La Geofilosofia Oscura


Cosa unisce la filosofia, la geografia e l’horror speculativo? Claudio Kulesko analizza le origini e l’evoluzione di quella che si può definire una “Geofilosofia Oscura”.


In copertina: John Martin, The Great Day of His Wrath

Manda in fast forward la sismologia e sentirai la Terra urlare

Nick Land

di Claudio Kulesko

Il termine “Antropocene”, coniato nel 2000 dal chimico olandese Paul Crutzen e dal biologo statunitense Eugene Stoermer, indica un’ipotetica era geologica che seguirebbe all’Olocene ‒ l’era geologica nella quale, secondo la stragrande maggioranza degli scienziati, ci troveremmo da quasi 12.000 anni. La caratteristica che definisce e denomina questa nuova era consisterebbe in una diffusissima presenza, sulla superficie e nell’atmosfera terrestri, di materiali e sostanze chimiche prodotte dall’essere umano (gas serra, microplastiche, scorie radioattive, cemento, acciaio, etc.). L’Antropocene, dunque, corrisponderebbe a quell’epoca storica nel corso della quale l’essere umano ha esteso la propria attività di terraforming a tal punto da tramutarsi in una forza d’impatto geologico ‒ intorbidendo, o addirittura cancellando, i confini tra storia umana e storia naturale. Esso, tuttavia, rappresenterebbe anche, e soprattutto, l’epoca della sesta estinzione di massa e del surriscaldamento globale. Si tratterebbe, perciò, di un termine estremamente ambiguo, da manipolare con cautela: da un lato, esso indica un potenziamento pressoché illimitato delle capacità tecniche e tecnologiche dell’essere umano, dall’altro, esso segnala l’annientamento delle reti ecosistemiche dalle quali lo stesso essere umano dipende. Non si tratta, tuttavia, dell’unico aspetto paradossale di questo termine.

Da un punto di vista prettamente geologico, il principale problema di questa recente elaborazione teorica è che, nonostante la massiccia ed evidente presenza di indicatori antropogenici, non sarebbe ancora possibile identificare un’era geologica denominabile Antropocene. Da un punto di vista geologico, il concetto di Antropocene sarebbe scorretto per tre motivi: per la scarsa profondità di suddetto strato, per l’impossibilità di definire con esattezza dove tale strato cominci e, infine, per la relativa novità cronologica del dominio antropico. Non vi sarebbe, dunque, alcun fondamento empirico in grado di giustificare l’impiego di termini come Antropocene, relativamente alla stratificazione terrestre, o “Antropozoico”, relativamente alla sistematizzazione temporale delle ere geologiche. Per la geologia rimaniamo nell’Olocene, quarto scenario dell’era cenozoica.

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Eppure, come già accennato in precedenza, lo scenario si complica qualora si decida di concentrarsi sugli effetti ambientali dell’azione umana. A causa dello sfruttamento intensivo delle risorse planetarie e del conseguente restringimento degli habitat, il tasso di estinzione delle specie animali e vegetali è divenuto cento volte più rapido che in passato; questa drastica diminuzione della biodiversità potrebbe condurre, in un arco di circa duecento anni, all’estinzione della maggior parte degli organismi individuali. In un periodo ancor più breve, il riscaldamento globale, entrato in feedback positivo con lo scioglimento dei ghiacci polari, avrà desertificato gran parte dell’Europa e l’Africa intera – causando, al contempo, periodi di piogge così intense da rendere quasi impossibile la prosecuzione della vita quotidiana. A questo punto, anche i territori che non avranno contribuito alla dissoluzione ecologica saranno colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, finendo, per di più, per essere invasi dalle nubi di polveri sottili e materiali radioattivi trasportati dai venti. Nessun luogo sulla faccia della Terra sarà immune agli effetti di questa catastrofe.

Da tutto ciò si può trarre una prima considerazione di tipo teorico: l’Antropocene, ossia l’epoca definita dall’egemonia e dal dominio tecnologico dell’essere umano sulla natura, coinciderebbe, al tempo stesso, con un periodo di grave crisi per la nostra specie ‒ una crisi ecologica, sanitaria, economica e persino politica. Ironicamente, l’attività umana espansa su scala globale rappresenterebbe il principale fattore di rischio estinzione per lo stesso essere umano. Di fatto, solo il collasso totale delle strutture antropiche, seguito da un lungo periodo di sedimentazione delle stesse, sarebbe in grado di produrre le prove materiali di cui i geologi ritengono di aver bisogno. Discutere di Antropocene o Antropozoico significherebbe, dunque, analizzare un’ipotesi scientifica verificabile alla sola condizione di trovarsi su un pianeta sul quale non vi sia più alcun osservatore umano. L’Antropocene sarebbe una sorta di fantasma geologico, un’entità non direttamente osservabile, ma di cui è possibile avvertire la presenza e l’imminenza. Si tratta di un’ipotesi speculativa, ovvero di un concetto prodotto dal pensiero umano, che tuttavia alluderebbe non a una serie di fatti o a degli stati di cose, ma a una possibilità.

In questo specifico caso, il pensiero si volge alla possibilità di un mondo privo di esseri umani, dunque privo di qualsiasi pensiero di origine umana: un “mondo-senza-di-noi”. Tale perturbante ambiguità teorica consente di annoverare la geologia tra le principali discipline in grado di indagare l’interrogativo posto negli anni ‘50 da Enrico Fermi, consistente nella domanda: «Se l’universo è così grande da dover necessariamente pullulare di civiltà sviluppate, dove sono tutti quanti?». Esplorare filosoficamente questi interrogativi significa operare all’interno di una geofilosofia oscura e radicalmente post-umana, che identifica il “grande filtro” di Hanson − ossia l’ipotetica impossibilità di uno sviluppo illimitato delle specie − nella precarietà degli ecosistemi, e che depone l’essere umano dal suo ruolo di signore e padrone del pianeta Terra.

Francis Danby, “The Deluge”

L’Antropocene come orrore speculativo ‒ in quanto paradossale e mostruoso parto del pensiero umano ‒ impone uno slittamento di prospettiva in grado di destabilizzare la centralità dell’essere umano. Di fatto, le violente conseguenze del riscaldamento climatico e dell’inquinamento ambientale non farebbero che sottolineare la fragilità dell’esistenza umana sulla Terra ‒ condizione che stride ferocemente con l’idea diffusa secondo la quale l’essere umano dominerebbe la natura. Nell’Antropocene la manipolazione tecnologica e la conoscenza tecnica si scontrano con dei limiti spaventosamente concreti, costringendoci a interrogarci sulla validità dei concetti, delle rappresentazioni e delle teorie finora prodotti dalle scienze, dalla filosofia e persino dall’arte. Si potrebbe, ad esempio, elencare alcune delle categorie alternative a quella di Antropocene, nella speranza di giungere a una definizione che non preveda per l’essere umano un improbabile ruolo da protagonista.

La prima e più nota di queste categorie è stata elaborata da Jason Moore: secondo Moore il termine Antropocene occulterebbe le responsabilità del sistema economico-produttivo occidentale, attribuendo la catastrofe ecologica a un antropos astratto, sarebbe a dire all’umanità intera, motivo per cui sarebbe più corretto parlare di “Capitalocene”, ossia dell’era nella quale il capitalismo si è trasformato in una pericolosa forza geologica. Altri due concetti degni di nota, sebbene di minor successo teorico, sono quello di “Piantagionocene” ‒ l’era nella quale la superficie terrestre è per lo più occupata da monocolture ‒ e “Omogenocene” ‒ l’era della scomparsa della biodiversità. Il quarto termine, infine, tenta di recuperare e sintetizzare i precedenti all’interno di una nuova, originale configurazione teorica: si tratta del concetto di “Chthulucene”, ideato da Donna Haraway nel suo Staying with the Trouble. Sebbene il termine rimandi immediatamente a Cthulhu, la celebre e orrorifica divinità ideata da H. P. Lovecraft, Haraway ci tiene a precisare che il trasferimento delle due “h” ha un duplice valore: in primo luogo, prendere le distanze dal “misogino incubo razziale incarnato dal mostro Cthulhu”, evitando al contempo di accentrare le reti ecosistemiche su una singola entità; in secondo luogo, questo spostamento serve a puntare l’attenzione sulla radice khthon (“ctonio” o “sotterraneo”), evidenziando con ancor più forza come esseri viventi e habitat siano parte di un dinamismo “mostruoso”, ovvero di una miriade di processi di manifestazione generativa non immediatamente evidenti ‒ quali l’azione batterica, i cicli biologici del plancton o i delicati equilibri della barriere coralline. Lo Chthulucene denomina, perciò, lo sradicamento radicale, da parte del sistema produttivo occidentale, di questa moltitudine di processi fondamentali, nonché l’annientamento dei refugia, ossia di quei luoghi di vitale importanza nei quali specie e popolazioni, un tempo ampiamente diffuse, potevano trovare riparo e ripopolare gli habitat. Una devastazione causata non solo dal riscaldamento globale e dall’inquinamento atmosferico o degli oceani, ma anche dalle monocolture e dalla pesca e dall’allevamento intensivi.

Al tempo stesso, lo Chthulucene è l’era nella quale l’essere umano è costretto a riscoprire la sua appartenenza al mondo ctonio, impegnandosi nella costruzione di nuovi rifugi, creando nuovi legami e rinnovando vecchie alleanze con i non-umani ‒ ma anche rafforzando i rapporti di solidarietà tra esseri umani. Per Haraway “tornare alla Terra” significa imparare a vivere e morire dignitosamente e con rispetto, prendendosi cura di entrambi questi aspetti del mondo ctonio che, ben lontano dall’assumere sfumature materne, sembrerebbe essere fondato su un doppio movimento di composizione e decomposizione delle forme di vita da esso prodotte. Messo a confronto con le categorie precedenti, il concetto di Chthulucene risplende sia per potenza descrittiva che per forza diagrammatica, offrendo, al contempo, un’ontologia (fondata sulla relazione e sulla molteplicità delle differenze) e una deontologia (una serie di proposte concrete per vivere tra le rovine dell’Olocene).

Eppure, nonostante l’attenzione di Haraway per le diverse forme di vita non-umane e per le complessità ecosistemiche, non siamo ancora riusciti a liberarci del tutto da una prospettiva umano-centrica. Anche stavolta, il discorso riguarda il mondo “per-noi” esseri umani: come esso dovrebbe essere o come non dovrebbe essere, come conoscerlo adeguatamente e come adattarlo ai nostri bisogni e ai nostri desideri. Nello Chthulucene La comunità umana non fa che allargarsi attraverso la costituzione di nuove “parentele” (kinship) con i non-umani, che finiscono così per essere assimilati nel mondo per-noi. A essere trascurato è il modo in cui il mondo continua a “girare” anche senza di noi, la sua gelida indifferenza al nostro sguardo indagatore. Vi è ancora del paternalismo nell’idea di prendersi cura di altre forme di vita e, per certi versi, si continua a ravvisare la possibilità che il pianeta possa essere manipolato positivamente ‒ a patto di essere animati da buone intenzioni e da un sentimento di rispetto. Ci troviamo nel bel mezzo della solita narrazione in cui l’umanità si trova a essere protagonista di un’operazione di salvataggio. Rigettando i miti di Cthulhu lovecraftiani, Haraway perde una preziosa occasione per parlare dell’oscuro mondo ctonio, ovvero di quelle profondità geologiche che respingono ogni proposta di alleanza e ogni tentativo di conoscenza umana. Khthon, la molteplice, la superficiale, la generatrice, la verde-blu (contraddistinta dai colori della vegetazione e degli oceani), fa coppia o, meglio, coincide, con qualcosa di ben più inquietante: Cthulhu, l’indeterminato, il profondo, il distruttore, il nero ‒ un aspetto solo accennato all’interno dell’opera di Haraway. La moltitudine di forme di vita e di organizzazione, le innumerevoli formazioni minerali, le macchine antropiche, gli habitat: tutto rimanda all’opaco e insondabile corpo della Terra ‒ le molteplicità, come le onde del mare, procedono da esso e a esso fanno ritorno.

Il nome Cthulhu è sinonimo di spaesamento e sradicamento assoluti: si tratta di una parola priva di etimo (essendo solo vagamente riconducibile alla parola greca khthon), pronunciabile in svariati modi differenti e assolutamente scevra di significato o denotazione ‒ non si può non sorridere al solo pensiero che essa possa rinviare a un’antica divinità tentacolare, mitemente assopita sul fondale oceanico di qualche remoto anfratto del pianeta. Tale estraneità, d’altra parte, ci consente di pensare il Fuori, l’Alieno, come una minaccia proveniente non dallo spazio profondo o da un’altra dimensione, ma dalle profondità della Terra stessa. Cthulhu rappresenta una minaccia geologica ancor prima che aliena: non si tratta di un grande Altro ma di qualcosa di ignoto e, tuttavia, estremamente familiare. Come le catastrofi geologiche alla base delle estinzioni di massa, Cthulhu sembra dormire, ossia permanere in una condizione di apparente inattività.

È interessante notare come quasi tutta l’ontologia umana sia fondata su questo illusorio stato di “permanenza”: le cose del mondo permangono a portata di mano, sono evidenti e docili, scomponibili e descrivibili. Ma a un tratto, senza alcun preavviso, Cthulhu si risveglierà dal suo sonno durato milioni di anni: “[Tutta la Terra brucerà] in un olocausto di estasi e libertà”. Una libertà assoluta, attribuibile solo a ciò rispetto a cui ogni singola cosa è relativa; una libertà estatica (dal greco ekstasis, “uscir fuori da sé”) che stravolge catastroficamente lo stato di cose presente; una libertà fondata su un olocausto, ossia su un sacrificio: l’annientamento gratuito di tutto ciò che sussiste in stato di apparente permanenza. Definendo Cthulhu un “misogino incubo razziale”, Haraway commette un grave errore interpretativo confondendo l’opera col credo politico del suo autore: nei racconti di Lovecraft, il mito e il culto della divinità tentacolare risalirebbero ad antiche popolazioni pre-umane di pesci e rettili antropomorfi, si estenderebbero ai discendenti ibridi di tali aberrazioni, sino a diffondersi tra le montagne della Cina, in Nuova Zelanda, in Micronesia, in Groenlandia, in Louisiana e in Africa. Il Grande Cthulhu è un’entità spiccatamente non-occidentale, non-bianca, precedente a qualsiasi distinzione di genere e di specie; i suoi osceni culti prevedono la nudità, l’accoppiamento con creature mostruose e il sacrificio umano; il suo nome sfida arrogantemente il primato del linguaggio e del senso; le sue sembianze vanno al di là di ogni rappresentazione. Come scrive Johansen, uno dei protagonisti de Il Richiamo di Cthulhu: “La Cosa è indescrivibile: non esiste una lingua per simili abissi di follia urlante e antichissima, per simili contraddizioni soprannaturali della materia, della forza e dell’ordine cosmico”.

Al cospetto di un simile orrore, le profondità dei processi ctoni affondano in un abisso ancor più profondo e imperscrutabile. Attraverso le logiche del sommovimento tettonico, il corpo della Terra rende la superficie terrestre ‒ l’area piana sulla quale ogni cosa è evidente e manifesta ‒ instabile e inafferrabile. L’unica immagine che può venire in nostro soccorso è l’improvvisa distruzione causata da un terremoto o da un’eruzione vulcanica. Per certi versi, l’evento catastrofico che denominiamo Antropocene ci costringe a confrontarci con un’assenza di fondamento: gli ecosistemi, gli habitat, gli stessi cicli ripetitivi della natura, tutto ciò che davamo per scontato ‒ ciò che ritenevamo perfettamente “naturale” ‒ si sgretola. Tale è l’essenza stessa della catastrofe (dal greco catastrŏphe, “rivolgimento” o “capovolgimento”): ciò che è in basso, alla base, si solleva violentemente per rovesciare ciò che sta in altro, invertendo i ruoli. Proprio come accade nei processi di stratificazione geologica. È in gioco quella che Nietzsche definì “fedeltà alla Terra” ‒ ossia il rifiuto di qualsiasi elaborazione ideologica, religiosa o metafisica ‒ un concetto tramutatosi, nel corso della tarda modernità, in una forma di materialismo somatico, fondato sulla possibilità concreta di indicare delle cose, dei corpi o degli oggetti del mondo, e ricavarne delle rappresentazioni descrittive o predittive. L’annientamento di ogni stabilità, di ogni regolarità e di ogni forma di organizzazione, causato dal disastro ecologico, mostra come un simile approccio al materialismo non sia nient’altro che una “falsa fedeltà alla Terra”, una dottrina metafisica basata sull’indimostrabile presupposto della permanenza delle cose, nonché su un ben più concreto progetto di dominio e messa in sicurezza della superficie terrestre.

Per il teorico militare Manabrata Guha l’ontologia della permanenza sarebbe il mezzo attraverso cui gli apparati bellici e scientifici occidentali hanno tentato di porre la Terra sotto controllo. Essa rappresenterebbe un tentativo di rispondere alla domanda: “Come si contiene (e inverte) un processo di decadimento ontologico?”. Come impedire che il tempo, il caso e gli elementi, tutti fattori posti al di là del nostro controllo, spazzino via ciò che gli esseri umani hanno faticosamente eretto? Si tratta della stessa domanda alla quale tenta di rispondere la categoria di Antropocene, così come gli altri concetti a essa associati. Per Guha, gli insuccessi e l’inefficacia alla quale ci hanno condotto le risposte finora elaborate, ci costringono a ritrovare una nuova fedeltà alla Terra e a fondare un nuovo materialismo. Dobbiamo abbracciare la necessità del mutamento, rinunciare all’idea che la superficie terrestre sia stabile o che possa essere stabilizzata per mezzo della tecnologia, e rivolgere la nostra attenzione alle profondità della Terra. Sarebbe a dire, nel nostro caso, ai liquami, ai flussi magmatici e carsici, ai fondali oceanici e a quel misterioso abisso che è il nucleo del pianeta. Costituire una nuova alleanza con la dimensione ctonia significa accogliere i mutamenti catastrofici come parte della continuità terrestre, agendo in accordo ai catastrofici sovvertimenti ecologici, economici e politici che lacerano la superficie:

Il baratro è vorticosamente inscritto nelle profondità della terra – è complice di quell’Abisso da cui Nietzsche si fece scudo dopo aver guardato ed essere stato tetramente ri-guardato. Questo guardarsi reciproco non è un “confronto”, o una postura di combattimento […] Al contrario, essa è il segno di un movimento di sotto-superficie – una complicità di sguardi tra l’abisso vorticante della non-appartenenza e noi stessi.

La molteplicità delle determinazioni ‒ gli individui, gli ecosistemi e i territori ‒ nei quali si frammenta la superficie terrestre, viene inghiottita e ricompresa a livello geologico nell’unità abissale del corpo planetario: essi si decompongono e si stratificano, divenendone parte integrante. Limitandosi a indicare una molteplicità di individui ci si dimentica di riferire il locale al non-locale, il relativo all’assoluto. La differenza è la stessa che intercorre tra la Terra e il territorio: quest’ultimo è il prodotto di una rete di relazioni e interazioni. Gli animali umani e non creano attivamente il proprio territorio, plasmandolo a loro favore e difendendolo dagli aggressori. Gli ecosistemi, a loro volta, attraversano trasversalmente i territori, determinando nuove relazioni (tra la savana e il deserto, tra la giungla e la metropoli, tra i ghiacci polari e gli habitat del Mediterraneo). “Essere in relazione” significa confinare sempre con qualcos’altro e con qualcun altro. La Terra, al contrario, è l’insieme assoluto di tutti i territori e di tutti gli ecosistemi, la condizione della loro stessa esistenza e il fondamento instabile sul quale poggiano ‒ il pianeta è un surplus di indeterminazione, in grado di stravolgere ciò che si manifesta sulla sua superficie.

Francis Danby, Liensfiord, Norway: Calm

Come scrive Lovecraft in “L’Innominabile”: “Era dappertutto…Una gelatina…Un fango…Eppure aveva delle forme, un centinaio di forme al di là di ogni ricordo […] Era l’abisso…Il Maelström…L’abominazione ultima […] Era l’Innominabile!”. L’aspetto generativo dell’ecologia terrestre passerebbe attraverso una serie di processi di decadimento e distruzione, consentendoci di transitare da un modello di economia “ristretta”, ossia fondata sull’utilità e sulla conservazione di ciò che si è prodotto (sulla consistenza e sulla permanenza delle cose del mondo), a un modello di economia “generale”, basata sullo spreco e sull’annientamento gratuito ‒ un punto di vista radicalmente inumano.

La storia naturale della Terra si tramuta in un insensato susseguirsi di estinzioni e mutamenti morfologici estremi. Eventi avvenuti ben prima della comparsa dell’essere umano, e che continueranno a verificarsi ben oltre la sua scomparsa, in grado di illustrare con estrema brutalità come non siano le specie a “fare la storia”. Circa tremilacinquecento milioni di anni fa, i batteri anaerobici furono sterminati dagli enormi quantitativi di ossigeno prodotto dai cianobatteri, dando luogo alla prima estinzione di massa; duecentocinquanta milioni di anni fa, tra il Permiano e il Triassico, il 50% delle specie animali scomparve in circostanze ancora poco chiare; sessantacinque milioni di anni fa, il 75% delle specie rimanenti (dinosauri compresi) furono spazzate via dall’impatto di un asteroide o da un evento altrettanto catastrofico. Il pianeta inghiotte il mondo, il piano condiviso costituito dalle relazioni che umani e non-umani intrattengono tra loro; un po’ come accade nella mitologia norrena, dove il serpente Jormungand, dopo aver stretto la Terra tra le sue spire, la contamina con le sue orride esalazioni tossiche (una sorta di allegoria profetica, che anticipa le odierne nubi di sostanze inquinanti). Come nota Timothy Morton in Dark Ecology:

L’Antropocene non distrugge la Natura. L’Antropocene è la natura sotto forma di incubo tossico. La Natura è lo stato latente dell’Antropocene, in attesa di emergere catastroficamente.

Tuttavia, è proprio tra le rovine dei mondi precedenti che potranno sorgere nuovi mondi a noi ignoti. La geofilosofia oscura, perciò, è impregnata delle vischiose tenebre dell’indeterminazione: la Terra Nera è un abisso che, come il colore che le fa da stendardo, contiene ogni possibile manifestazione individuale, ogni gradazione e ogni impercettibile tonalità, sino a giungere a sfumature “impossibili” o “inimmaginabili”. L’immensità delle ere geologiche (un tempo inaccessibile e incomprensibile per noi esseri umani) è in grado di produrre organismi, ambienti ed ecosistemi tra i più bizzarri e meravigliosi, senza tuttavia corrispondere a nessuna di tale determinazioni, né alla loro somma totale ‒ essendo quest’ultima ignota e potenzialmente inesauribile, come dimostrerebbero opere speculative quali Animali Dopo l’Uomo di Dougal Dixon o il Codex Seraphinianus, ma anche i racconti weird di H. P. Lovecraft e Clive Barker. Forse, il celebre frammento eracliteo:

Φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ.

La natura ama nascondersi.

allude proprio a questa oscurità dei processi naturali, i quali si rivelano come ordine razionale e necessario (logos, “calcolo” o “discorso”) sempre e solo a posteriori. La superficie del pianeta si manifesta ai nostri sensi in virtù di un sottostante processo di stratificazione ininterrotta; potremmo perciò dire che essa ci appare in quanto natura “corrente”, ossia in divenire, e non in quanto natura “presente” o permanente. Per certi versi, il significato di “natura corrente” è simile a quello delle espressioni “acqua corrente” e “valuta corrente”, giacché entrambe sembrano esemplificarne degli aspetti parziali: la prima si riferisce a un flusso cangiante e in divenire (“non si può discendere due volte nel medesimo fiume”); la seconda denota l’attualità di un paradigma che convive o compete con paradigmi differenti e che è preceduto o succeduto da altri paradigmi. La prima rappresenta il flusso del divenire, la seconda la serie di momenti che lo compongono concretamente. Così, di catastrofe in catastrofe e di paradigma in paradigma, il flusso naturale esonda dal suo oscuro nascondiglio, pur rimanendo inabissato. La Natura coincide innanzitutto con tale nascondimento primordiale, ossia antecedente a qualsiasi prospettiva organica. Di fatto, l’interpretazione, da parte degli organismi viventi, dei segni che essa esprime in superficie, può aver luogo solo dal momento in cui essa giace semi-addormentata, nei brevi stati di quiete apparente, e questa stessa attività decrittografica non può che limitarsi alla superficie e agli strati più superficiali.

Questo stesso scritto, incentrato su Cthulhu, sul colore nero, sulla figura del territorio, sulla stratificazione geologica, non è che un tentativo speculativo di girare attorno a un enigmatico “oggetto X”: il mondo-senza-di-noi. Dinanzi all’assenza di fondamento la conoscenza e la parola si sfaldano, pur conservando una certa utilità narrativa e un valore intuitivo. Per questo motivo, la postura geofilosofica è per certi versi simile all’esperienza mistica: si abbandona la propria prospettiva parziale e localizzata, posizionandosi prospetticamente in una totalità. D’altra parte, non si tratterebbe di un’esperienza di alcun tipo, giacché la Terra è il fondamento materiale di tutta l’esperienza possibile, ciò che ci permette di esperire in modo situato. Nel pensiero geologico la necessità di uscire dalla cornice dell’esperienza e della rappresentazione assume un ruolo centrale. In questo caso, “tornare alla Terra” non indicherebbe la ricostituzione dei rapporti tra gli esseri umani e i non umani, ma letteralmente l’essere ricompresi nel corpo della Terra, essere divorati per dar luogo allo strato geologico denominato Antropocene. Composizione e decomposizione, come scrive Haraway.

Si tratta, dunque, di un pensiero disincarnato, non localizzato, radicato in un’unità lacerata dal possibile e dal non ancora avvenuto (la fine del mondo o la sua posticipazione). Pensare dal profondo di questo abisso significa pensare la fragile precarietà dei mondi umani e non umani, tentare di giungere al cuore della Terra ‒ a costo di impazzire ‒ immaginando, lungo labirinti speculativi, un mondo privo di qualsiasi pensiero umano. L’Antropocene, il Piantagionocene, l’Omogenocene e lo Chthulucene sono facce del medesimo annientamento dei sensi e dei significati creati dagli esseri umani, frammenti parziali di un medesimo ritorno al nonsenso e all’insignificanza. La catastrofe, liberata dalle catene che la legavano al protagonismo umano, diviene il paradigma grazie al quale la storia naturale ritrova la propria potenza creatrice.


Claudio Kulesko ha collaborato con la rivista Alphaville – Per un’ecosofia del futuro, e si occupa principalmente dell’opera di Deleuze e Guattari, di realismo speculativo, di filosofia delle scienze e pessimismo filosofico. È organizzatore e ideatore, assieme a Giuseppe Molica e Lorenzo Marsili, del Seminario Musica e Filosofia dell’università Roma Tre.

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