Un’agiografia dei nostri tempi.
di Enrico Pitzianti
Nel guardare la serie originale Netflix The OA è di particolare interesse la costruzione estetica di Praire, la protagonista.
Prairie è giovane, bionda, alta, bella e in qualche modo sembra circondata da un’aura di purezza. L’aspetto nordico, il pallore, le dita affusolate, gli occhi grandi, espressivi, costantemente emozionati se non sofferenti, come a dimostrare un’empatia superiore ai comuni esseri umani. Una super-scandinava, oppure la figlia di ricchissimi oligarchi russi cresciuta nella classe media statunitense (questa la sua storia in The OA). Prairie ha indomiti capelli voluminosi biondo cenere, che ben si accostano con labbra perennemente colorite, quasi frutto dell’effetto di un rossetto naturale. Il vestiario è femminile ma non ammiccante, confortevole se non casalingo. È genuina, indossa abiti casual con qualche riferimento agli anni ‘90, vestiti sciatti e svolazzanti, alternati a cappucci funzionali e cardigan a tessitura grossa dalle tonalità pastello. Una protagonista umile, che brilla di una singolarità interna.
Prairie sembra una giovane donna altolocata che si impegna nel mantenere un basso profilo, sia dal punto di vista estetico che in merito alle sue capacità sovrumane. Eppure rivestire una protagonista di un’allure eterea da salotto borghese è piuttosto banale; ci si ritrova con una ragazza che, come nella tradizione stilnovista della donna angelicata, rappresenta l’anima contrapposta al corpo, che ovviamente riuscirà a trascendere in nome di un disegno superiore.
Le sue principali capacità sono una spiccata emotività e una fervida immaginazione. O meglio, queste sono le caratteristiche che la rendono “speciale”, perché, se non si fosse capito, non è una ragazza qualunque, è the “OA”: acronimo di Original Angel. E come gli angeli è eterea, intoccabile, incurante di tempi e spazi, dotata di poteri taumaturgici.
Insomma si parla di una prescelta, una santa contemporanea, informale, spirituale, jodorowskiana. Se fosse italiana la si immaginerebbe raccontare, magari a casa di Erri de Luca, delle grandi gesta di Íngrid Betancourt. Tutto sommato lo spettatore potrebbe anche godere di un’eroina simile, se non fosse che il desiderio di essere speciali è ormai macchiettistico, lo strascico della tendenza a considerarsi “unici”, piuttosto che parti determinate da un sistema culturale, sociale ed economico. Insomma Prairie e la sua estetica raccontano una visione del mondo fatta di destino e dell’impossibilità di opporvisi.
Se la fine dell’ideologia ha spento i visi delle fanciulle intelligenti (e benestanti) rendendoli dei ritratti secenteschi, Prairie è la tipetta testarda che rimane idealista e sognatrice e che, al contrario degli sfiduciati, dei nichilisti e degli inappetenti si dimostra sicura di sé, sebbene incapace di sviluppare un giudizio critico sulla propria condizione di privilegiata.
-->La narrazione che accompagna il personaggio rimarca un’essenza “mistica” che si manifesta soprattutto nei sogni, con delle visioni di mondi stellati abitati da guru gitane. Prairie è una giovane illuminata, una piccola Osho in chiave postideologica, sa cose del mondo che gli altri ignorano, ma è incompresa e osteggiata – come qualsiasi eroe o eroina, certo, ma lei è vittima di un potere addirittura trascendentale. Prairie soffre e subisce le ingiustizie a testa alta, e, come in un martirio, ne esce vincitrice, bellissima, in un trionfo sofferente.
Viene spontaneo immaginare che, se Prairie fosse “reale”, sarebbe una ragazza che fa yoga su un pavimento in legno chiaro, come quello della casa che ospita le sue sedute nella serie targata Netflix. Bionda o meno avrebbe di sicuro il septum, simbolo comune del nuovo gitanismo di facciata, parlerebbe di teatrodanza e di parto in acqua, insomma, in ultima analisi somiglierebbe a una giovane madre che simpatizza per l’universo omeopatico. Un personaggio “liquido”, come l’aggettivo Baumaniano che lei stessa userebbe in discorsetti da caffè letterario, liquido come l’acqua, elemento prediletto degli occidentali impegnati a tornare “spirituali”. Acqua che, nella serie di Netflix, connette Prairie alla sua natura speciale, attraverso una tortura impostagli da uno scienziato cinico, accecato dalla ragione. Ma anche se Prairie sa di essere speciale, un po’ come tutti i figli della borghesia che pretendono di fare gli artisti o gli scrittori, sarà lei a decidere quando manifestarsi e non lo farà certo in un freddo e asettico laboratorio, ma nel momento del bisogno dei suoi affetti.
L’acqua che scorre nella sua cella e apre le porte della sua natura superiore è la stessa che dimostra la natura aliena di Eleven, la ragazzina speciale di un’altra serie Netflix, Stranger Things. In entrambi i casi, dopo l’immersione in acqua, sanguina il naso e l’immaginazione viaggia incontrollabile, liberando la vera natura di un superumano in tutto e per tutto banale. Perché chi gioisce con queste protagoniste capaci di sanguinare e vincere battaglie ha una visione borghese e stereotipata quanto quella maschilista à la principe azzurro.
Ci sono molti prodotti culturali che strizzano l’occhio alla new age. Il misticismo pop à la Franco Battiato esiste in mille declinazioni: c’è la variante usata dai fascisti colti come Julius Evola, con confusi rimandi ai protocolli dei Savi di Sion, e c’è quella ibridata dall’estetica digitale di artisti come Grimes, più simile a Prairie. La base comune è una sensibilità che si presume speciale, “unica”, unita a rituali e simbolismi di derivazione orientale. Si tratta di un’isotopia estetica che nella maggior parte dei casi si rivela superficiale, sebbene alcune delle idee inscrivibili nel panorama misticista e neo-hippie possano dimostrarsi fondate. C’è differenza, insomma, tra l’acqua diamante (che è una bufala pseudoscientifica) e la meditazione.

Nell’ampio minestrone che comprende yoga, performance ironiche e filosofie orientali è facile osservare un filone estetico ben rappresentativo del panorama artistico contemporaneo, nel quale una narrazione come quella di The OA si inserisce di diritto. Si tratta di spiragli verso l’irrazionale, che sanno conquistarci in nome della stessa logica che sottende la credenza religiosa vera e propria, un ottimismo utile all’autostima. In questo panorama così ampio ce n’è per tutti, dalla spiritualità delle motociclette alla Robert Pirsig alle versioni edulcorate dell’oroscopo di Brezsny. Dopo Stranger Things il soprannaturale per i clienti Netflix si dimostra ancora come un contentino anti-materialista, per chi non si rassegna a essere un mammifero intelligente e perfettibile, schiavo di istinti e corporeità.
Alcuni non hanno amato che The OA peschi a piene mani da tradizioni mistiche orientali. Altri hanno risposto che non c’è da indispettirsi, perché il simbolismo è la chiave della narrazione: non il teatrodanza e le magie di una “Sharazād bionda che incanta il pubblico per salvarsi la vita”, ma una nuova versione di Lost. Effettivamente il gioco narrativo è forte, il simbolismo interessante e la regia eccellente, ma se la banalità della protagonista e del suo circolo di perdenti supera in prevedibilità qualsiasi stereotipo, la possibilità di godere della storia non può che venirne indebolita. Se il cuore profondo della narrazione è una coreografia che pare quella di un video di Sia, la superficie rischia di decadere e di collassare nella vacuità di una ragazza che sembrava speciale, ma somiglia di più all’ennesima stronzetta alto borghese.
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