Le figure femminili dei tarocchi, spiegate attraverso la poesia, la musica e la letteratura.
In copertina: La Forza (mazzo Rider Waite)
Le donne carine si chiedono quali siano le mie armi segrete./ Non sono graziosa né ho una taglia da modella/ Ma quando provo a dirglielo,/ Credono che io menta./ Dico,/ È l’ampiezza delle mie braccia,/ La larghezza dei miei fianchi,/La falcata del mio passo,/ La curva delle mie labbra./ (…) Anche gli uomini si chiedono/ Cosa vedono in me./ Ci provano davvero/Ma non riescono a toccare/ Il mio profondo mistero./ (…) Ora capirete/ perché non chino la testa./ Non urlo né strepito/Non alzo la voce./ Quando mi vedete passare,/Dovreste sentirvi fiere./ Dico,/ È il rumore dei miei tacchi,/ La piega dei miei capelli,/Il palmo della mia mano,/Il bisogno delle mie attenzioni./ Perché sono una donna/ Straordinariamente./Una donna straordinaria,/quella sono io.
Sono versi di Maya Angelou, scrittrice e portavoce della cultura afro-americana che ben si addicono all’articolo che segue, dedicato al potere femminile negli Arcani maggiori dei Tarocchi. In queste parole sembrano parlare all’unisono la Sacerdotessa, sapiente e distaccata, l’Imperatrice, munifica e inventiva, la Forza, decisa e altera, e la Stella che trasforma l’ordinario nella meraviglia. In tutte loro si manifestano figure archetipiche, ma sono anche donne reali, che possiamo incontrare nella vita di tutti i giorni.
Quella donna sul marciapiede, per esempio, che suona un barattolo di spiccioli – ha la pelle segnata dalle rughe, ciocche grigie: non è forse una Sacerdotessa, al di là della soglia dei camminanti? O l’infermiera che rianima e accoglie, senza che la sua vita trapassi nei vostri dolori non è la Forza sulla porta dell’ospedale? O l’altra, sempre di fretta, che esce dal bosco con una cesta di funghi, si ferma dai vicini per condividere, non sarà forse un’Imperatrice in scarponcini e felpa? O la bambina che vi saluta sporgendosi dal passeggino come se foste un’antica conoscenza, a chi altri assomiglia se non alla Stella? Occhi aperti dunque, per riconoscerle, perché di fatto nascono dall’esperienza di chi per prime le ha immaginate.

Partiamo con la Sacerdotessa, il secondo Arcano, nota come Papessa nelle versioni rinascimentali. È esistito mai un papa donna? La leggenda medievale racconta di Giovanna, salita al trono quale Papa Giovanni VIII nel nono secolo, e si dice sia proprio lei ad apparire nei tarocchi Visconti-Sforza, circa sei secoli dopo. Per quanto possa essere stimolante la sfida all’autorità patriarcale suggerita dal personaggio, tuttavia non è su questo piano di potere che incontriamo la Sacerdotessa, colei che intuisce il sacro, lo vede. Andando indietro all’immaginario cristiano delle origini e ai testi ebraici della Bibbia, la Sacerdotessa sembra piuttosto parente stretta di Debora, una dei Giudici nel libro omonimo, profetessa che siede sotto una palma e giudica gli israeliti secondo la volontà divina. O l’anziana Anna nel Vangelo di Luca, che loda il dodicenne Gesù al suo ingresso nel tempio, indicando in lui il redentore. Restando poi nell’ambito delle veggenti, non si può non pensare alla Pizia delfica e alla caverna fra i cui fumi la donna vaticina, o alle Sibille dell’antichità greco-romana, che consacrano spirito e corpo alla legge cosmica. La più cara e celebrata è senz’altro la Sibilla Cumana, personaggio nelle Metamorfosi di Ovidio, destinata a invecchiare lungamente, rimpicciolendosi fino a restare la voce che i “fati le lasceranno”. E soprattutto guida di Enea agli inferi: nell’opera virgiliana infatti la Sibilla lascia il suo antro, per recarsi con l’eroe nel regno delle ombre. È questa sibilla che ci interessa, “vecchia”, “vergine” e “orrenda”, che conosce la via per l’Averno e scrive i fati sulle foglie, materia precaria che il vento può sollevare e disperdere. Scrive il più grande allievo del poeta latino, Dante, nell’ultimo Canto del Paradiso:
Così la neve al sol si dissigilla;
così al vento ne le foglie levi
-->si perdea la sentenza di Sibilla

Dunque la qualità della Sacerdotessa/Sibilla è un sapere intuitivo e primitivo, che può svanire o restare al di là della comprensione, come accade con certi sogni che lasciano il senso di una rivelazione, ma si fanno nebulosi al mattino.
Seduta fra le colonne del tempio ha le tre fasi della luna sul capo, ai piedi una polla d’acqua in cui si scioglie la veste, che segna il confine fra il quotidiano e il paese dello spirito. Così la vediamo nei tarocchi Rider Waite Smith, «detentrice di un mistero personale», scrive Benebell Wen nel suo The Holistic Tarot, in relazione però con il mistero della natura tutta, espresso dalla Luna, sua controparte fra gli Arcani astrali. La Sacerdotessa è l’antenata irraggiungibile, muta, oppure enigmatica, portatrice di un linguaggio oscuro. Ha il potere dell’acqua, dove tutto fluisce indistinto, dove le cose si preparano a essere senza emergere intere, ma anche dove le cose si dissolvono, infine.
Passa parola nel sottosuolo, dove l’acqua scorre,
chiara, pura, nera,
recitano dei versi di Muriel Rukeyser, che perfettamente incanalano la forza dell’Arcano.
La vediamo, nel Mary El Tarot, inquietante e senza volto come già lo erano il Folle e il Mago in questo mazzo: figure primordiali, non ancora umane. La nostra Sacerdotessa è gravida, con un ventre percorso di simboli, e sospesa sul mare notturno da cui si solleva, collegata a forze ctonie da liane di piante acquatiche (forse mangrovie). Sembra possedere quattro seni, ricordando in questa molteplicità la lunare Artemide Efesia, le cui infinite mammelle mancano, significativamente di capezzoli.
Piena di sé, di forza, di mistero, di verità – non può partorire o allattare. È tutta la vita, prima del suo divenire. È un oracolo, non una madre. È, in una dimensione più popolare, la fiabesca Isobel di una canzone di Bjork:
Mi chiamo Isobel
sposata a me stessa
Il mio amore Isobel
Che vive con se stessa.

Per calarsi nel mondo la Sacerdotessa ha bisogno di trasformarsi nell’Imperatrice, «pervasiva! come «l’energia della natura, la devozione materna, la sessualità», scrive Rachel Pollack. L’Imperatrice è in effetti il primo Arcano intriso di umanità: ci sguazza dentro, la nutre, ne è causa. È, per restare al mito greco, la Demetra che fa germogliare la terra, ma quando le viene sottratta la figlia Persefone dal dio degli inferi, minaccia devastazione e carestia. Come Demetra ha in sé il lavoro (artistico, creativo) che trae da ogni materia una forma e un nutrimento e come lei sa negarsi se ferita, invece che coltivata. Tale è l’amore dell’Imperatrice – aperto e particolare insieme. Lei è ovunque con il suo estro, le sue prospettive audaci sul vivente, perché ovunque riconosce un vivente, ma una simile prodigalità può rovesciarsi in eccessiva stranezza, un sentire totale, che sia d’odio o devozione. Quale intelligenza che genera l’Imperatrice sa farsi crudele e spietata, laddove veda minacciato quello che protegge e incarna. Se la Sacerdotessa conosce e indica una via, l’Imperatrice accudisce, inventa, trascina. La nutrice, la madre, la donna verde da cui si diramano radici e foglie, come viene rappresentata nel Wildwood Tarot; ma perfino, inevitabilmente, la sua controparte – matrigna e strega. Sta a lei decidere se il suo potere farà crescere cose oscure, una fitta trama di rovi e rabbia, o una radura di alberi da frutto e fiori… o entrambi. Perché in realtà non esiste bosco senza rovo da cui occhieggiano nere e piene bacche di mora. Ogni volta che ci accingiamo a qualcosa di nuovo, lei sussurra all’orecchio, Musa pronta a elargire i suoi doni, che a volte diventano incontrollabili. Perché se l’Imperatrice è ricca di immaginazione, talvolta fatica a controllarsi e la sua pervasività diviene caos. L’Imperatrice-Strega si muove nei versi di una poesia famosissima di Anne Sexton, Her Kind (Come lei):
Ho trovato le caverne accoglienti nei boschi
le ho riempite di padelle, intagli, scaffali,
armadi, sete e innumerevoli oggetti;
ho preparato cene per vermi e folletti:
lamentandomi, riallineando gli spostati.
Una donna del genere è fraintesa.
Sono stata come lei.
È una strega che rompe le convenzioni: provoca la vita, non è assoggettata a nessun signore delle tenebre, dispensa e toglie e non dimentica mai i figli. Guadagnare la sua benevolenza è garantirsi una protezione longeva. Di fatto la sua magia, stregheria, arte proviene dalla sua capacità di stare nelle cose terrene. Così il Wild Unknown Tarot sceglie per l’Imperatrice un albero in fiore, illuminato da una luce interna, rosata, la chioma scomposta e carica, la natura stagionale e ciclica. L’Imperatrice allunga radici, stupisce nei suoi colori, accetta di morire e rinascere. Nel suo potere femminile si ritrova il sentimento primitivo dell’affetto che di nuovo, come nel caso della dea Demetra, sa superare le barriere fra i mondi e allungarsi in una preghiera sui vivi e sui morti. Ancora le parole di una poetessa, italiana stavolta, Antonella Anedda:
Nel vecchio paesaggio c’era il fiume
dove le donne andavano a lavare.
Stendendo le lenzuola sulle pietre
raccontavano di come le ombre delle madri
scendessero a turno
dalla rupe solo per asciugare
le lacrime che continuavano a colare.
Le lacrime sono il dolore, la consolazione e l’accoglienza attraverso di essi, che si apre nel grembo dell’Imperatrice.
Imperatrice e Sacerdotessa sono figure del nostro primo apprendimento e precorrono, insieme (ai corrispettivi maschili di Imperatore e Sacerdote e agli Amanti), il Carro, settimo Arcano simbolo dell’ambizione, matura abbastanza per spingersi oltre i confini del noto, mettersi in viaggio. È non appena saliamo sul Carro che un’altra donna dei tarocchi si presenta sul cammino. È mite, ha un infinito sulla testa ed è impegnata in un’attività singolare: tenere aperte, senza sforzo, le fauci di un leone. Ecco la Forza, una delle quattro virtù cardinali, quale la si incontra nel mazzo classico Rider Waite Smith. Nel Medioevo le virtù servivano ad affrancarsi dalle illusioni della carne, in un percorso di innalzamento spirituale. Superficialmente il leone simboleggia la passionalità, il desiderio istintivo, ma sotto altra luce è lui stesso un simbolo cristico: secondo l’Apocalisse giovannea Cristo è sia il leone che guida la tribù di Giuda, che l’agnello sacrificale, in una perfetta congiunzione alchemica di opposti. Da dove altrimenti verrebbe il grande leone Aslan, nobile e pronto al sacrificio di sé, personaggio centrale dei libri di Narnia di C.S. Lewis?
La Forza non è avversaria della bestia, non la soggioga né tantomeno la reprime: è in comunione con l’animale, con l’anima o il sé invisibile, se preferiamo, che precede la parola. Nei mazzi moderni troviamo altre fiere accanto alla donna – un cinghiale nell’irlandese Druidcraft, un lupo nell’Hidden Realm – in tutti non vi è violenza: l’animale e la figura umana stanno dalla stessa parte.
Lo confesso, la Forza è probabilmente la mia carta preferita, quella che mi conforta a ogni sua apparizione. Certo, per il suo significato di resilienza e coraggio, ma un coraggio distinto dalla sopraffazione, che stabilisce uguaglianze, guardando l’altro per quello che è – un nostro simile, fragile, mortale, che sia umano o leone. A un secondo pensiero è l’immagine stessa che mi suggerisce il perché di questa affezione: il rapporto con l’animale, in cui stanno tutti i miei animali, domestici, amati, sognati, lasciati andare. La Forza, ben prima che una virtù, è l’ancestrale Signora delle Bestie, la Potnia Theron che nell’Iliade di Omero diviene attributo di Artemide dei boschi, la donna selvaggia che regna tra valli e alture, fiumi e steppe, perfino nel fondo dell’oceano. Riconduce a una forma non umana dell’esistente, che sia la Sedna degli Inuit, Madre delle Foche e degli Animali Marini, o la principessa Mononoke cresciuta con gli spiriti-lupo nell’omonimo capolavoro d’animazione di Hayao Miyazaki. Questa signora incarna la forza non nel suo prevalere sull’altro, ma nel trovarlo.
Penso a un esempio contemporaneo nell’artista canadese Tagaq, di origine Inuit, che ha rinnovato la pratica femminile e tradizionale del canto di gola, Katajjaq, esibendosi in solitaria invece che con una partner. Il risultato è un canto che si fa ruggito, spasimo, voce ferale, ritmo e battito di creature, prede e predatori, simili in questa landa di tutti e di nessuno. Il canto di Tagaq è quello di una Signora delle Bestie che ci richiama a una precisa responsabilità, mentre evoca la forza della natura nel suo resistere all’umano. Ci richiama, dalle ferite della terra, a riconoscere che è il nostro corpo quello che sanguina. Cos’altro è il coraggio, se non la via della verità?
Di questa forma umana
a cui sono nata
ora mi pento,
dicono alcuni versi di Caribou, canzone storica dei Pixies, rifatta da Tagaq stessa. La Forza ci indica la via della fratellanza oltre la specie. E anche l’orgoglio di questo stato nuovo dell’essere, primordiale e consapevole. Un’artista di diversa provenienza, l’inglese Carolyn Hillyer (musicista, artigiana, pittrice, performer e molto altro), enfatizza questo aspetto in Jaguar, canzone di sorellanza e alterità, ritmata dal tamburo sciamanico:
Lei è una dea fiera e crudele
dall’occhio rosso sangue
nel suo ventre culla l’universo
la terra stretta fra le cosce
il suo potere serpentino si leva
i suoi denti di giaguaro si affilano
la bestia selvaggia batte il tamburo
nel suo cuore di giungla.
La carta della Forza è la nostra prima vera alleata nel viaggio dei tarocchi. Con lei al fianco potremo affrontare gli arcani che seguono, che complicano e inquietano il cammino – la Morte, il Diavolo, la Torre. Essa ci dà il ritmo per giungere a quella verità che risplende nel diciassettesimo Arcano, La Stella.

In un racconto fantastico di E.M. Forster, The Machine Stops, l’umanità sopravvive nel sottosuolo grazie a un’avanzata tecnologia. Tuttavia un ragazzo, Kuno, non ci sta, ha sete di sapere cosa c’è là fuori, oltre le paure e le regole tra cui è cresciuto. Si avventura verso l’alto per trovarsi sotto alla volta stellata, sentendo che “un uomo uguale a lui viveva nel cielo”.
Cosa c’è nelle stelle, algide, appena percepibili, perfino morte lassù nelle galassie, che le rende così prossime, struggenti, così amate? Lasciamo questa domanda aperta, respiriamo. Scrive Rachel Pollack che se, nel suo crollo “La Torre ci libera con le sue rivelazioni, la Stella ci restituisce a noi stessi”. Stella Polare che brilla sicura sulle destinazioni; astro che sceglie una forma umana, antica Regina del Cielo che si spoglia e discende per comprendere il dolore dei viventi, si china sulla riva del fiume, compie un gesto comune e assurdo: versa una brocca d’acqua nel torrente, e un’altra sul terreno, che nel Druidcraft Tarot è esplicitamente roccia – intatta e sterile. La Stella può farlo perché non è altri che la speranza, capace di creare un solco nell’impossibile e farlo sbocciare. Lei è la fiducia che vi sia una riva da dire nostra e che sia qui, dove siamo, dove impariamo a essere e desiderare. È Elpis, dea minore dei greci in attesa sul fondo del vaso di Pandora da cui fuoriescono i demoni della disperazione e del male disperdendosi tra le genti. Rimasta ultima vaga per il mondo – quando tutto sembra perduto, riaccende le vite, guarisce. Personifica non la madre, ma la figlia, il ricordo di un futuro che nasce attraverso ogni sorte. Incarna quelle stelle che in un verso di Marina Cvetaeva di casa in casa peregrinano umili e ammantate di splendore notturno. Sono le stelle che Dante scorge a fine di ogni cantica: dopo i tormenti infernali, alleggeriscono il cuore; nel Purgatorio illuminano il fiume Eunoè e la memoria del bene che in esso scorre così che si possa salire al Paradiso, dove hanno l’ultima parola, mosse dall’amore universale – divine, distanti, leggere, umane.
che bel modo di iniziare questa giornata invernale, quasi la più breve dell’anno — dopo, con calma, rileggo il pezzo, ma nel frattempo mi ha reso più profonda la luce del giorno.
grazie,
Brenda
Mi hai incantata!