Le religioni sono incompatibili?



La risposta potrebbe essere no, se ci affidiamo più alla mistica che alla teologia: ci sono fili invisibili che uniscono Torah, Avesta, Dhammacakkappavattana e Zohar.

 

In copertina e nel testo, opere di Roberto Aizenberg

 

di Alessio Montagner

 

Moshe rabbenu e Yeshua haMashiach

Il Dio d’Israele, nella Bibbia, ha tanti nomi: ad Abramo si rivela come Shaddai, un termine di significato oscuro; la tradizione sacerdotale preferisce chiamarlo El, o Elohim che è un termine morfologicamente plurale; viene chiamato poi Saboath, il Dio delle Schiere; a Moshe rabbenu (aka Mosè) dice di chiamarsi Ehyeh, Io-Sono (ma anche Io-Sarò). Il suo nome non lo pronuncio e non lo scrivo se non citando la Bibbia, perché è il tetragramma, è haShem (il nome), quel nome che pare derivare da havah (divenire) e che a volte si trova nella forma breve Yah.

Devo dirlo: io credo nel Dio d’Israele. E ultimamente ho capito una cosa molto importante. Ho capito che il Dio d’Israele è Yeshua haMashiach (aka Gesù il Cristo). Perché lo dico? Yah non è sempre stato il Dio unico degli israeliti, inizialmente veneravano più divinità, e pare che Yah fosse concepito come il figlio di El, El che però ad un certo punto diventa uno dei nomi di Yah. La cabala, poi, ci dice che il nome di Dio associato alla Chokhamah, cioè alla Sapienza, è proprio Yah. Un cristiano, uno che crede nel Padre e nel Figlio che sono un unico Dio, e che crede che Yeshua sia il Logos e quindi la Sapienza, non può non essere colpito da ciò. Per lui il tetragramma che guida Israele in tutto l’Antico Testamento è esattamente Yeshua. È Yeshua risorto (sì, già risorto, perché per lui tutto è presente) colui che chiude l’arca di Noach, che appare nel roveto ardente, che guida Israele nel deserto, che dà la legge sulla cima del Sinai.

Qualcuno che magari conosce un po’ le polemiche delle lettere di Paolo mi potrebbe accusare: sei un giudaizzante. Ma io non lo sono. E non sono neppure un ebreo messianico: gli ebrei messianici sono in realtà cristiani evangelici, e tra gli evangelici io mi sono sempre trovato male (quasi tanto quanto tra i pentecostali). Io sono uno che tollera bene battisti, anabattisti, restaurazionisti, avventisti; uno che apprezza molto luterani, presbiteriani, congregazionalisti, valdesi, metodisti; uno che si trova massimamente a suo agio tra anglicani e ortodossi; uno che è in comunione con una chiesa locale che si chiama Chiesa Cattolica, legittima parte della Chiesa universale, uno che può avere tanti peccati ma almeno non quello di non andare a messa tutte le settimane e pregare l’Ufficio tutti i giorni (e uno che, non avendo alcun ruolo istituzionale o mandato canonico, può permettersi di pensare certe cose).

Certo, sono anche uno che ama Israele come la sua anima. Le persone che mi hanno insegnato di più sulla Bibbia sono tutte ebree. Penso per esempio al rav Schmuel Rodal, che è morto da poco, o a Walther Binni, che temo possa essere deluso da certe mie eresie (Walther, se stai leggendo, fermati qui). Aver visto poi la comunità chabad a Venezia, e aver assistito alle loro celebrazioni di shabbat, e aver ascoltato la loro musica, è stata un’esperienza epifanica: avevo visto celebrazioni di decine di religioni, almeno di una dozzina di religioni maggiori, ma solo qui mi è venuto da dire che questo è davvero il popolo di Dio.

Davvero non riesco a sentire contraddizione tra cristianesimo ed ebraismo. Yeshua era ebreo, rispettava la legge di Moshe, vestiva con i tzitzitot (le frange che simboleggiano la legge, vedi Matteo 14 36). San Paolo, secondo le più recenti ricerche storiche, non ha mai smesso di rispettare tutta la legge mosaica, né ha mai inteso dire che il patto con Israele non fosse più valido, ma si limitava solo a dire che i goyim non sono chiamati a questo (sono chiamati, anche i cristiani, al rispetto della legge naturale, non di quella mosaica). Ebraismo e cristianità, in fondo, non sono state religioni divise per secoli! E sia il cristianesimo che il giudaismo odierno sono degli sviluppi legittimi delle tradizioni dell’epoca, e offrono entrambi legittime interpretazioni di stessi testi. Io non faccio sincretismo, ma mi limito a constatare questi fatti.

Quando ho capito queste cose, quando ho capito che l’idea di una divisione netta tra cristianesimo ed ebraismo era cosa del tutto arbitraria, mi sono subito diventate chiare alcune cose in merito al mio rapporto con tutte le altre religioni.

Alcuni dicono: “come fai a credere nella tua religione, quando al mondo ce ne sono altre settemila?” Ma questo per me è uno spaventoso fraintendimento. Io sto dandomi una risposta ad un’unica domanda: “Yeshua/Yah è realmente risorto? Sì” Su tutto il resto, non sto dicendo niente. Sto forse negando che Muhammad sia l’ultimo dei profeti, o che Siddhartha Gautama abbia raggiunto lo stato di Buddha? Non sto negando niente, io, né sto affermando. Non faccio un minestrone, semplicemente procedo domanda per domanda, e non pretendo di rispondere a tutte in un colpo solo. Diverse religioni possono rispondere correttamente a diverse domande senza mai entrare in contrasto.

Il Dio degli ebrei e gli dèi degli edomiti

Kol haNeshama teHallel Yah! HalleluYah!

Tutto ciò che ha la neshama lodi Yah! Lodate Yah! (Tehillim 150 6)

Chi è Yah? Yah è un dio guerriero delle tempeste il cui culto ha probabilmente origine nella zona di Edom, o comunque a sud della regione di Giuda, e poi entrato nel pantheon degli Israeliti al fianco di diverse divinità dei cananei, questa popolazione odiatissima in tutta la Torah (ma dalla quale in realtà gli ebrei hanno origine) che a scuola incontriamo solo tramite i fenici.

L’origine di Yah come dio delle tempeste ha lasciato dei segni visibili nei testi biblici. È per questo che il Dio d’Israele si manifesta sempre in una nube (“…ci furono tuoni, lampi, una nube densa sulla montagna”, Shemot 19 16), e quando si avvicina si scatena il vento (“…Yahvé passò. Ci fu un vento grande e gagliardo, grande davanti a Yahvé, tale da scuotere le montagne e spaccare le pietre”, Melakhim I 19 11). E dato che il vento non si vede, ecco perché si comanda “non farai per te scultura e alcuna immagine, di quello che è in cielo, sopra, di quello che è sulla terra, sotto, di quello che è in acqua” (Shemot 20 4): non nel senso che sia vietato fare qualsiasi opera d’arte figurativa (infatti poco dopo si comanda di realizzare l’Arca dell’Alleanza con due statue di cherubini sopra) ma nel senso che non si può usare alcuna immagine come immagine di Yah!

Anche la neshama di cui si parla nel versetto dei Salmi citato è legata all’immagine del vento: infatti la neshama è il respiro, e generalmente il versetto viene tradotto come “tutto ciò che ha respiro…” Gli ebrei però intendono la neshama come l’anima, un principio vitale divino, e per questo Martini traduce correttamente: “ogni spirito…” Chi si intende? Attenzione… In Bereshit (Genesi) 1 21 si dice “Dio creò [barà] i mostri marini”, che sono animali. In Bereshit 2 7 invece dice: “Dio formò [yatsar] l’uomo”. Perché? Perché non ha ancora ricevuto la neshama, ha modellato il corpo e solo dopo si dice “Yahvé-Elohim… soffiò nelle sue narici un alito di vita [neshama]”. Ma se gli animali sono creati, non solo formati, allora hanno la neshama, lo spirito divino, e respirando lo dimostrano perché soffiano come Yah stesso soffia. A conferma, in Bereshit 7 22 si dice: “ogni essere che ha un alito, uno spirito di vita [neshama]… morì”, ed essendo nel contesto del diluvio si intende anche gli animali. Come il vento soffia su tutte le cose, così Yah ha messo una scintilla divina in tutte le cose, uomini e animali.

Ma come ha fatto tale dio delle tempeste del sud a diventare il Dio creatore di Israele? Questo è uno dei motivi per i quali una leggera maggioranza di studiosi ritiene la figura di Moshe storica: qualcuno deve aver portato il culto a nord, si pensa uno o più commercianti madianiti, keniti nello specifico, provenienti dal Sinai ma che viaggiavano tra l’Egitto e la terra di Canaan, un’ipotesi molto coerente con tutti i dati disponibili e che gli studiosi ricavano proprio da certe affermazioni della Torah su Moshe. Seguendo Finkelstein, la narrativa dello Shemot (Esodo) potrebbe essere il racconto dell’esperienza della cattività Babilonese (a cui è seguito davvero un esodo) proiettato indietro nel tempo su antiche memorie – così attualizzate – di quando il culto di Yah è stato introdotto e l’Egitto aveva un controllo economico e militare sulla zona. E proprio durante la cattività babilonese è andata sviluppandosi l’idea del Dio unico.

Al che, ci chiediamo: se il Dio d’Israele non è autoctono ma è stato lì portato da fuori, da gente di un’altra fede, come possiamo noi discriminare gli altri popoli sulla base della loro religione? Yah non lo fa: come il vento, soffia dove vuole, parla con chi vuole, è Signore perché fa quello che vuole.

Prendiamo Melakhim II (secondo libro dei Re). Naaman è il comandante dell’esercito di Aram. È un arameo, un nemico di Israele. Ed è malato. Una ragazzina ebrea, rapita dagli aramei, gli dice di andare a parlare con un profeta della Samaria. Lui ci va, e il profeta Eliseo gli dice di andarsi a bagnare nel Giordano. Inizialmente è titubante, ma poi ci va, e così Yah lo guarisce. C’erano tanti malati in Israele, eppure Yah guarisce un arameo, un uomo di religione mesopotamica.

Prendiamo Iyyobh, cioè il libro di Giobbe. Tra tutti i personaggi della Bibbia, lui è quello che più spesso chiama Dio Shaddai, il modo in cui lo chiamava Abramo, quindi prima della rivelazione del Sinai, prima della formazione del popolo ebraico. Quando gli muore un figlio, lui si rasa il capo, cosa vietata per gli ebrei. Tutto ciò ci dice che non siamo davanti ad un personaggio ebreo, ma ad un pagano. Eppure Yah dice che “sulla terra non c’è un altro come lui: uomo integro e retto, timorato di Dio e alieno dal male”. Iyyobh rispetta la morale naturale e venera Shaddai con apertura, non fa divisioni dicendo “io prego questo Dio e non quello” ma usa semplicemente un certo nome per rapportarsi col Dio vivente, e ciò è sufficiente affinché Yah lo ami.

Tutto ciò richiede chiaramente la nostra apertura verso le altre fedi, perché se gli israeliti non fossero stati aperti non avrebbero neanche mai creduto in Yah. Yah stesso non discrimina coloro che non lo conoscono, ma li guarisce, riconosce la loro rettitudine morale, stringe con loro un diverso patto basato sulla legge naturale.

Yeshua e Zarathustra

Un idiota, secondo l’etimologia greca, è un privato, cioè una persona senza cariche pubbliche ma, di conseguenza, anche una persona priva di esperienze, uno chiuso nel suo mondo e nella sua cultura. Di sicuro idiota non è Erodoto: nelle sue Storie, uno dei libri più appassionanti mai scritti, ci ha lasciato cinquecento pagine ricche di esperienze di vita e attentissime osservazioni fatte in mezzo a tutte le grandi culture della sua epoca.

Sono tante le informazioni che Erodoto offre sulle religioni. Per esempio è una delle nostre fonti principali su Zalmoxis, dio dei Geti (aka Daci, vedi Storie IV 93-96), la cui mitologia secondo alcuni ricorda da vicino le credenze cristiane (ma, come notato da Mircea Eliade, è invece un caso di parallelomania). Qui però voglio pescare invece da Storie I 131-140. Erodoto ci parla dei persiani e descrive i loro costumi religiosi. Per esempio ci dice: “usano offrire sacrifici a Zeus salendo sulle più alte cime dei monti, e chiamano Zeus tutta la distesa circolare del cielo”. Erodoto cerca sempre di ricondurre le divinità di altre religioni a quelle greche, ma qui il parallelo non funziona molto bene: questo Zeus dovrebbe infatti essere in realtà Ahura Mazda, divinità principale della religione Zoroastriana e che ha creato ben più del cielo.

Cosa sappiamo della religione di Zarathustra (aka Zoroastro)? Ahura Mazda è la divinità suprema, creatore dei sette spiriti benefici, gli Amesha Spenta, e di ogni cosa buona nel mondo. Vi è però anche Angra Mainyu, la divinità negativa coeterna ad Ahura Mazda, creatore di tutto ciò che è male. Per ogni creazione buona di Ahura Mazda, Angra Mainyu riesce a creare un corrispettivo negativo: “io attraverso i due mondi, l’uno fatto da Spenta Manyu, o Spirito Santo e l’altro fatto da Angra Mainyu, lo Spirito del Male” (Yasht 15 43). Solo per una cosa, non essendo abbastanza potente, non ci riesce: l’uomo, che diventa quindi l’ago della bilancia nella guerra celeste tra Bene e Male. Alla fine dei tempi apparirà l’ultimo estremo seguace di Angra Mainyu, Azi Dahaka. Allora una vergine, ingravidata dal seme di Zarathustra, partorirà il Saoshyant che porterà al trionfo di Ahura Mazda e rinnoverà il mondo facendo risorgere i morti: “Sacrifichiamo all’eccelso Hvarenah, la gloria sacerdotale, che è opera di Mazda, che si congiungerà al vittorioso Saoshyant e i suoi ausiliari, quando egli restaurerà il mondo, che da allora in avanti non invecchierà e non morirà mai… quando giungerà la fine, quando la vita e l’immortalità arriveranno, e il mondo sarà restaurato a sua volontà” (Yasht 19 88-89). Alla fine, tutti saranno buttati in un fiume infuocato, e i malvagi ne saranno tormentati, mentre i buoni verranno purificati.

Le somiglianze con l’escatologia ebraica sono fulminanti: vi è l’attesa di un Messia che dovrà portare un mondo nuovo, una risurrezione dei corpi, e pure un giudizio universale con tanto di fiume di fuoco.

Vale la pena chiedersi: davvero i persiani credevano queste cose già prima dei contatti con gli ebrei? È molto difficile rispondere perché la nostra fonte, l’Avesta, già di suo composta in un periodo lunghissimo che sfora nell’epoca volgare, ci è pervenuta solo in copie estremamente tarde (il più antico manoscritto in lingua avestica risale al 1323). Neanche gli storici come Erodoto ci aiutano in questo. Inoltre, bisogna distinguere il zoroastrismo antico dal successivo mazdeismo, e anche se l’attesa messianica e la risurrezione dei morti sono credenze tipiche del mazdeismo è ritenuto improbabile che queste fossero già presenti nel zoroastrismo. Notiamo infatti, nei testi più antichi, delle concezioni diverse da quelle mazdeiste: per esempio non paiono descrivere un dualismo con uno Spirito del Bene e uno del Male, bensì c’è solo Ahura Mazda, mentre angra mainyu è usato come nome comune (anche nella Bibbia si nota qualcosa del genere: non si parla di Satana come individuo ma come nome comune, è “l’avversario”, il satan, ruolo ricoperto da una varietà di entità sia soprannaturali che naturali, sia positive che negative).

Ciò nonostante, anche la Jewish Encyclopedia (una fonte del 1906, ma eccezionalmente buona per la sua epoca) riconosce una probabile influenza del zoroastrismo sull’ebraismo, soprattutto per quel che riguarda l’attesa messianica, il concetto di risurrezione dei corpi, e tutta l’angelologia. Ebrei e persiani sono sempre rimasti in contatto, al termine della cattività babilonese hanno anche convissuto per un breve periodo (i persiani hanno conquistato Babilonia mentre gli ebrei erano lì deportati), e gli ebrei ammiravano a tal punto i persiani come loro liberatori che pure i testi biblici chiamano Ciro messia. Che le due visioni si influenzassero in tale contesto era inevitabile. Doveva anzi esserci coscienza di questa cosa, e la Bibbia ne mostra dei segni.

Il vangelo di Matteo è l’unico che narra l’adorazione dei Magi. Ovviamente questi episodi dell’infanzia non sono storici, sono dei midrashim, dei testi che vogliono illustrare un punto teologico e non narrare le cose come sono avvenute. Ciò non toglie che il teologo è colpito dalla presenza di queste figure, che molto probabilmente volevano indicare dei sacerdoti zoroastriani sul cui ruolo Erodoto ci informa nei passi già citati (secondo Anders Hultgård il mito della stella preannunciante la nascita di un grande re è appunto di origine persiana). L’episodio fa riferimento alla profezia contenuta nel Bemidbar (Numeri). Balak manda a chiamare Balaam, divinatore pagano, affinché maledica Israele. Dio, col quale Balaam parla senza problemi, inizialmente gli dice di non partire. Poi cambia idea e gli dice di andare. Come si incammina, Dio cambia idea di nuovo e manda un angelo detto satan a bloccargli la strada, e quando Balaam inizia a maltrattare l’asina che non vuole andare per la strada bloccata dal satan l’asina si mette a parlare e gli risponde per le rime! Alla fine Dio dà a Balaam la possibilità, invece di maledire Israele, di pronunciare un oracolo: “lo vedo, ma non ora, lo guardo, ma non da vicino: una stella si muove da Giacobbe, si alza uno scettro da Israele; spezza i fianchi di Moab, il cranio di tutti i figli di Set” (Bemidbar 24 17). Dato che la profezia sulla stella era stata pronunciata da Balaam, e questa era conosciuta dai Magi, il Vangelo Arabo dell’Infanzia dice che Balaam era appunto Zarathustra.

Al di là dell’identificazione con Balaam, è affascinante il fatto che l’autore del vangelo di Matteo sembri cosciente che l’attesa messianica fosse una credenza proveniente da un alto paese, o che comunque anche nelle altre religioni vi fosse chi, come gli ebrei, stava attendendo il Messia che finalmente si è manifestato. L’episodio dei Magi ci offre così una nuova immagine di tolleranza verso le altre fedi, e lo stesso diciamo anche di Balaam, che è pagano ma parla con lo stesso Dio e Dio parla con lui e lo fa profetare. Emerge dunque nel testo una visione essenzialmente positiva delle altre religioni: si riconosce in esse la possibilità di fare un’esperienza autentica di Dio e portare conoscenza valida, l’ispirazione non è più un’inaudita novità piovuta dal cielo ma anche una rielaborazione di ciò che ci viene dalle altre fedi, cosa confermata dal fatto che molte dottrine caratteristiche di ebraismo e cristianesimo si sono potute sviluppare proprio solo grazie al contatto con i persiani e la loro teologia.

Il Buddha e il carovaniere

Lo stile di vita ebraico prevede 613 mitzvot (comandamenti) da rispettare in modo esatto. Ho notato che molte di queste regole hanno, storicamente, una base comune, che potrei chiamare etica della santità: “Siate santi, perché santo sono io, Yahvé Dio vostro” (Vayikra 19 2). Santo in ebraico si dice Kadosh, che significa separato, diverso. Dio è totalmente altro rispetto al mondo, e il popolo ebraico deve fare lo stesso: se tutti gli altri popoli dell’epoca praticavano l’omosessualità, loro la vietano, e se tutti gli altri popoli sacrificavano maiali loro si rifiutano di macellarli. Quando Kitagawa – non dico la waifu di My Dress-Up Darling, ma Joseph Kitagawa, professore giapponese di fede cristiana – dice di ammirare la perseveranza dell’apostolo Paolo nella predicazione pur nei suoi mille sbalzi d’umore, si riferisce proprio a questo spirito di santità insito nel popolo ebraico: l’ebreo Paolo, quest’uomo alto un metro e trenta ma dotato di uno spirito di ferro, non ha paura di essere il diverso escluso da tutti, non teme di essere preso per il pazzo del villaggio, ma stringe mascolinamente i denti davanti a ogni persecuzione.

Quando si parla di questa santità, cioè intendo di un rigore morale che porta a essere separati dal mondo, c’è anche un’altra religione che mi colpisce: il buddismo.

Per capire il pensiero buddista dobbiamo prima capire l’etica induista. L’induismo infatti prevede quattro scopi legittimi per la vita. Il primo è il dharma, che può essere considerato un tipo di etica naturale, un vivere secondo natura come direbbe uno stoico. Il secondo è l’artha, la ricchezza e il potere politico. Il terzo è il kama, il piacere legittimo di qualsiasi tipo esso sia. Il quarto è il moksha, la liberazione dal ciclo di morte e reincarnazione che si raggiunge, secondo alcuni, riconoscendo la divinità in sé, l’identità tra sé e il Brahman. Questi quattro scopi sono però in gerarchia: artha e kama sono inferiori a dharma e moksha, e se vanno in contraddizione con gli altri due bisogna rinunciarvi; il moksha poi, in particolare, è lo scopo supremo. Dato questo schema, l’ottica buddista emerge naturalmente ponendo una visione negativa del mondo: per il buddista pressoché tutto è in contraddizione con il moksha, e quindi, per coerenza con tale filosofia, rinuncia a tutti gli altri tre scopi.

Questa visione negativa del mondo è particolarmente chiara nella Dhammacakkappavattana Sutta, il primo sermone del Buddha: “Questa, monaci, è la nobile verità del dolore. La nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che odiamo è dolore, la separazione da ciò che amiamo è dolore, non ottenere ciò che desideriamo è dolore”. E come mai sentiamo così? “Questa, monaci, è la nobile verità sull’origine del dolore. È la sete che porta alla rinascita, vincola all’avidità e alla brama, e ovunque porta all’attaccamento, vale a dire la sete dei piaceri dei sensi, la sete di esistenza e del divenire, e la sete di non-esistenza”. Qual è la soluzione? “Questa, monaci, è la nobile verità della cessazione del dolore. È la completa cessazione della sete, l’abbandono, la rinuncia, la liberazione, il distacco”. Come si raggiunge tale liberazione? Non riconoscendo la divinità in sé (in quanto per il buddista non esiste alcun sé) ma per un’altra via: “questa, monaci, è la nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore. È il Nobile Ottuplice Sentiero, e cioè: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione” (SN 56 11). Dato che qualsiasi azione e anche qualsiasi pensiero fa accumulare karma, l’ideale della vita buddista è l’estremo ascetismo di una calma passiva, una concentrazione diffusa senza azioni e senza pensieri, lo stato del nirvana, l’unico permanente e dotato di originazione indipendente.

Ecco, in questa breve presentazione della visione del mondo buddista (e induista) emergono subito due idee estremamente comuni in tutte le grandi religioni orientali: l’idea della divinità di ogni cosa (cioè la tendenza panteista), e soprattutto l’idea della reincarnazione. Cheondoismo, Hoa Hao, Cao Dai, Tenrikyo, sikhismo, Bahai, giainismo, Shinto sono tutte religioni che includono almeno una di queste idee. Ed è questo che distingue la visione buddista dagli altri esempi di santità: l’etica buddista di distacco dal mondo, puntando alla liberazione dai cicli di reincarnazione, senza tale concetto perde senso. Si potrebbe sostenere che queste due idee sono la chiave di volta della religiosità orientale, mentre sono cose del tutto assenti nelle religioni occidentali, nelle abramitiche in modo particolare, tanto da costituire un contrasto di prospettiva insanabile. Ma è davvero così?

Per gli ebrei chabad anche lo Zohar, il testo base della cabala medievale, è un testo normativo, d’importanza paragonabile al Talmud. Ebbene, in una sezione dello Zohar, da II 94b a 101b, si presenta il tema del Gilgul. Rabbi Yosse racconta a Rabbi Hiyya come tutto il giorno sia stato oppresso da un vecchio carovaniere che gli faceva domande strane invece di parlare dell’unico argomento degno, cioè la Torah. Rabbi Hiyya però è incuriosito, vuole vedere se i discorsi di quel carovaniere sono davvero vuoti come sembrano. I due Rabbi si ritrovano così con il carovaniere, il quale rivela di non essere sempre stato tale, e di seguire i maestri proprio per sentire nuove parole di Torah. Il carovaniere inizia così ad esporre le dottrine mistiche più occulte, fino a dire questo: “Se ne prende un’altra per sé. Quanto sono grandi e sublimi i cicli dell’anima a cui questo versetto allude, giacché tutte le anime sono soggette alla trasmigrazione” Gilgul significa appunto ciclo, ciclo nel senso di trasmigrazione, che è una reincarnazione.

Lo Zohar offre almeno altre due sezioni degne di note. La pagina III 111, a sorpresa, ci rivela come Adamo sia stato condannato a reincarnarsi più e più volte per purificarsi dal peccato primigenio come un panno che deve immergersi più volte in un fiume per diventare pulito: “haKadosh baruchu lo compone con ciò che egli ha mescolato, e lo porta nel ciclo della trasmigrazione, affinché riceva la sua punizione”. Adamo torna in vita prima come Abramo, poi come Isacco, e poi come Giacobbe. La cosa sorprendente è che questi patriarchi sono contemporanei: com’è possibile che Adamo fosse tutti loro? La risposta è che le diverse facoltà dell’anima possono reincarnarsi separatamente, la capacità intellettuale può essere in un corpo e l’emotività in un altro. La sezione da III 273a a 274a rivela invece come Mosè, pur non avendo colpe, si reincarni ad ogni generazione, in modo da continuare ad accompagnare il suo popolo fino alla fine: “torni in ogni generazione in gilgul, come una ruota che si gira in molti modi, anche se non ti sei rivelato se non nella generazione in cui la Torah fu data per mezzo tuo”.

In epoca moderna il concetto di Gilgul viene sviluppato soprattutto da Isaac Luria. Cosa ci dice? Gli ebrei sono chiamati al tikkun olam, cioè alla riparazione del mondo, e anche alla riparazione della loro stessa anima, cosa che si fa tramite il rispetto dei mitzvot. Un uomo, però, nel corso della sua vita, può non aver fatto tutti i mitzvot. In tal caso, la compassione divina dà la possibilità di reincarnarsi per completarne altri. Tale reincarnazione però non si limita al piano umano: essendo tutto dotato di una sua neshama, l’anima dell’uomo può potenzialmente reincarnarsi anche in una pianta, o un sasso. Così, in primo luogo, si conferma la divinità di ogni cosa. E, in secondo luogo, si conferma anche il rischio di rimanere in un ciclo di reincarnazioni, seppure con alcune differenze: non è cosa totalmente negativa (pur causata da propria insufficienza), ma anche una manifestazione di compassione; non è dovuta alla passione per ciò che è impermanente, ma da una insufficiente riparazione del mondo e dell’anima; un ebreo non si libera tramite l’ottuplice sentiero, ma tramite il rispetto dei mitzvot, mentre i goyim si liberano tramite il rispetto della legge naturale, che in effetti rispetta chi rispetta l’ottuplice sentiero. E così, alla fine, se si segue la cabala, il concetto di reincarnazione c’è, e il buddismo risulta pure del tutto corretto nei suoi consigli pratici.

Ma i casi di armonia tra oriente e occidente sono tanti. Penso a Kierkegaard: forse il Tao viene presentato come un assoluto alternativo al concetto di Dio, ma il filosofo danese – se coscientemente o meno non lo so – di fatto prende proprietà che sarebbero caratteristiche del Tao, come il non-essere, e le assegna a Dio (e può accettare anche l’idea di un doppio principio, Yin e Yang, maschile e femminile, perché se il Padre è maschile la Ruach è femminile). Penso alla diatriba sui riti orientali, con Pio XII che alla fine ha dichiarato legittimo per i cattolici venerare un’immagine di Confucio e partecipare ai riti civili confuciani. Penso a Enomiya-Lassalle, contemporaneamente gesuita e maestro zen, e a Panikkar, che diceva di essere contemporaneamente cattolico buddista e induista, e pure a Bede Griffiths, contemporaneamente monaco camaldolese e yogi hindu. Personaggi strani? Si pensi al filosofo hindu Ramanuja, per il quale la liberazione si raggiunge focalizzandosi su un Dio amorevole: come può un cristiano non essere d’accordo? E infatti tutt’ora in India esiste il Christian Ashram Movement, gruppi di cristiani che accettano la filosofia Vedanta, che vivono in ashram che sono contemporaneamente monasteri, con monaci cristiani che sono contemporaneamente swami hindu.

Non stiamo facendo qui filosofia perenne. Stiamo solo notando che, quando si dialoga tra più fedi, anche le idee più diverse, pur senza volerne fare un articolo di fede, possono essere prese sul serio, come hanno fatto questi personaggi. Infatti, accogliendo una visione mistica come quella dello Zohar, si ha davvero l’impressione di essere davanti ad una religione dell’universo, nel senso che le altre religioni, più che sostenere qualcosa di radicalmente diverso tra loro, paiono solo accentuare diversi aspetti della propria visione. Davvero: ciò che i teologi dividono, i mistici uniscono.


Alessio Montagner (1993). Vive a Conegliano (TV). Fisicalista nichilista fino ai 24 anni, poi è diventato un pragmatista kantiano. Spesso lo accusano di essere cattocomunista, ma lui nega. Hobby: psicometria, grafica e procrastinazione. Troppo timido per andare alle feste, ma chiacchiera con chiunque.

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