Due uomini adulti – un professore americano e un anziano Ojibwa – che discorrono in merito a delle pietre svela questioni fondamentali circa il mondo in cui viviamo, sul come lo abitiamo e sul dove, in esso, ci collochiamo.
IN COPERTINA: Edoardo LAndi, Struttura Visiva (1962), Asta Pananti online
Questo testo è estratto da “Antropologia” di Tim Ingold. Ringraziamo Meltemi per la gentile concessione.
di Tim Ingold
Nel 1930 Alfred Irving Hallowell, uno dei maggiori e illuminati antropologi del Ventesimo secolo, stava lavorando con il popolo anishinaabe o ojibwa, cacciatori di pellicce originari del Canada centro-settentrionale. Là aveva stretto una profonda amicizia con William Berens, capo degli Anishinaabe del Fiume Berens. Berens era un uomo di grande saggezza e intelletto, istruito dai suoi stessi anziani e da un’esistenza votata all’attenzione per il mondo che lo circondava, compresi animali, piante e in particolare le pietre. Dal resoconto di Hallowell, le sue discussioni con Berens influenzarono profondamente il suo pensiero di antropologo.
In una di queste discussioni, tornando a parlare del tema delle pietre e stimolato dal fatto che nella grammatica ojibwa, per come era stata formalizzata dai linguisti, la parola “pietra” sembrava appartenere a una classe solitamente riservata alle entità animate piuttosto che inanimate, Hallowell chiese perplesso: “Dunque tutte le pietre che vediamo qui accanto a noi sono vive?”. Dopo una lunga riflessione, Berens rispose in questo modo: “No! Ma alcune lo sono”. La risposta, ricorda Hallowell, lasciò in lui un impatto indelebile. Ma non era sicuro di cosa farsene.
Come si può seriamente pensare che una cosa inerte come una pietra possa essere viva? E perché, ammesso che alcune possano esserlo, ciò non vale per tutte? Un modo di affrontare questi quesiti potrebbe essere quello di supporre che gli atteggiamenti assunti dalle persone nei confronti delle cose possano essere di due tipi. Esiste un comportamento pratico dettato dal buon senso, tipico della vita di tutti i giorni, e un’attitudine mentale carica di fede e ideologia, riservata a occasioni di natura rituale o cerimoniale, intrise di associazioni simboliche. In un trattato sui rudimenti della religione pubblicato per la prima volta nel 1912, Émile Durkheim, fondatore delle discipline sociologiche in Francia, chiamò questi due atteggiamenti, rispettivamente, profano e sacro. Prendiamo i tavoli, per esempio. Di solito pensiamo a essi come a oggetti inanimati, ma se il tavolo è per caso un altare all’interno di una cerimonia religiosa, potremmo attribuirgli poteri straordinari, come se irradiasse vitalità spirituale. Potrebbe essere lo stesso per gli Ojibwa e le loro pietre? Dovrebbe essere ovvio per loro come per chiunque altro che le pietre, incontrate normalmente nell’ambiente naturale, siano inanimate. Tuttavia alcune pietre, in determinate occasioni, potrebbero risultare sacralizzate, apparendo a chi le tratta come se fossero investite di una sorta di aura o forza vitale. È questo che intendeva dire Berens quando affermava che alcune pietre erano vive? La sua dichiarazione potrebbe essere presa quindi come prova di un atteggiamento rituale, che porta collettivamente le persone a illudersi che ciò che nella vita quotidiana rappresentano in modo fantastico sia invece la realtà?
Nella nostra epoca secolarizzata è fin troppo facile sminuire come mero rituale ciò che gli altri dicono e fanno, soprattutto quando turba la nostra sensibilità. I nostri ritratti di culture esotiche tendono a essere spalmati di colori rituali. Ma come già sapeva Hallowell, perseguire questa strada sarebbe stato un insulto all’intelligenza del suo amico. Dalla sua prospettiva non era una dichiarazione dogmatica. Non aveva affermato che le pietre fossero vive punto e basta, come se questa fosse una conclusione scontata, imposta dalla tradizione e a fronte di tutte le prove compensative. Al contrario, Berens arrivò a formulare il suo giudizio solo dopo una lunga riflessione. E allo stesso tempo si sforzava di spiegare a Hallowell che la sua era un’opinione basata su un’esperienza personale. Aveva osservato che alcune pietre potevano muoversi di loro iniziativa, e persino produrre suoni simili a un linguaggio. Noi, naturalmente, che siamo convinti che le pietre non possano fare nulla di simile, potremmo supporre che lo abbia solo immaginato, o sognato. Ma se Berens fosse con noi ora, vorrebbe senza dubbio sapere come, nella nostra filosofia, esperienza e immaginazione possano essere così facilmente distinte. Non facciamo esperienza dei nostri sogni? Il nostro mondo onirico è davvero così diverso da quello della nostra vita da svegli? Per chi tra noi è cresciuto in società in cui l’autorità scientifica risulta essere di primaria importanza, la strada verso la verità si trova separando la realtà dalla fantasia. Ma non potrebbe essere altrimenti? E se la verità trovasse dimora nell’unisono tra esperienza e immaginazione, in un mondo in cui siamo vivi e che è vivo per noi?
Questa non è certamente una verità oggettiva. Ma è una di quelle a cui possiamo essere completamente partecipi, piuttosto che una da cui, in qualità di soggetti pensanti, siamo inclini a escluderci. Come tale, può essere solo provvisoria. Non possiamo mai parlare con certezza del mondo, come se già lo conoscessimo, non perché le nostre ipotesi potrebbero poi rivelarsi false o perché le nostre previsioni potrebbero saltare, come direbbero gli scienziati, ma perché il mondo stesso non si è mai stabilizzato nella sua struttura e composizione. È piuttosto in un continuo divenire, così come accade a noi in quanto parte di esso. Proprio per questo il mondo, che è in perenne trasformazione, è una fonte costante di meraviglia e stupore. Dovremmo viverlo con consapevolezza. Questo è ciò che ci insegna Berens, se solo fossimo disposti a trattare le sue parole con la serietà che meritano. Esse ci portano a mettere in discussione molte cose che altrimenti daremmo per scontate. Cosa rende, nel nostro approccio alla realtà, così evidentemente bizzarra l’idea che le pietre possano muoversi e parlare? Dopo tutto, le pietre vagano, rotolando da pendii ricoperti di ghiaia, mosse dal proprio peso, o trasportate dall’acqua, dal ghiaccio o dalle onde dell’oceano. E producono dei suoni quando vengono colpite l’una contro l’altra o da altre cose. È come se ogni pietra avesse una voce distintiva, come accade per gli esseri umani. Se per discorso intendiamo il modo in cui noi umani abbiamo occasione di far sentire la nostra presenza in modo udibile, allora non si potrebbe dire lo stesso delle pietre che risuonano? In questo senso, anche loro potrebbero parlare.

Prestare attenzione alle cose, osservandone i movimenti e ascoltandone i suoni, è ciò che ci permette di cogliere il mondo in azione, come se stessimo cavalcando la cresta di un’onda sempre sul punto di rottura. Lungi dall’arrivare tardi in un mondo in cui il dado è già stato tratto, risulta necessario essere lì, presenti e vigili, nel momento stesso in cui prende forma. In quel momento l’esperienza e l’immaginazione si fondono e il mondo prende vita. Sfruttando la nostra intuizione rispetto ai flussi che modellano il mondo, noi, come Berens, possiamo testimoniare la vitalità delle cose, comprese le pietre e molto altro ancora. Ma questo significa pensare alla vita in un modo molto diverso da quello immaginato dalla scienza. Non esiste un determinato ingrediente segreto, nascosto nelle cose che si ritiene lo possiedano, a partire dal quale esse vengano messe in moto sul palcoscenico planetario. Si tratta piuttosto di pensare alla vita come a una potenziale circolazione di materiali e correnti di energia, che scorrono nel mondo trasformando le forme in essere, mantenendole al proprio posto per l’arco di tempo assegnato. Non significa quindi che le pietre sono in vita, ma che sono nella vita. In antropologia, questa comprensione dell’essere e del divenire delle cose – questa ontologia, se volete – è conosciuta come animismo. Ritenuto un tempo la più primitiva delle religioni, fondato sull’errata credenza della spiritualità degli oggetti, l’animismo è oggi considerato una poetica della vita in grado di migliorare addirittura l’approccio scientifico nella sua comprensione della pienezza dell’esistenza. Questo è il risultato del prendere gli altri sul serio.
-->Due uomini adulti – un professore americano e un anziano Ojibwa – che discorrono in merito a delle pietre? L’esempio potrebbe sembrare banale, se non assurdo. Ma spero di avervi convinto che la loro conversazione svela questioni fondamentali circa il mondo in cui viviamo, sul come lo abitiamo e sul dove, in esso, ci collochiamo; in altre parole sull’esistenza stessa. Naturalmente è solo un esempio di innumerevoli dialoghi che gli antropologi hanno affrontato con persone di tutto il pianeta, ognuno dei quali potrebbe potenzialmente lasciare la parola a interrogativi di pari rilevanza. La svolta sulle questioni esistenziali che ha avuto inizio con Hallowell ha da allora acquisito un tale slancio che molti antropologi parlano oggi di “turn ontologico”. Per lo stesso Hallowell, nonostante il suo acume per essere un uomo di quell’epoca, era una svolta troppo radicale. Alla fine, e tragicamente, volse le spalle al suo amico. Il titolo del suo trattato Ontologia, comportamento e visione del mondo degli Ojibwa la dice lunga. In esso, il capo Berens riappare come un anonimo “uomo anziano”, il cui atteggiamento verso le pietre attesta semplicemente una visione comunemente accettata della sua cultura. Non possiamo più permetterci di essere così compiacenti al giorno d’oggi. Perché è diventato evidente, come mai prima d’ora, che le certezze esistenziali su cui è stata fondata l’era moderna hanno portato il mondo sull’orlo del baratro. Dobbiamo forgiare approcci alternativi al problema di come vivere, per provare a sanare la rottura tra modalità di conoscere il mondo e modi di abitarlo, tra scienza e natura. Questa guarigione è un passo necessario verso un futuro aperto e sostenibile.
Per essere chiari, non sto suggerendo che i cosiddetti “indigeni” come gli Ojibwa, i cui antenati avevano tratto sostentamento dalla terra per millenni prima dell’arrivo dei colonizzatori europei, avessero tutte le risposte corrette rispetto ai quesiti su come vivere. Né sto insinuando che i cosiddetti “occidentali”, i cui antenati si sono resi complici nell’impresa coloniale, le abbiano sbagliate tutte. Nessuno ha le risposte. Ma abbiamo i nostri differenti approcci, basati sull’esperienza personale e su ciò che abbiamo imparato dagli altri, e che vale la pena confrontare. L’antropologia come disciplina si impegna a sostenere il valore di questo esercizio comparativo. Comparare, tuttavia, non significa giustapporre forme prestabilite di pensiero e di pratica, come se fossero già sedimentate nelle menti e nei corpi di persone di questa o quella tradizione. Perché il pensiero non si limita alla mera replicazione del già pensato proprio come la pratica non si limita alla replicazione di ciò che è stato fatto. Ciò che confrontiamo, piuttosto, sono modi di pensare e di agire che continuamente sorpassano ogni limite imposto dalle proprie rotte. Non si tratta di catalogare la diversità delle vite umane, ma far parte della conversazione. È un dialogo, inoltre, in cui tutti coloro che partecipano vengono trasformati. Lo scopo dell’antropologia, in breve, è di fare della vita umana stessa una conversazione. Questa conversazione, questa vita, non è sul mondo. In un senso che continuerò a sviluppare nei prossimi capitoli, è il mondo. È l’unico mondo in cui tutti viviamo.
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