L’eccezione e la regola: Genova 2001

Vent’anni fa a Genova, in Italia, avvennero delle gravissime violenze da parte delle forze dell’ordine su gruppi di civili – ma anche i processi a seguire presentano diversi elementi preoccupanti.


IN COPERTINA e nel testo, Untitled (Police Beating), Norman Lewis, 1931

Questo testo è tratto da  Circospetti ci muoviamo a cura di Michele Vaccari. Ringraziamo effequ per la gentile concessione.


di Roberta Covelli

Avevo nove anni, ero al mare, ma il cognome di quel giornalista britannico, Mark Covell, era assonante al mio. Non sapevo che era stato picchiato davanti alla scuola, non sapevo della frattura della mano sinistra, delle otto costole rotte, del polmone perforato, della colonna vertebrale danneggiata, dei denti persi, delle quattordici ore di coma al termine delle quali solo la caparbietà dei medici aveva impedito la sua traduzione in arresto. Negli anni che vennero, poi, mi interessai, studiai, contattai testimoni, mi feci raccontare da chiunque ci fosse stato, guardai video, inchieste, documentari. Era un inciampo, una negazione delle promesse costituzionali, un rovesciamento della stessa logica delle leggi, così pensavo. La sospensione dei diritti è un’eccezione, la regola è un’altra, la logica delle leggi resta salda, il manganello è solo una parentesi, una pagina buia, un incubo da cui ci si sveglia terrorizzati, il respiro ancora corto, gli occhi arrossati, il battito veloce che però piano piano si placa, perché non è la norma. 

Dopo i fatti di Genova arrivarono le inchieste, i processi. Non aspettarsi verità e giustizia è una conseguenza della sospensione dei diritti. E infatti, in sede penale, i pochi agenti e funzionari riconosciuti colpevoli sono stati condannati a pene da qualche mese a cinque anni. Non di più. Ma quelli alle forze dell’ordine non sono stati gli unici processi. Per quanto la maggior parte delle accuse ai manifestanti arrestati si siano rivelate infondate già nei primi giorni dopo il summit genovese, venticinque persone sono andate a processo per devastazione e saccheggio: a essere condannate fino in Cassazione per quel reato sono state poi dieci, per un totale di quasi cent’anni di carcere. 

Anche quel processo è sembrato un’eccezione. È stata eccezionale la raccolta di prove, video e foto massicciamente riversati in un fascicolo contro ignoti a cui quindi solo la polizia giudiziaria e i pubblici ministeri hanno avuto accesso e che poi sono stati selezionati per un nuovo fascicolo, legato agli indagati e quindi finalmente accessibile ai loro avvocati. È stato eccezionale che quei video e quelle foto siano diventati automaticamente prove, anche se il passaggio da un fascicolo all’altro ne ha cancellato i metadati e quindi la possibilità per la difesa di indagare a proprio volta, più in profondità. È stata eccezionale anche la disinvoltura con cui la presenza sul luogo della devastazione sia bastata per la condanna: la mancata dissociazione ha integrato il reato, è diventata “presenza rafforzatrice del proposito criminoso” e, in quanto tale, concorso nella commissione del reato, tramite “compartecipazione psichica”, visto che quella fisica a volte è mancata. 

Ho studiato giurisprudenza, ho studiato le leggi pur non avendo alcuna intenzione di diventare avvocata o magistrata, o di apprendere competenze giuridiche per entrare nell’ufficio legale di qualche impresa; volevo solo conoscere le armi degli azzeccagarbugli per non cedervi, volevo studiare la logica delle leggi per comprendere la realtà, e raccontarla o migliorarla, se mi fosse riuscito. Se c’è qualcosa che ho imparato con gli studi giuridici, il consiglio dei professori spesso ignorato dagli studenti più svogliati o da quelli convinti di poter masticare il manuale a memoria per risputarlo con la stessa punteggiatura all’esame, è che per studiare bisogna comprendere e per comprendere bisogna risalire alla fonte; la fonte, in questo caso, è l’articolo 419 del codice penale. La norma prevede come ‘cornice edittale’, cioè come minimo e massimo di pena, la reclusione da otto a quindici anni. Il testo, scarno come molti articoli del codice, non definisce in concreto la condotta, ma si limita ad attribuire la pena a chiunque commetta “fatti di devastazione o di saccheggio”. Qualche informazione in più si ricava dalla struttura del codice penale: l’articolo 419 rientra infatti nel titolo V, ossia tra i reati contro l’ordine pubblico. Chi mise in pericolo l’ordine pubblico, a Genova, in quelle giornate di luglio? Forse chi, come sede per il summit, scelse una città bifronte, di mare e di montagna, di “labirinti e vecchi carrugi”, per cantarla con Guccini. Oppure chi ignorò le informative del Sisde che segnalavano come il blocco nero si sarebbe ritrovato in piazza Paolo da Novi, chi decise di non fermarne i componenti o arginarne i movimenti. Magari l’attentato all’ordine pubblico arriva dalla mancata selezione degli agenti, dall’addestramento iniziato a giugno, dall’arrivo dei contingenti nell’intricata città una settimana prima degli eventi. Forse contro l’ordine pubblico si schierò il battaglione Lombardia, cui fu ordinato di recarsi in fretta in piazza Giusti, veloce!, fu specificato, perché c’era il rischio di incrociare il corteo autorizzato dei Disobbedienti che scendeva da corso Gastaldi: troppo tempo per percorrere un tragitto senza vicoli, strada dritta, svolta a sinistra e ancora dritto, lo spiegava perfino il funzionario via radio per quant’era semplice, ma raccomandandosi, veloce!, e oggi Google Maps prevede cinque, massimo sette minuti, nonostante il traffico, eppure il battaglione di minuti ne impiegò almeno venti, e intravide le Tute bianche, proprio quel corteo che doveva evitare, e invece di proseguire, di accelerare, gli agenti scesero, si schierarono e caricarono, e a nulla valsero gli avvisi via radio, i tentativi di rimettersi in comunicazione, di risolvere il grottesco equivoco, e restava registrata l’esasperazione del comando: “no, porco giuda!”. Magari attentarono all’ordine pubblico anche quegli agenti che si dotarono di bastoni invece di usare i manganelli tonfa regolamentari, accanendosi sui manifestanti a terra, perfino sui giornalisti, pure su quello che diceva “so’ daa Rai! So’ daa Rai!” – e che rischio, per l’ordine pubblico, la folle corsa dei blindati lanciati sulla folla già in panico, con le accelerazioni sui marciapiedi. 

Ma ricordare la disorganizzazione, analizzare gli errori, denunciare le colpe di cui si macchiarono le forze dell’ordine significa concentrarsi ancora una volta sull’eccezione, e finire per perdere di vista l’inquietante regola. 

Applicando il codice penale, la Corte d’Appello di Genova, con la successiva conferma della Cassazione, ha condannato un agente a tre anni e due mesi di reclusione: a Bolzaneto, il centro di smistamento dei fermati verso le carceri, il poliziotto aveva preso la mano di G., gli aveva afferrato le dita e le aveva divaricate, strappandogli la mano fino all’osso. La vittima era svenuta dal dolore, per poi essere medicata senza anestesia e trattenuta come tutti gli altri transitati dalla caserma, in posizioni vessatorie, minacciata, umiliata. In aula, a testimoniare, ancora tremava. Con lo stesso codice penale, l’assalto all’ufficio postale o al supermercato, l’incendio di auto, l’utilizzo di pezzi di arredo urbano come barricate, azioni distinte commesse da una pluralità di persone, è valsa anche quindici anni di carcere: i danni non erano solo al patrimonio, l’offesa riguardava anche l’ordine pubblico. 

Il concetto di ordine pubblico, la pubblica sicurezza come bene supremo da difendere a ogni costo, s’impose anche ai miei diciott’anni un pomeriggio di settembre, a Milano, fuori dal Castello Sforzesco, qualche minuto dopo essere stata sollevata di peso e accompagnata all’uscita da un intero cordone di polizia. Come, da bambina giudiziosa, matura e ubbidiente (perché così qualunque adulto mi aveva definito fin dalla primissima infanzia), io fossi diventata riconoscibile per la Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali della polizia milanese, la Digos, ha forse a che fare con  l’uscita dalla provincia sempre uguale a se stessa o con l’etica appresa nelle favole che diventa ingenuità appena passata l’adolescenza. A prescindere dai come e dai perché, io, quel tardo pomeriggio di settembre, me ne stavo in piedi, con le braccia conserte, in attesa, in mezzo ad agenti in borghese che fingevano di non far caso a me. Attendevo che mi fosse restituita la carta d’identità, con quel divertito stupore di chi ormai sa come funziona: 

«Prego, documenti». 

Una frase comune a tanti immaginari come a tante canzoni degli anni passati; quel pezzo di carta con sopra foto, nome, cognome, indirizzo, professione, poi passava di mano in mano, arrivava a quello alto con gli occhiali da sole che stava vicino all’auto e che telefonava in centrale, riguardava il documento rigirandoselo tra le mani mentre parlava alla cornetta. Poi si aspettava: aspettava quello al telefono, aspettavo io, aspettavano tutti gli altri in servizio. L’identificazione è così, un’attesa lunga abbastanza da spazientire o intimidire, a seconda di età, consapevolezza, carattere. 

«Esiste la Costituzione, comunque» dicevo poi io. «Articolo 16» aggiungevo, sicura di non ricevere risposta come si è sicuri di essere puniti con il silenzio che caratterizza questi momenti, in cui la forza pubblica ignora il dissenso, lo lascia sfogare, sopportandolo con un’ombra di fastidio dopo averlo condotto ai margini di una piazza o fuori da un palazzetto. 

La voce cavernosa del funzionario in borghese mi raggiungeva, invece, inaspettata: 

«C’è anche l’articolo 4 del T.u.l.p.s.» ribatteva. 

Tarchiato, capelli bianchi, mi concedeva uno sguardo giusto il tempo di pronunciare quelle parole, a cui prevedibilmente seguiva la mia obiezione, più per autodifesa che per polemica: dovevo segnalargli che avevo ragione e che lo sapevo, che avevo dei diritti che li conoscevo, che mi spettavano. 

«Ma la Costituzione è più importante» avevo dunque protestato. 

«A me importa solo il T.u.l.p.s.» rispondeva lui. 

Il T.u.l.p.s. è il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Ancora oggi l’ordine pubblico si basa su quel regio decreto di epoca fascista, proclamato da VITTORIO EMANUELE III PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D’ITALIA. La Corte Costituzionale ne ha dichiarato illegittimo qualche comma, qua e là, ma resta vigente e applicato, nell’evenienza evocato, a giudicare dalle parole del funzionario della Digos che mi trovavo davanti, secondo cui probabilmente figuravo tra le “persone pericolose o sospette”, visto che di costoro parlava l’articolo 4 citato alla diciottenne con le braccia conserte che attendeva la restituzione della carta d’identità. 

Trovai garbatamente inquietante quella dichiarazione così sicura: che la Costituzione contasse più di leggi e regolamenti, che dovesse orientare le norme e con esse le azioni della pubblica autorità, mi pareva un dato incontrovertibile, da chiunque conosciuto, un’informazione di base, un rudimento di educazione civica che un rappresentante della legge stava disinvoltamente negando. E sì, vale di più la Costituzione, l’agente in borghese si sbagliava, la gerarchia delle fonti è chiara e, anzi, la logica delle leggi deve essere la stessa che si ritrova nella carta costituzionale: la pari dignità sociale, i diritti umani, civili, sociali, economici, politici, la centralità della persona, come individuo e come parte della collettività. “Grandi parole preannunziatrici del futuro” le aveva definite Calamandrei, grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare”. Così aperto era il mio cuore di diciottenne, così era il cuore di chi nell’estate del 2001 andò a Genova o di chi, pochi mesi prima, manifestò a Napoli: la stessa polemica giovanile, anagrafica o di passione, cui s’aggiungeva la contestazione del presente e l’immaginazione del futuro. Come sfondo, dato scontato d’ogni mobilitazione in un paese democratico, c’era però anche la consapevolezza di diritti sanciti nel passato e ancora vivi, validi, saldi, alla base delle leggi e del comportamento di quelle autorità che proprio alle leggi devono conformarsi. 

Eppure tra le leggi c’è anche il Testo unico di pubblica sicurezza, che il funzionario della Digos contrapponeva al mio appello alla Costituzione, c’è il codice penale, quotidianamente applicato nelle aule di tribunale di una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ci sono norme scritte e approvate sotto un regime dittatoriale fondato sul credere, obbedire, combattere, basato sulla trascurabilità dell’individuo e della sua dignità, sulla sua ragion d’essere solo nella Storia, dove la Storia è il fascismo che garantisce ordine e disciplina, dove il conflitto non esiste, e se esiste è contro il vivere civile e può, anzi deve, essere silenziato o, se è troppo tardi per farlo tacere, duramente punito. 

Perciò qual è l’eccezione, quale la regola? Se l’uomo della Digos che rovescia la gerarchia delle fonti, convinto che un regio decreto fascista valga più della Costituzione, fraintende la logica delle leggi, l’ordinamento non dovrebbe garantirgli norme applicabili a piacimento. E se le persone valgono più delle cose, qualcosa non torna nelle pene diverse previste non da giudici corrotti ma dalla legge stessa dal codice penale che sarà anche stato varato in epoca fascista ma che è vigente e applicato anche nel regime democratico. 

Torno ai miei diciott’anni, alle mie braccia conserte, alla carta d’identità finalmente restituita. La infilavo nella tasca di dietro dei jeans, forse salutavo o forse no, poi attraversavo la strada e andavo a prendere la metro e dunque il treno, carica di adrenalina e mal di stomaco. Di lì a qualche mese mi sarei iscritta a giurisprudenza, ma mentre tornavo a casa ero ancora convinta nella mia indecisione tra Scienze politiche e Storia, e forse sarei stata più serena così, guardando la legge come qualcosa di oscuro, un guazzabuglio di imperativi e conseguenze con una logica sconosciuta. Invece ho capito, anche se all’università non mi è stato insegnato, che le leggi sono specchio di rapporti di dominio, che pure in democrazia sono i ricchi e i prepotenti a comandare, scrivendo le regole e applicandole con lo scudo della legalità, in cui rientrano anche i residui autoritari che sopravvivono nell’ordinamento, silenti ma pronti all’uso. 

“Nulla valga come cosa immutabile” pregava Brecht, nemmeno in tempi “di ordinato disordine, di meditato arbitrio, di umanità disumanata”. Tutto scorre, è passata l’onda e pure la risacca, e in vent’anni poco è percepito, come quell’albero che cade nella foresta, lontano da tutti e da nessuno udito, tanto che ci si chiede: fa rumore? Quanto conta quel che si percepisce nella definizione di quel che è? Era Berkeley, se le rimembranze filosofiche non m’ingannano, a sostenere quell’esse est percipi per cui la percezione è un’elemento centrale dell’esistenza, ma potrei aver capito male, dopotutto la filosofia mi dava un po’ d’angoscia, tanto che talvolta ripenso a qualcosa che ho studiato, che ha inciso su di me, sul mio modo di vedere, di pensare, e continuo a chiedermi se abbia aumentato o ridotto il mio benessere, e temo di protendere verso la seconda opzione, anche se l’approfondimento di consapevolezza non può certo essere un difetto, anche se il dolore, lo dice pure l’Ecclesiaste, s’accresce quando s’accresce la cultura – entropia esistenziale, in perenne aumento, come caos in espansione. C’è angoscia nella filosofia, ma anche nella Storia, nella cronaca che s’allontana nel tempo e si cristallizza in carte processuali e narrazioni semplificate o che sparisce nella memoria confusa e nell’oblio collettivo, come per quel luglio del duemilauno, di teste spaccate e giustizia negata, di conferma della regola spacciata per eccezione. Ma davvero quel che è percepito, quel che è raccontato e tramandato, è quel che fu e che continuerà a essere? Percezione e realtà non coincidono, e non è detto che non esistano colpe nell’incomprensione: la pretesa di un mondo diverso, l’opposizione al dominio dei ricchi e lo spazio alla moltitudine, agli umili e agli oppressi, si possono ridurre al racconto di qualche giorno di ininfluente guerriglia urbana e di violenze poliziesche, e la rivendicazione politica, così multiforme e a tratti illusa, può cambiare tra la manifestazione e la testimonianza, tra quel che fu incarnato nei cortei e quel che se ne colse, tra il futuro di vent’anni fa e il presente intriso di quel passato. Però, quanto all’albero, l’albero che cade in mezzo alla foresta, l’effetto c’è: è il rumore pure se non si sente, è lo spostamento d’aria pure se muove solo le foglie, è un albero che crolla e non sta più in piedi. Se esiste una foresta dell’impegno civile, sono molti gli alberi che caddero, e ancora cadono, che crollano a terra pure se nessuno li vede o se li vedono invece i mille occhio delle telecamere del nuovo millennio, puntate sull’appuntamento con la Storia ma incapaci di mettere a fuoco l’obbiettivo, mentre silenziosa cresce anche l’erba, e il rumore dell’albero abbattuto pare colpevole, quasi vergognoso. Ma chissà quanti alberi crollano nella foresta, nell’abuso di potere e nella spinta ideale che non trova approdo, chissà quanti sostegni si tentano di costruire per restare in piedi, saldi, chissà se qualcuno li percepisce, chissà se esistono nella comprensione altrui, chissà se avranno traccia, nella Storia tutta come in questa storia, se sono eccezioni o se diventeranno regola. 


Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è dottoranda in diritto del lavoro. È autrice del libro Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019).

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