Per capire l’escapismo – cioè l’abitudine di estraniarsi dalla realtà con lo svago e i modi più vari – bisogna partire da lontano. Perché, alla fin fine, è una filosofia di vita. Oltre che una complessa questione psicologica.
In copertina un’opera di gregory van maanen
di Filippo Rosso
Le traccia più evidente dell’origine magica del mito è che la quasi totalità delle figure sovrumane che vi sono presenti riuniscono in sé una natura contraddittoria, pre-logica e non semplificabile. Dioniso è il dio dalla doppia nascita, fulcro di una sfrenatezza che rafforza e stordisce; gli Oneiroi, i figli di Notte, popolano il sonno degli umani di sogni ingannevoli e veritieri; Giano è dotato di uno sguardo che abbraccia il passato e il futuro, e così via.
Ma la forma narrativa del mito è già un superamento della dimensione magica: questa crea i presupposti di una direzione privilegiata, percorribile secondo un pensiero logico, all’interno delle proprie contraddizioni. Allora, se la caduta di Icaro non può essere letta esclusivamente come regolamento della hybris, perché il pathos della tragedia si forma proprio nello slancio giovanile e nella ricerca della parte più nobile del cielo, serve tuttavia qualcuno che affermi che quella parte è anche la più pericolosa.
Il passaggio della parola magica all’epos narrativo coadiuva la nascita di un messaggio più povero dimensionalmente, più diretto, più trasmissibile. Riduzione che, come prevedibile, non è senza conseguenze. L’effetto principale è una polarizzazione: da una parte, i fautori del mito come strumento di ordinamento del cosmo, dotato delle proprie leggi e di un proprio realismo; dall’altra, i rivendicatori di un luogo dai significanti intatti ormai perduto.
Entriamo quindi nel merito della questione. Non si può valutare l’escapismo senza includere nell’analisi questi momenti preliminari e, soprattutto, immaginandolo un prodotto indipendente dalla società che lo genera. Non solo, ma è solo rispetto alle varie forme di potere presenti in quest’ultima che possiamo definirlo. Come si trattasse di un buco nero, la sola mappa possibile dell’escapismo è quella tracciata circoscrivendo i suoi limiti: perciò non tanto prendendo in esame le motivazioni psicologiche dietro le fughe, ma cercando di capire il giudizio che ne dà la società.
La morte realista
Non esiste secolo e società che non abbia conosciuto azioni di tipo normativo, quasi sempre basate su una logica data per univoca e facenti uso di specifiche forme narrative. Solo nel cosiddetto Occidente tali “guide” si sono trasferite in ogni campo del pensiero, dalla Grecia a Roma e poi durante tutto il Medioevo, fino alla modernità, sia che si tratti di un corpo informale non scritto di costumi e precetti, o della definizione di “romano”, “cristiano”, “retto” e così via.
-->Ogni epoca ha conosciuto i propri sognatori, i fuggitivi, gli escapisti: individui che forzano, o vorrebbero forzare, i recinti della realtà narrata per approdare a un altrove che non controllano né conoscono completamente (e non potrebbe essere altrimenti: non disponendo di una narrativa alternativa, possono fare affidamento solo sul linguaggio magico e poetico, o dissonante, come quello dei folli).
Possiamo iniziare dal dato più evidente, notando come la società ha spesso cercato di difendere la sua realtà da questi “strappi” facendo ricorso all’intervento di forze censorie come la morte, l’oblio e la cancellazione. Il fatto che sia proprio la morte a punire Icaro (e non qualcosa di meno definitivo) esprime soprattutto la necessità di rimarcare l’appartenenza dell’uomo alla sfera terrestre, in termini non metaforici ma sostanziali. Il volo è sempre ardito: il memento mori che sostiene il pensiero di Democrito e Marco Aurelio è anche nello scetticismo dei concittadini dei fratelli Montgolfier verso il pallone, o nel braccio alzato dal vecchio che ammonisce il bambino per l’azione proibita.
La morte e il divieto sono quindi il realismo per antonomasia: ma qui subentra il problema successivo. E cioè che cercando di risolvere i pericoli di una fuga dal reale appellandosi alla norma della morte, i realisti dimenticano che la morte non è meno contraddittoria: al contrario, la sua eternità riaffonda nella materia originaria del mito, nelle sue bi-unità, negli opposti compresenti. Il nulla rigenera velocemente il cosmo che nella sua interezza torna a consumarsi.
Vale a dire che l’assurdo irriducibile rimane nelle pieghe di un effetto incompleto nonostante la morte: mentre la mano destra di Tanato afferma il primato dei messaggi univoci, la sua mano sinistra ci sottrae al tempo e ci restituisce a uno sfondo in cui tutti gli opposti sono mescolati, e questo mondo non è pronunciabile dai vivi se non spezzando la parola, e cioè morendo.
Di nuovo, ecco che si mette in moto la narrativa, per cui facciamo nostre solo le rappresentazioni enunciabili, anche della morte. La consolazione della sepoltura agisce come la normalizzazione del mito: fissando gli estremi spaziali (il luogo di sepoltura) e temporali (le date di nascita e di morte) crea l’illusione che il morto sia ancora rintracciabile, mascherando la consapevolezza che questo è scivolato in un altrove privo di legami con la realtà, prima e dopo del tempo, perché “quando lascerai questa vita […] mite e festoso ti appaia il volto di Cristo e possa tu contemplarlo per tutti i secoli in eterno.“
Superando la narrativa, l’escapista compie il gesto di porsi fuori dal momento presente. Lo scopo ultimo della sua fuga non riguarda un luogo, ma il tempo. E non perché l’escapista cerchi la morte (o l’immortalità), ma semplicemente perché solo abolendo il tempo può rendersi irreperibile alla realtà condivisa, con la quale non riesce a solidarizzare. Fosse un nostalgico, o un impaziente, avrebbe modo di trovare delle dimensioni ascrivibili a questa narrativa, trattandosi in entrambi i casi di un rapporto con un tempo continuo rispetto a questo. Ma la fuga escapista comporta invece un passaggio non esplicabile, una discontinuità: è rivolgersi a uno spazio senza tempo.
La rappresentazione dell’atemporalità
Ma allora perché non appropriarci a nostra volta dell’idea della morte per rappresentarla? Perché facciamo più fatica a paragonare l’escapista al suicida, abusando invece dell’immagine del prigioniero che evade dalla propria galera?
La risposta a queste domande sembra trovarsi in un problema di rappresentazione: l’assenza di tempo, in sé, non è rappresentabile e ha bisogno, per esserlo, di uno spazio in cui ci sembra che il tempo sia sospeso.
Proprio su queste pagine Tommaso Guariento ha portato all’attenzione il fatto che paradiso e giardino hanno la stessa etimologia, ciò perché appunto si tratta – così nel testo – di “recintare l’infinito”. E infatti è proprio la Natura il costrutto che si mostra immediatamente all’occhio umano come atemporale, intendendo con “natura” non il teatro dei processi evolutivi (quelli sì temporali) ma la loro ciclicità e le configurazioni apparentemente immutabili che la pongono fuori dalla Storia.
Si capisce quindi perché la metafisica di Giacomo Leopardi, che non a caso finì per sovrapporre Natura e amoralità, parta da un’apertura nella siepe del giardino; perché la pianificazione del giardino buddista vada di pari passo con la sospensione dell’atto meditativo; e che la borghesia abbia pianificato cortili, parchi e backyard come luoghi per esercitare l’atto simbolico di riappropriazione del selvaggio.
L’infinito recintato sono anche le città ideali del Rinascimento, nel loro quadro di piazze, fughe prospettiche e baricentri. Qui lo spazio geometrico astrae la Natura e la rende superflua, ma il procedimento è il medesimo: è in atto una rimozione degli elementi di disturbo, una schematizzazione semplificatrice dell’Incontrollato.
Riguardo questo punto, è utile un’ulteriore riflessione sui modi di rappresentazione del paradiso e i suoi legami con la fuga. Quando l’umanità si sforza di immaginare un mondo preferibile a questo, piuttosto che comporre il quadro di un mondo migliorato, tende all’idea precostituita della perfezione. Il dilemma utopistico, e quindi dell’escapista, risiede proprio nell’impossibilità di colmare la distanza che separa queste due sfere e di poterla narrare.
Di nuovo, siamo soggetti a ragionare nel tempo: ma tutte le forme utopiche che l’umanità ha prodotto nel corso dei millenni possono esistere solo in una cornice atemporale, in un “tempo senza tempo”, che rende addirittura giustificabile il fatto di poterle situare contemporaneamente in un’età dell’oro precedente e successiva alla Storia. Il paradiso sarà sempre in terra (Europa, America), ma questo comporterà un reset della cronologia (damnatio memoriae, revisionismo, calendari rivoluzionari).
Per colpa di questi voli pindarici è infinitamente più facile descrivere una società ideale come si trattasse di una fotografia, che “montarla” in un flusso coerente e razionale, renderla viva. Per lo stesso motivo i sogni si possono ricordare a tratti, non del tutto, e dopo qualche ora sono irrimediabilmente svaniti.
Novecento: i poteri temporali
Il moderno termine “escapismo” fa la sua comparsa all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso nell’Encyclopaedia of social sciences, che lo definisce vagamente come il fenomeno di chi con la mente ricerca “distrazione della realtà o dalla routine”.
In quegli anni ritroviamo il termine in uno strale dello scrittore e critico John Crowe Ransom contro gli esponenti della borghesia progressista colpevoli – a suo modo di vedere – di minare le basi della società statunitense auspicando una maggiore industrializzazione.
Lo ritroviamo nelle varie applicazioni del marxismo nel contrasto con il liberalismo: il sogno ad occhi aperti del singolo è incompatibile con le aspirazioni di ordine maggiore della collettività, o come affermato da Luigi Einaudi: “dove c’è una sola volontà – lo Stato, il Partito, il Capo – che impone il suo volere, lì non c’è libertà e perfino la stessa libertà del pensiero è negata se il pensiero non è esprimibile perché avverso all’unica volontà valida.”
Qui l’escapismo dell’intellettuale coincide per molti versi con la sua eterodossia: da Ernst Bloch (i sogni lucidi che guardano al futuro) ad Andrei Tarkovsky (si guardino Andrei Rublev e Mirror nel contesto, più generale, di cosa la fantascienza e la musica elettronica hanno rappresentato per le giovani generazioni di sovietici) fino a Italo Calvino (gli uomini rifugiati sugli alberi, le città immaginarie, l’enciclopedismo, l’astrazione matematica).
Il dato comune che emerge nel secolo scorso è che trasversalmente alla società in cui si manifesta, nelle sue varie forme l’escapismo smette di essere visto come una forma di fuga che riguarda unicamente l’individuo, idea appartenuta al mondo romantico-borghese del XIX secolo, ma torna a essere segnatamente una contravvenzione dell’individuo nei confronti del potere, in modo simile a come poteva essere il comportamento eretico durante i periodi inquisitori.
Tale condanna è avvenuta (e avviene) in maniera più violenta nei regimi dittatoriali, ma resiste in forme meno rigide anche negli stati democratici, con l’ovvia considerazione che fa più rumore trasgredire a un impianto dittatoriale che fare propri, riattivandoli, i continui incoraggiamenti all’evasione offerti dalla società capitalista.
Duemila: ritorno al singolo
Arriviamo quindi alle odierne definizioni. Quella fornita dal dizionario di italiano Hoepli non si discosta molto da quella di inizio Novecento. L’escapismo è la:
“Condizione psicologica caratterizzata dalla tendenza alla fuga dalla realtà, dai problemi, dalle responsabilità.”
Ma già l’American Psychology Association fornisce una definizione più articolata:
“La tendenza di fuggire dal mondo reale per piacere o per il senso di sicurezza fornito da un mondo di fantasia. L’escapismo può riflettere un impulso ricorrente, normale e comune, come può essere un innocuo sognare a occhi aperti, o l’evidenza o il sintomo accessorio di una neurosi o patologie mentali più serie.”
Quest’ultima definizione è interessante perché accorpa le due interpretazioni di base, il fenomeno benigno a cui si richiama lo stesso Freud nel riconoscere la necessità di rifuggire dal reale (ma suggerendo l’esistenza di una parte “difettosa” nella coscienza degli individui e nel loro rapporto con la società) e la patologizzazione delle fughe illustrate da Foucault nella Storia della follia o la loro rimozione nell’ordine sociale come mostrato da Deleuze e Guattari ne L’Anti-Edipo.
E lo è ancora di più perché l’escapismo può tornare a essere “normale” in un modo ancora diverso: trasformandosi in una forma di rivendicazione dei propri spazi.
Ne sembrano convinti i coach di discipline recenti come l’NLP e, in generale, di tutte quelle pratiche che si pongono come obiettivo quello di migliorare il rapporto dei singoli con la società in cui vivono attraverso la conquista di una maggiore autoconsapevolezza. Qui ad esempio E. B. Johnson, una life coach statunitense:
“Smettiamola di guardare all’evasione come a qualcosa da evitare, e abbracciamo il potere del “non fare niente“. Anche se ci è stato detto che il piacere è la via del vizio e del fallimento, niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Dare a noi stessi lo spazio e l’opportunità di staccare [reset] è una gentilezza che dobbiamo a noi stessi e al nostro benessere.”
Si può conciliare questa definizione con le due precedenti?
La risposta più soddisfacente che ci si può dare è che all’interno di una società da valori e morale irriducibilmente contraddittori, l’escapismo non può che tornare a essere un fatto relativo all’individuo, che deve anche sapere come raccogliere quell’”opportunità di staccare” offerto dalla stessa società che opprime. Il tardo capitalismo, come sistema di potere, non solo non si sente più minacciato dall’insubordinazione ma, non potendo offrire nuovi margini di benessere sociale, è costretto a intercettare e guidare la crescente domanda di generi di intrattenimento e di fuga dal reale, utilizzando questi prodotti come moneta di ricompensa all’alienazione.
Il disertore e la sua guerra
Un modo efficace per fare luce su questo ultimo aspetto, continuando a utilizzare il criterio che ci siamo prefissati, è addentrarsi nella letteratura psicologica, tutta pressoché concorde nel sottolineare il carattere problematico dell’escapismo. Per riportare un caso emblematico, in uno studio psicologico del 2015, tre ricercatori statunitensi hanno analizzato varie forme di escapismo presenti nella cultura geek.
L’ambiente di analisi del paper è la maggiore convention di cultura fantasy e multimediale degli USA, la Dragon Con. Qui, secondo i ricercatori, “l’engagement” (ovvero appartenere in maniera entusiastica alla comunità) “dei geek è associato a un elevato narcisismo (grandiose narcissism), all’estroversione, all’apertura all’esperienza, alla depressione e valutazioni soggettive di benessere”.
Ciò che si suggerisce tra le righe è che l’escapismo non può fungere che da contenitore in cui far ricadere un insieme del tutto eterogeneo di attitudini, di personalità e di comportamenti, visto che i motivi della fuga (siano queste in un mondo fantasy, futuristico o distopico) dipendono da una serie ampissima di fattori. Detto altrimenti, è come se i ricercatori, mentre cercano di definire una strategia per fissare possibili pattern ricorrenti all’interno del fenomeno, ne suggeriscano allo stesso tempo la loro impraticabilità.
Il problema dell’analisi dell’escapismo partendo dalle sue ragioni interne rimane: perché come scrive J. R. R. Tolkien in “On Fairy-Stories”, ci sono sempre almeno due modi di intendere la fuga: “l’illegittima fuga del disertore che scappa dalle proprie responsabilità e quella legittima del prigioniero che evade dalla propria galera”. E non solo: si potrebbe ribaltare il valore morale delle due azioni, mostrando come negativa la fuga dal carcere (il caso di un reo non pentito) e positivo il disertare (il rifiuto di contribuire a una guerra criminale), ottenendo un’affermazione altrettanto convincente.
Le precondizioni dei gesti individuali si confermano specifiche e non semplificabili: la fuga è uno di questi. Qui un pensiero trascendente potrebbe essere rivelatorio di una falla, altrove tramutarsi in rêverie maliziosa, mero gioco mentale o whishful thinking.
La legittimità della fuga non dovrebbe essere messa in conto: bisognerebbe piuttosto capire cosa comporta, quali effetti genera su chi la mette in atto e sulla società in cui avviene. A riguardo, la psicologia ci mostra gli effetti di lungo raggio dell’escapismo sugli escapisti e quindi potrebbe rivelarsi come un interessante punto di partenza per un’analisi più approfondita.
La realtà aumentata
Si può concludere mostrando un aspetto notevole del rapporto tra escapismo e realtà che finora non si è preso in considerazione. Rimanendo all’esempio delle community del Dragon Con, bisogna riconoscere come i geek, rifuggendo le forme della realtà, ne creino a loro volta delle originali. Ciò che l’analisi psicologica non può rivelare, è che non solo la loro fuga non ha necessariamente l’obiettivo di rompere del tutto i legami con il mondo, né tantomeno di sovvertire l’ordine politico e sociale, ma crea nuovi modi di starci, di riformulare il rapporto con la realtà costruendo delle strutture in grado di aumentarla.
Si pensi alle nuove identità e alle forme portate dall’avvento degli anime in poi (buona parte dei turisti in visita a Tokyo visita l’Electric Town e Shibuya prima ancora del palazzo imperiale) o a come alcuni filoni della fantascienza, in particolare il cyberpunk, abbiano fecondato l’immaginario contemporaneo al punto che è diventato virtualmente impossibile non sovrapporre le immagini di Blade Runner o di Akira alle vie illuminate dai neon delle città giapponesi.
L’immaginazione crea vincoli tangibili e duraturi nella realtà, aumenta il cosmo, moltiplica le sue sfaccettature. Lo stesso mito della fuga si arricchisce di nuove narrative, alimentato dalla necessità di trovare un eden al riparo dalla Storia e dal senso di precarietà contemporanea. Si moltiplica il desiderio di colonizzare altri pianeti, avanzano le offerte per le vittime del wanderlust, si creano nuove forme di isolazionismo. Sono utopie collettive o resort esclusivi?
Aggiornando quanto scriveva Ursula K. Le Guin nel 1979, che “il falso realismo è la letteratura evasiva del nostro tempo e, probabilmente, la lettura d’evasione maggiore è quel capolavoro di totale irrealtà che sono gli indici quotidiani delle borse”, lo scollamento con la realtà diventa oggi ancora più reale. Più il mondo diventa volatile e astratto, più le idee e i concetti acquistano peso. Nel ricucire il rapporto con il reale, paradossalmente, l’immaginazione potrà venirci in aiuto.
Filippo rosso: Nel 2001 ha scritto s000t000d, uno dei primi, se non il primo ipertesto narrativo in Italia. I suoi contributi sono apparsi su diverse riviste. Da marzo del 2020 è caporedattore di Singola Rivista.
Vive a Berlino.
Ottimo articolo, scritto magistralmente, intorno a tematiche che non conoscevo potessero venire studiate. L’articolo introduce il lettore fornendolo con chiarezza e sintesi degli strumenti ermeneutici necessari (che in verità sono i prerequiditi alla comprensione) storici, mitico-religiosi, psicologicia e socoologici, a introdurlo alla questione complessa di cui tratta, l’ “Escapismo”. Le prospettive sul tema alle quali è introdotto il lettore permettono e gli petmettono di orientarsi come ho detto nel soggetto e soprattutto di capire l’interpretazione o interpretazioni, credo molto originali (non solo teoriche) a cui arriva l’autore stesso. Prendere coscienza dei lati positivi del fenomeno “escapismo” in generale, al fine di capire la società e soprattutto noi stessi che a tale società ognuno a suo modo appartiene volente o nolente insider o outsider che sia. L’autore giunge alla conclusione che “fuggendo” da essa l’outsider, il solitario, l”emarginato forse intimamente se ne vuole rippropiare in una dimensione. Oltre la spesso spietata vita quotidiana in chiave di armonia e sanità mentale. Un grazie sentito dunque a Filippo Rosso ancora prima che per l’arricchimento meramente intellettuale che con maestria sa offrirci soprattutto per l’impegno decisamente etico (che si evincenin diversi punti) di migliorare la nostra condizione di uomini multidimendionali nella società anch’essa poliedrica e sfaccettata. Lontano tanto da clamori o frastuoni di falsa militanza fel padsato quanto dalla ricerca del accademica di fabbrica ovverosia quella fine a se stessa. Un grazie sincero e pieno di gratitudine da chi come me era digiuno di queste tematiche