante delle donne:

Dantò è […] una parte frequente nei matrimoni con i vivan-yo (vivi) […] Quando si spettegola, la gente nella comunità di Alourdes ammette che alcuni di questi matrimoni sono con donne. Emerge così il ritratto di una donna indipendente, fertile, con una sessualità non convenzionale che, sotto diversi aspetti, sfida l’autorità della famiglia patriarcale.

A complicare ulteriormente le voci sulla tendenza di Erzulie verso le donne, McCarthy Brown riporta i racconti popolari che dicono che Ti-Jan Petwo non sia solo suo figlio ma anche suo amante. Con questa caratterizzazione come madevinez – la parola del kreyòl haitiano per le donne attratte dalle donne – e la presentazione come pedofila incestuosa, lo status di Dantor come divinità non-eteronormativa diventa evidente.

Raccontare la possessione

Ciò che spiega queste identificazioni cross-gender e i desideri omosessuali, anche quando sono nascosti dietro il codice o la tragedia, è la rappresentazione transcorporea del corpo nel Vodou, nel quale l’aspetto immateriale del sé, il gwobonanj, può essere sostituito dal lwa durante la possessione in trance. Le descrizioni di queste espulsioni e sostituzioni del sé durante l’esperienza della possessione girano, nei testi che stiamo esaminando, intorno ai concetti di cavalcare, perdita, viaggio, resa, annegamento, estasi e rapimento. Il ritirarsi dell’ego conseguente alla possessione è un’esperienza ambita, che acquisisce connotazioni sessuali in molte di queste metafore. Il fatto stesso che queste possessioni siano presentate come forme di accoppiamento sacro dell’umano col divino le rende non-eteronormative, e per questo capaci di generare una politica radicale di alterità.

Molte di queste etnografie Vodou cominciano con la spiegazione della metafora del cavallo e del cavaliere per la possessione, passando nei capitoli centrali attraverso un viaggio iniziatico e terminando con la possessione piena o quasi piena dell’autrice da parte del lwa. Come il titolo suggerisce, Maya Deren descrive l’iniziato come un cavallo che si arrende al lwa che lo vuole cavalcare: “La metafora è tratta dal cavallo e il suo cavaliere e le azioni e gli eventi che ne risultano sono l’espressione della volontà di chi cavalca”. Anche il titolo di Zora Neale Hurston è evocativo di questa metafora. Hurston fornisce una spiegazione del titolo verso la fine del viaggio, per chiudere la cornice narrativa, raccontando come la comunità debba riferire all’iniziato posseduto le parole che il lwa ha pronunciato riguardo a lui o lei: “‘Parlay Cheval Ou’ [in inglese Tell My Horse, N.d.T.], [è il segnale che] il loa comincia a dare ordini attraverso la bocca del cavallo”. È significativo che tutte le etnografe abbiano scelto questa metafora come modalità fondante per intendere l’incarnazione e la possessione, ed è quindi giusto che una lettura critica femminista di questi studi sul Vodou riveli il genere dell’equino come femminile attraverso la figura della cavalla nel titolo di questo capitolo. La concavità della sella, la qualità recipiente del cavallo e la sinergia tra esso e chi lo cavalca evocano una ricettività distintamente femminile e disseminata di connotazioni sessuali, che presentano la trance come unione mistica e presagiscono l’immagine importante della femme cheval.

In modo simile, Mimerose Beaubrun descrive la possessione come uno stato di sonno e sogno, metafora che impiega a partire dallo stesso titolo Nan Dòmi – letteralmente “Nel sonno”. Beaubrun scrive di sentire gli occhi pesanti, di ballare senza controllo cosciente e cadere in un sonno profondo ma senza addormentarsi. Racconta che le sue braccia e le gambe oscillavano senza controllo, mentre tutto intorno a lei diventava giallo scuro e poi bianco. Usando il linguaggio della perdita dei sensi, si ritrova a ballare senza sapere come fermarsi. Vivendo qualcosa di simile a un sogno lucido, Beaubrun si sente assonnata ma sveglia e non riesce a parlare. Paradossalmente, il sogno implica la chiusura delle palpebre, ed è solo in questo stato che si acquisisce la visione cercata: “Entrare in Nan dòmi è avere la capacità di vedere ciò che gli altri non percepiscono”. Anche Maya Deren evoca il sogno come immagine fondante della possessione estatica con la quale culmina il suo racconto:

Come accade certe volte nei sogni, potevo osservare me stessa, notare con piacere l’orlo largo del mio abito bianco svolazzare a ritmo, potevo vedere, come in uno specchio, il mio sorriso che cominciava a addolcirsi, a dilatarsi impercettibilmente in una luce radiosa più bella, certo, di quanto avessi mai visto. Mi voltai, come verso un vicino, per dire “Guarda che bello!”. Vidi, allora, che gli altri si erano allontanati e facevano cerchio a una certa distanza per starmi a guardare, mi resi conto con terrore che colei che guardavo non era più me stessa. Eppure era me stessa, perché in quell’attimo di terrore, ci riunimmo di nuovo, e fummo ricongiunte nel punto della mia gamba sinistra radicata a terra.

In questo passaggio, climax e fine del libro, Deren descrive la sua trance con le immagini del sogno, per restituire un’idea del suo sé che si raddoppia e rifrange mentre sperimenta un senso profondo di spersonalizzazione prima dell’uscita temporanea del suo ego. Evocando alcuni grandi mistici della cristianità – Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce – Deren presenta questa unione col divino come un’estasi. Questo sentimento orgasmico si ritrova in Beaubrun quando afferma: “provavo piacere in quello stato tra due acque: profondamente addormentata e pienamente cosciente di me”. Seguendo questa linea, leggo l’unione mistica di Deren con Erzulie come omoerotica:

L’oscurità bianca si muoveva lungo le vene della mia gamba sinistra, come una rapida marea che saliva, saliva; era una grande forza che non potevo sostenere né contenere, che, certamente, avrebbe spezzato il mio corpo. Era troppo per me, troppo splendente, troppo bianca per me; ed era questa la sua oscurità. “Pietà!”, gridai fra me. Sentii quel grido riecheggiato da mille voci, acute e irreali: “Erzulie!”. L’oscurità bianca inondava tutto il mio corpo, giunse alla testa, mi sommerse. Fui risucchiata giù ed esplosi, di colpo, verso l’alto. Fu tutto.

Come in questa estesa citazione di Deren, le persone devote che sperimentano la trance sentono spesso un’ondata di energia salire attraverso i loro corpi. Quando questa forza raggiunge la testa, sentono un senso di annegamento e perdono i sensi. McCarthy Brown conferma la natura diffusa di questa esperienza quando racconta la descrizione di Alourdes di cosa si prova entrando in trance:

Quando gli spiriti vengono nella tua testa, ti senti leggera, leggera come un pezzo di carta… leggera nella testa. Ti senti la testa stordita. Poi dopo svieni. Ma lo spirito arriva, e parla con la gente, e guarda il tavolo che hai preparato in suo onore… sai, no?… e poi se ne va… e tu ritorni da molto, molto, molto lontano. Ma quando lo spirito è nel tuo corpo, nella testa, non sai nulla. Devono dirti cosa ha detto lo spirito, che messaggio ha lasciato per te.

Raccontando la sua prima possessione, Maggie, la figlia di Alourdes, riflette l’enfasi posta da sua madre e da Deren sulla testa prima di cedere il corpo ai lwa: “Sono diventata Miss Invisibile – La Donna Invisibile!… Non sento i piedi… Non sento le braccia… Non sento più il corpo, e non posso farci nulla… Quando arriva alla testa, è fatta! Tutto nero, e non so più nulla. Nulla!”. È importante notare in entrambe le esperienze citate, come altre raccontate in Mama Lola, il linguaggio della perdita corporale, di piedi che non toccano terra, di acqua che scorre sul corpo, di pressione alta e un senso di galleggiamento. Ciò che viene dalla trance è sempre sentito dalla persona iniziata come uno stato di incoscienza seguito da amnesia. L’esperienza di ritorno dal viaggio, quando il lwa se ne va, si trova anche in Beaubrun quando dice “la trance che fa viaggiare verso terre lontane, ma in uno stato cosciente, è la trance dell’estasi” nella quale “i viaggi sembrano sogni, ma sogni vissuti da sveglie”. L’esperienza della possessione in trance è così comune nelle etnografie femminili Vodou che quattro su cinque la vivono in prima persona e la includono come scena cardine e culmine dei loro racconti. Solo Katherine Dunham resta delusa per non essere andata in trance per il suo lwa Dambala: “Dopo il mio matrimonio con Dambala ho desiderato tanto un indizio, un accenno di ‘possessione’”. Dunham non ha mai formalmente provato la possessione, ma i ballerini della sua compagnia andavano spesso in trance durante le prove a New York, e fu lei a dover insegnare loro come mantenere il controllo dei corpi durante le coreografie basate sulle danze rituali. Eppure, anche in questo racconto l’autrice include, come sostituto, la descrizione dell’esperienza della sua amica Julie posseduta da Dambala:

Pancia a terra, mani strette dietro la schiena, avanzava; sorridendo e muovendosi sinuosamente, veniva verso le offerte. Il corpo si scuoteva, il collo si allungò, la lingua sibilava rapidamente dentro e fuori tra le labbra aperte, e il suono del sonaglio, tipico del dio serpente, riempì la tenda improvvisata.

Qui l’autrice ci ricorda che, a chi non ha vissuto l’esperienza in prima persona, resta il piacere indiretto del guardare.

Una visione d’insieme del campo dell’antropologia Vodou rivela una precisa linea di inchiesta caratterizzata da resoconti scritti da donne, nella quale le studiose si integrano pienamente come iniziate nelle comunità devote. Queste autrici hanno colto la peculiare natura transcorporea del corpo nel Vodou, nel quale il gwobonanj può essere temporaneamente sostituito dal lwa aprendo alla possibilità di includere identificazioni cross-gender, associazioni non-eteronormative e desideri queer nei loro racconti. Il viaggio iniziatico culmina nella possessione estatica descritta nelle ultime pagine. In questo modo, le etnografie diventano la tangibile corporeità testuale delle autrici, facendo di chi legge un soggetto divino, facendosi strada dai piedi fino alla corona, dall’introduzione alla conclusione, fino alla sintesi finale, la chiusura del libro, l’oscurità, la beatitudine post-egoica che si gode prima di sentire le rivelazioni – le recensioni e le analisi critiche – che i lettori divini, come cavalieri, porteranno sicuramente ai loro cavalli sognanti.


Roberto Strongman è professore di Black Studies presso l’Università di Santa Barbara, in California. Si occupa principalmente di Comparative Caribbean Cultural Studies, nei quali adotta un’ottica interdisciplinare che unisce religione, storia e sessualità. Inoltre, il suo lavoro si basa su un approccio transnazionale e multilingue – comprendendo tutte quelle esistenti e parlate nei Caraibi – che ha origine nella Créolité, un movimento accademico nato in Martinica, dove Strongman è stato dissertation fellow. Divinità queer è il suo primo libro, con il quale è stato fi nalista al Lambda Literary LGBTQ Studies Award.

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