Nella letteratura ecofemminista troviamo suggerimenti ed esempi per un approccio efficace nel pensare noi stessi (la specie umana) sul pianeta che stiamo cambiando irreversibilmente: è un approccio esperienziale. Parliamo di una prospettiva che imposta il punto di vista filosofico a partire dal corpo e dallo spazio in cui esiste e si muove. Possiamo partire da qui per aprirci a una comprensione della realtà e dell’ecologia?
In copertina “santorini, 2002” di ATHOS ONGARO, all’asta dal 26 ottobre alla casa d’aste pananti
Nel 1995 la scrittrice e attivista americana Terry Tempest Williams, insieme allo scrittore Stephen Trimble, curò un libro contenente venti interventi di scrittori americani a difesa delle terre dello Utah, proprio mentre nel congresso si dibatteva il loro destino: se proteggerle in quanto riserve e patrimonio degli Stati Uniti d’America, o destinarle a terreno per nuovi pozzi per gas e petrolio. Lo racconta nel suo libro When Women Were Birds. Fifty-four Variations on Voice, opera narrativa che coniuga il memoir e la riflessione ecologica.
Testimony. Writers Speak On Behalf of Utah Wilderness nasceva dopo frustrazioni e apparenti sconfitte. Williams si era già presentata davanti alla delegazione per il congresso nell’estate del 1995, in rappresentanza di un vasto numero di persone (oltre il 70% dei cittadini). Durante una commissione formale a Cedar City nello Utah, era intervenuta a nome dei conservazionisti, per essere così apostrofata dal deputato repubblicano Jim Hansen “Mi dispiace, Signora Williams. C’è qualcosa nel timbro della sua voce che mi impedisce di udirla”. Sorte non migliore era toccata qualche tempo dopo al sindaco della cittadina di Springdale, durante una commissione speciale tenutasi a Washington DC, quando nei suoi cinque minuti scarsi a disposizione era stato rudemente interrotto da un senatore che aveva lasciato la stanza.
Non si arrese. Durante la conferenza stampa di lancio del libro, a Washington DC, un giornalista del Washington Post rimarcò sgradevolmente:
‘Che perdita di tempo! Sapete quanta carta viene distribuita regolarmente al Congresso? Siete dei sempliciotti. Tutto questo non vedrà mai la luce del giorno’. Ero incredula, pronta a lanciarmi in un feroce e fermo dibattito. Steve reagì con più calma e presenza di spirito. Disse al giornalista: ‘Scrivere è sempre un atto di fede’.
Riuscirono a distribuire copie ai membri del partito democratico, raggiungendo il vicepresidente Gore e la signora Clinton. Nel marzo 1996, quando la proposta di legge repubblicana raggiunse il Senato, molti avevano letto o ricevuto copia di Testimony. Scoppiò il finimondo. A settembre il presidente Clinton decretò che oltre due milioni di acri dello Utah sarebbero diventati riserva naturale. Dopo sollevò una copia di Testimony, dicendo: “Questo libretto ha fatto la differenza”.
Scrivere può fare la differenza, almeno in quei paesi dove lo scrittore ha riconosciuta autorevolezza, e dove esiste una tradizione di scrittura a difesa della natura, come accade negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. Laddove questo non accade, bisogna comunque perseverare, unendo alle parole l’esperienza, e l’azione nei luoghi.
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Ancora Williams: “Un buon lavoro è un sostegno contro la disperazione”. Ecco, questo è un momento di paura legittima che non trova conforto nelle descrizioni scientifiche di quanto sta accadendo al pianeta, ma nemmeno nelle scritture senz’altro veritiere che suggeriscono come prepararsi, in quanto umani, al prossimo futuro. Personalmente temo l’abitare un mondo senza orsi polari, con insetti e mammiferi selvatici decimati, pesci malati, piante in sparizione. Ho paura di perdere l’anima delle altre vite, oltre l’umano. Non si tratta soltanto di cavarsela, ma di restare vivi, portando di là dal disastro l’altro che amiamo. L’impotenza non può risolversi in rabbia. Che fare, allora? Vivere quanto più possibile dove si è, passare nel mondo con la curiosità e la disponibilità del viandante, della straniera che accoglie, poiché ha bisogno di accoglienza. E leggere qualcosa che dia conforto e speranza nel ripetere: sono qui.
In quella che potremmo definire letteratura ecofemminista si trovano esempi di approccio esperienziale al mondo, e la scrittura quale atto di fede, riprendendo le parole di Trimble, diviene non solo l’attraversamento del buio, ma anche l’ascolto prolungato della realtà, del suo bussare ai nostri corpi e reclamarli. Penso ad alcuni libri che mi hanno accompagnato o sono ritornati in visita nei mesi precedenti. Che significa essere eco-femminista? Perché le istanze del femminismo si sposano bene con le questioni ecologiche? Non si tratta di semplice attivismo ambientale, ma di connessioni profonde, che originano nel corpo delle donne, incontenibile nel suo mostrare i segni della trasformazione, del limite, del decadimento e delle nuove possibilità. Selvaggio. Non certo unico, in questo – ma senz’altro più esposto. Proprio dal corpo della donna e della natura, parte, secondo molte attiviste, la dominazione patriarcale: quel corpo che va soggiogato e, se usassimo la lingua del sacro, trasceso. “Alle questioni di sessismo, razzismo, classismo, ed eterosessismo, che preoccupano le femministe, le ecofemministe aggiungono naturismo – l’oppressione del resto della natura”, scrive Carol J. Adams nell’introduzione della raccolta di saggi Ecofeminism and the Sacred, pubblicata nei primi anni Novanta. Soprattutto il pensiero ecofemminista avversa la separazione fra vari ambiti: corpo e mente, spiritualità e politica, e infine umano e naturale La cultura ecofemminista, spiega Rosemary Radford Ruether nella medesima raccolta, “afferma la vita” ed è connessa con l’ecologia radicale o profonda, in perfetta antitesi con qualsiasi teoria antropocentrica, perfino di origine ambientalista ed ecologista. Non si tratta infatti di “ambiente”. Dovremmo provare a sapere che non siamo circondati, in modo decorativo o funzionale, da castagni, terriccio, acque correnti, erbe, coleotteri, galline e volpi, ma che siamo all’interno – e non al centro – di un corpo plurimo e in movimento, che si scompone, conosce, muta, risponde alla gioia, soffre, agonizza. Sanguina. Parlare di tale corpo significa anche, in un primo momento, smitizzarlo o demetaforizzarlo, per incontrarlo dove si palesa così com’è, con tutta la sua alterità. Dalla mia biblioteca riappare, per contrasto, l’iconico Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés, dove l’autrice, psicoterapeuta junghiana e cantastorie, parte dall’osservazione dei lupi per trasformarli in metafora degli istinti delle donne, narrare del loro corpo foriero di mistero naturale e, di conseguenza, della loro psiche. Lo fa analizzando fiabe trascritte così come le sono giunte, passando attraverso l’oralità e la personalità delle sue antenate. Il libro è un ottimo strumento per scardinare i condizionamenti sociali e riappropriarsi con fiducia della nostra natura, sia intima, in quanto esseri singoli, che collettiva, in quanto parte del genere femminile. Troviamo ampie tracce di una vita ecologica, che mira alla conoscenza di sé attraverso l’immaginazione a sua volta riallocata nell’animale o nel paesaggio. Eppure la riscoperta di questo io selvaggio non è sufficiente se vogliamo ripensarci nel mondo. È il primo passo rivoluzionario, ma, ecco, cosa accadrebbe se il lupo si liberasse dei miti, e così facessero il bosco o la riva del mare? Forse, improvvisamente, non parleremmo per tramite loro, ma essi ci parlerebbero. Da una simile struttura fiabesca, con tuttavia intenzioni ed esiti diversi, si sviluppa il saggio di Sharon Blackie, If Women Rose Rooted: Se le donne crescessero radicate.
La Chiamata arriva quando rompiamo o siamo pronte a romperci. Talvolta può arrivare nella forma di un cambio di circostanze: una relazione che finisce; la perdita del lavoro; una malattia. Un bambino cresce e se ne va da casa, qualcuno che amiamo muore. Talvolta la Chiamata ci arriva in un sogno.
Cos’è la chiamata, di cui scrive la Blackie? Il titolo del libro è speranzoso e provocante: non nasciamo affatto radicate. O meglio, nasciamo (tutti, donne e uomini), radicati in qualcosa che ci è imposto, costruito invisibilmente intorno e addosso, ma se potessimo guardare al fondo, alla punta delle nostre presunte radici, troveremmo una terra secca o addirittura falsa, di poliestere. Da qui la ricerca estenuante di un luogo dove stare, di un lavoro che ci soddisfi, di una completezza che non troveremo nella lunga serie di traguardi ed età per raggiungerli che ci viene tramandata. La Chiamata, non viene dal futuro o da una meta distante, forse inesistente: proviene da là fuori. Che nome hanno quelle colline? Perché il mare trasmette quella particolare frenesia adolescenziale, anche se ho superato da tempo la stagione? La Blackie usa nel suo vagabondare narrativo i suoi vari luoghi e mestieri – psicoterapeuta, editrice indipendente di poesia e scritture per la natura, contadina e allevatrice sulle isole scozzesi e in Irlanda; e le fiabe, ma con una precisa declinazione: sono tutte storie legate a luoghi celtici dove ha scelto di vivere, con tutte le inquietudini del caso. Se c’è una volontà di radicamento e guarigione essa non avrà risposta nell’intimo. Non è una lunga immersione in noi stessi, nell’intricato bosco metaforico che ci abita, ma un’emersione di noi stessi là fuori, o del paesaggio là fuori in noi, che conduce al vero. Scrive più avanti:
Cosa accadrebbe se lasciassimo il lupo fuori, lo rimettessimo nel mondo reale a cui appartiene? Cosa ne è delle storie che rianimano non solo le nostre anime, ma l’anima del paesaggio esterno, e che ci conducono alla relazione con esso? Le storie che sono incluse nel luogo, e che, imparandole, ci includono nel luogo a nostra volta? Quei miti che lo scrittore canadese Sean Kane definisce: ‘il potere del luogo che parla?’ (…). Questo non è un viaggio che avviene nelle nostre teste. È un viaggio che ci conduce fuori dalle nostre teste e ci ritesse nella ragnatela brillante della vita – la vita, con tutta la sua bellezza e il suo caos, le sue carezze e le sue spine, i suoi pericoli e le sue benedizioni.
Accadrà dunque che frequentando un certo luogo, restituendogli la narrazione che da esso origina, anche noi sentiremo le radici che si allungano. La scelta di Blackie è indicativa: raccontare di tropici o di vastità asiatica, nel mentre siamo nella brughiera scozzese non avrà mai lo stesso potere di realtà che ha il ritrovamento delle parole locali. Ogni storia ha il diritto di essere restituita alla montagna o alla secca o alla polla d’acqua che l’ha partorita, per poi riflettersi nei nomi umani. Risuonano alcune parole di un breve saggio su D. H. Thoreau (Thoreau, Vivere una vita filosofica), scritto dal filosofo francese Michel Onfray:
Thoreau non ama la natura umana, non tanto perché sarebbe costretto ad amare sé stesso, quanto perché probabilmente ritiene che, di fronte alla natura, l’uomo abbia un valore trascurabile. Quello che lo disturba nella formula ‘natura umana’; è l’aggettivo ‘umana’…
È la divisione fra umano e natura a rivelarsi ogni volta errata – partecipiamo della natura che ci compone e distrugge a suo piacimento, nonostante il ruolo dei distruttori sia stato difeso a gran voce da noi, negli ultimi due secoli. Rendere i nomi che avi umani hanno dato, senza scriverli, a certi anfratti o picchi, non significa dismettere l’umano, ma riportarlo dove dovrebbe stare, ridimensionarlo. E di conseguenza recuperare quella tregua che potremmo perfino chiamare grazia del presente. O del dono. Molte donne ne scrivono e lo mettono in atto. Sono sciamane contemporanee, sagge del luogo. Umane radicate in modo pratico e immaginativo. Ho incontrato il libro della Blackie proprio in un simile contesto di donne. Mi fu consigliato da una giovane finlandese, residente nell’Inghilterra sud-occidentale, durante un evento collettivo, al margine della brughiera del Dartmoor. Qui, la settantenne Carolyn Hillyer, per cui nessuna definizione è abbastanza – artista, studiosa di sciamanesimo, musicista, fabbricatrice di tamburi, cantante, donna della brughiera, aveva convocato il Braided River. A Confluence of Women: un’intera giornata presso la Village Hall di Scorinton. Centotrenta donne provenienti per lo più dall’Inghilterra. Dieci clan transitori per una giornata di tamburi, canti, poesie, racconti, sempre ricordandoci del luogo dove eravamo, presso il fiume Dart, che percorre il territorio, intrecciandosi al micro e macrocosmo. E ricordandoci dei corpi, del loro invecchiare, niente affatto sintomo di debolezza o invisibilità. In una landa antichissima come la contea del Devon, la vecchiaia è saggezza, magia. Carolyn esemplifica l’incontro di una vocazione artistica con le voci delle terre: i suoi viaggi, lo studio di lingue antiche e proto-celtiche, hanno arricchito la sua conoscenza del posto dove dimora, come se il Dartmoor fosse il punto del desiderio e del ritorno sulla mappa, il luogo dell’origine e della sosta, affiorante dietro ogni paesaggio. In quella sala confortevole, fra sedie, plaid e pelli, credo che tutte abbiamo sentito rafforzarsi un vincolo di sorellanza ben oltre le nostre persone, devozionale. Di devozione abbiamo bisogno. Non ecologia o ambientalismo da una parte, e dall’altra sfruttamento e consumismo, ma dell’affacciarsi di un moto votivo verso quel grande “là fuori”.

Di questa cultura devozionale si occupa la filosofa australiana Freya Matthews, un’altra che come Thoreau conduce una vita filosofica. Nel suo saggio, Riabitare la realtà. Verso un recupero della cultura, argomenta contro ogni dualismo e a favore del panpsichismo, cioè la capacità di riconoscere la psiche in tutta la materia, con un autentico moto animistico verso ogni cosa a cui ci rivolgiamo. La vecchia fabbrica dismessa o un condominio sono presenze del nostro mondo come un lago di montagna o una radura, e forse il punto di partenza sta nell’accettarli tutti in quanto dati, come parte del luogo. Riabitare il reale è prendere coscienza non del brutto e del bello, del tossico o del salutare, ma del luogo che ci esprime.
Ogni forma di ambientalismo basata sulla separazione tra ciò che è umano e ciò che non lo è, fatalmente finirà per ristabilire una forma di dualismo nel pensiero e nella prassi moderna, nonostante le migliori intenzioni.
Ovvero ci spingerà al pensiero astratto invece che alla conoscenza e all’amore per il dato. Certo, non sempre si riesce ad accogliere tutto, specialmente quando i nostri luoghi vengono brutalizzati. La Matthews apre il suo libro con il ricordo infantile della cavalcata mattutina fra i campi incontaminati. Quel luogo non esiste più. Costruzioni anonime, cementificazione sconsiderata hanno domato l’indomabile dell’infanzia, sopprimendolo. È un’esperienza comune a molti. Non servono tuttavia né il ripiegamento nostalgico né un tentativo impossibile di ribaltare quanto c’è, ora. Serve la memoria e che essa abbia una tale dignità da diventare cura. Cosa significa amare un luogo? Scrive la Matthews:
Questo amore per un luogo non è come altri amori, come quello per le persone o gli animali, per gli oggetti, le attività, gli ideali. Una persona amata, una cosa o un’idea, la possediamo, la teniamo fra le braccia nella nostra immaginazione, il nostro amore getta una luce vivida intorno a essa. Mentre un luogo amato ci tiene fra le braccia, anche se esiste solo nella memoria, e fa sì che tutto ciò che è al suo interno, noi compresi, brilli di quella luce vivida. Un luogo amato non è abbracciato dal nostro amore: siamo noi che siamo abbracciati, amati, portati alla vita, da lui. Nel moderno pensiero occidentale c’è poca consapevolezza di questa relazione tra il sé e il mondo, c’è poca attenzione alle categorie che esprimono il modo nel quale il mondo “ci fa spazio”, rispetto a quelle che esprimono il nostro modo di agire, di imporci su di lui. Eppure molti tra noi percepiscono questa posizione, riconoscono che in realtà siamo noi a essere accolti e provano una incontenibile, inesprimibile, emozione. Quando siamo testimoni di un luogo dove il mondo ci ha accolto, e che ora è seppellito dal cemento e dall’asfalto ed è avvolto dall’acciaio, così che ogni minimo respiro – il respiro che ci ha dato – è soffocato, proviamo in risposta un dolore inesprimibile. Ed essendo inesprimibile, non sappiamo fare altro che trattarlo come cosa di poca importanza, senza coltivare il sospetto di quanto noi stessi siamo impoveriti dalla fine violenta di quegli abbracci, di quelle relazioni, che sono le vere fondamenta della nostra esistenza.
E ancora:
Un luogo in particolare acconsentirà di diventare il nostro mondo, premuroso per noi, sincronizzato con noi: diventeremo la sua gente. Attraverso i luoghi il mondo reclama la sua gente.
Può essere il luogo dell’origine, quello dove ci troviamo a vivere, quello dove amiamo viaggiare o un incontro di tutti loro. Si tratta, spiega l’autrice, di comprendere il valore dell’essere indigeni oppure viandanti. Di affidarsi a quei saperi senza importanza perfino in certi uffici di enti ambientalisti, così irrelati al lavoro che vi si dovrebbe svolgere, ma imprescindibili per chi decide di essere coinvolto nel luogo – un luogo che sarà fatto di vicende umane, animali, vegetali, di memorie intrecciate nell’immaginazione di chi, finalmente, lo guarda. È questa la struttura poetica della vita, dove trascorrere non da turisti e saccheggiatori, ma in qualità di viandanti. La Matthews propone vari esempi pratici: la fattoria di una cara amica dove tutto trova posto, dal cucciolo di canguro a cancelli rugginosi riutilizzati per creare ripari per gli animali da cortile; dalla bestia ferita al vecchio vicino, al disordine creativo di certe piante, perché ciò che ci accoglie non è una rigida perfezione di spazi e tempi, ma piuttosto la meraviglia degli incroci, della volontà autonoma dei viventi di comunicare. Prosegue con l’avventura condivisa con amiche che decidono di risalire la corrente del Merri, il loro fiume, avanzando al contrario verso la sorgente, attraversando proprietà, luoghi urbani e selvatici, adattandosi, incontrando quali novelle pellegrine l’ospitalità di genti eterogenee. Da dove viene il fiume sepolto, il fiume la cui acqua è divenuta imbevibile per un crudele paradosso del progresso, che comunque canta le nostre e le sue ossa quando riaffiora? E trovando la foce, cosa troveremo di noi? Dobbiamo sforzarci di tenere aperta la domanda.
Il diario intenso di un soggiorno in un casolare semidistrutto, preso in affitto per lunghi periodi di tempo, conclude il libro della filosofa che, nella solitudine, in compagnia del cane e del gatto e degli anziani vicini custodi del luogo, scrive di quelle famose cose senza importanza, che pure così radicalmente ci commuovono quando infine le vediamo: la morte di una topina per opera del gatto, la sopravvivenza di una cucciolata di conigli, il rito pomeridiano del tè con i vicini, il grande senso di colpa e apprensione per le morti e i pericoli a cui tutto è sottoposto, e l’altro senso di riappropriazione di tutto quanto è vecchio come un valore, perché ricco di storia. Cosa vuol dire, allora e infine, riabitare la realtà, quale atto di fede umilmente in ascolto, poetico? Lottare, certo, cantare alle ossa (che significa parlare con l’antico), promuovere modelli d’esistenza sostenibili, non arrendersi davanti al disastro imminente. Essere soprattutto custodi del dato, come i figli che siamo o le sorelle, se preferite, di questo claudicante e portentoso avo e di tutta la sua famiglia: il piccolo luogo che parla la voce del pianeta.
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