Un tour tra i segreti di Una visita al Bates Motel, in compagnia di Guido Vitiello
In copertina: Pietro Annigoni, Il fantasma (casa abbandonata), (1983) –Asta Pananti di ottobre
Per condurci a visitare il Bates Motel, il leggendario set di Psycho, Guido Vitiello, professore di Teorie del cinema alla Sapienza, ci porta per mano sornione ripercorrendo le impronte dello stesso Alfred Hitchcock, che nel trailer del film conduceva l’occhio dello spettatore a spasso per il set, mentre con l’intento di incuriosire senza svelare troppo ci invitava: let’s go inside…
Non poteva dire troppo Hitchcock, trattandosi Psycho di un thriller, nonché di una pellicola in cui il massimo dello sgomento è ottenuto col minimo di sangue versato. Versato per altro quasi tutto in una singola scena destinata a divenire celeberrima e costruita con maestria grazie a un montaggio serratissimo e a una colonna sonora tagliente (l’effetto cercato da Hitchcock era dichiaratamente quello di “strappare lo schermo stesso, lacerare la pellicola”), scena della quale naturalmente era meglio non far vedere neppure un fotogramma in fase promozionale. Tutto il contrario fa invece Vitiello, scrivendo un libro che può essere considerato una magistrale ecfrasi di tutto il film, di cui riesce a farci apprezzare le atmosfere e i sottesi motivi misterico-iniziatici con la passione di un miniaturista prestato alla filologia cinematografica, ma anche con la grazia di chi lo fa raccontando una ammaliante back-story. Un tipo di passione che credo sarà subito riconosciuta da tutti quelli che hanno provato una venerazione maniacale per qualche opera d’arte. La precisione teorica e l’ironico detach fanno il resto, un esempio delizioso di come una sottile ossessione spinga a collezionare opere e interpretazioni può essere rappresentato da frasi come “non bisogna perdere fiducia nei solai”, perché è proprio da quelli da che possono saltar fuori pellicole andate perdute o magari quadri in grado di consentirci una lettura imprevista anche rispetto all’interpretazione esoterica di un film (come vedremo tra poco). Ma prima di arrivare a questo è utile considerare come Hitchcock parlava della ricezione di questa sua opera:
“In Psycho del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico. […] Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che lo ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico, è stato il film puro”.
La passione per i dettagli, oltre che di Vitiello, era eminentemente del regista e di Norman Bates, il gestore del Motel teatro della vicenda, una passione fatta di oggetti velatamente inquietanti – come gli uccelli impagliati – o una serie di dipinti classici, che uno sguardo disattento potrebbe prendere per banali oggetti d’arredo e che invece nascondono chiavi di lettura precisissime. Il salottino di Norman si presenta infatti come “boudoir erotico, gabinetto di curiosità, studiolo di collezionista, maison-musée”, e a un occhio attento non sfugge come “il tracciato mitologico che queste opere compongono rivela l’intima necessità di una costellazione”, per dirla con Vitiello. Il livello della tensione sale anche grazie a espedienti sottilissimi, come l’osservazione che Norman fa alla sua ospite, cui confida di “non saper nulla della vita degli uccelli, e di amare soltanto i loro occhi quando la tassidermia li rende impassibili. La caccia d’amore gli è preclusa. È l’essenza nera dell’eros metafisico: la venerazione di un trofeo di caccia senza caccia, senza i pericoli a cui si espone il cacciatore nella rincorsa, senza la minaccia di vedersi sfuggire la preda”. Tutto sta a saper unire i puntini, possibilmente tenendo presente che “la Wunderkammer nasce dal reliquiario; e che la più antica collezione è collezione di morti”.
Abbiamo accennato ai livelli iniziatici nascosti da Hitchcock (come giusto un Diavolo avrebbe saputo) nei dettagli d’arredo del Motel e della villa dei Bates. A riguardo Vitiello osserva: “L’allegoresi sale poi di grado, fino a coinvolgere il film e il suo spettatore, per il diletto degli scolastici hitchcockiani e delle erinni del femminismo accademico. Il fascio di luce che filtra dal foro a cos’altro allude, se non al proiettore cinematografico? E lo spettatore non è forse imputato della stessa colpa di Norman, godere di uno sguardo lubrico e omicida?” In effetti è opportuno chiedersi a chi sia rivolta la sfida della soluzione di un rebus così ben intessuto, se a chi cerca tracce all’interno dei fotogrammi della pellicola o piuttosto a chi sarà chiamato a vivisezionarla guardandola. Del resto l’amore, ci dice ancora l’autore, è una malattia degli occhi, una ophtalmia, e una più ampia riflessione attorno allo sguardo sembrava nel 1960 aver investito con forza il cinema internazionale, quello è stato infatti l’anno “dell’Occhio che uccide di Michael Powell, l’anno di Occhi senza volto di Georges Franju, l’anno del Diabolico dottor Mabuse di Fritz Lang, con i suoi mille occhi. L’anno di Psycho”. Tornando alla forma dell’enigma così come si proponeva allo sguardo disattento di Arbogast, Vitiello nota come “Il rebus mitologico di Fontainbleau si presenta di sfuggita al detective Arbogast, che proseguirà la visita dal punto in cui Marion è stata fermata. Non sa di avere sotto gli occhi una chiave dell’enigma; non capisce che le Grazie, dal fondo del quadro, gli stanno dando l’imbeccata discreta sul luogo dove potrebbe ripescare il cadavere della donna”. Nel quadro delle Grazie è in effetti presente uno stagno, tale e quale a quello melmoso in cui Norman Bates ha fatto inabissare la macchina della bella Marion (certo c’è da dire che per accorgersene può essere utile avere in dotazione un ferma-immagine). “Povero Arbogast, private eye! Le Grazie gli hanno indicato il luogo dove cercare Marion e lui non se n’è accorto, chino com’era sulle sue indagini terrene.” Che la trama di indizi ermetici a tema mitologico sia tessuta in modo sostanzialmente perfetto è confermato anche dalla ferita fatale inflitta al volto del detective: gli taglia l’occhio sinistro, esattamente quello preso di mira da Cupido in tutta l’iconografia che lo ritrae a difesa di Venere (e non per niente Hitchcock piazza un Cupido proprio lì, nel disimpegno d’ingresso di Casa Bates: “L’indagine ha dato i primi risultati. Cupido è il mandante dell’omicidio di Arbogast; l’arma, le saette degli sguardi”).
Per entrare più a fondo nelle stanze del libro che ci conduce in quelle del Bates Motel è il caso di coinvolgere Guido Vitiello nella discussione e rivolgergli alcune domande per cogliere in tempo la trama di ammiccamenti iniziatici e non finire così con la pupilla trafitta dal dardo di un Cupido in bronzo indispettito. A partire dal trailer in cui Hitchcock porta gli spettatori all’interno del Bates Motel, tutto ciò che ruota attorno a Psycho si tinge dei contorni di una sfida che il regista muove a chi guarda il film: osservate i dettagli – sembra dirci – perché se non li notate rischierete di fare la fine del detective.
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Questo mi ha fatto intravedere una dimensione ludica nel film: è possibile che il regista oltre che dalle chiavi metafisiche fosse attratto dal motivo del rebus o schiettamente del gioco intellettuale con cui sfidare lo spettatore?
Vitiello: “Una tradizione di film rompicapo e di sfide allo spettatore era esistita ben prima di Psycho – quella dei Preisrätselfilm ideati negli anni Dieci da Joe May, con tanto di premi in palio a fine proiezione – ed è stata ripresa in anni recenti, a fini più o meno velatamente promozionali, da Lars von Trier per Il grande capo e da David Lynch per Mulholland Drive (in questo caso, il premio era un viaggio per due persone a Los Angeles). Ma non c’è niente di più lontano dall’idea di cinema di Hitchcock. A lui non interessavano i rebus intellettuali, gli interessava semmai la guida delle emozioni dello spettatore, e le due cose stavano in un rapporto di reciproca esclusione. L’unico gioco apertamente enigmistico nei film di Hitchcock, ossia la ricerca delle sue fugaci apparizioni, dei suoi cameo – una specie di Where’s Waldo? a cui il pubblico si era affezionato – cercava di sbrigarlo nei primi minuti, perché non distraesse troppo a lungo dalla storia”.
In Psycho è presente, sebbene in modo molto sottile, un vero e proprio percorso di rivelazione iniziatica, basato su un’iconografia fatta di quadri e statue – passiamo da Susanna e i vecchioni ai misteri eleusini (il tutto è ricostruito da te in modo dettagliatissimo anche sulla scorta di un’ampia letteratura teorica a riguardo). A questo proposito ti rivolgo una domanda che tu stesso poni nel volume: perché Hitchcock scelse di tenere quasi nascosto un museo così laboriosamente allestito?
“A un primo livello, la risposta è semplice: da narratore hollywoodiano e da maestro dell’understatement, Hitchcock non si sarebbe mai permesso di distogliere lo spettatore dalla suspense con un simbolismo troppo esibito o con un gioco cerebrale da film-saggio sovietico. Usò quelli che Susan Sontag, parlando di tutt’altro film e di tutt’altro regista, chiamò gli strumenti del malinconico – le allegorie, i talismani, soprattutto le “autoreferenze segrete” – e li dispose in un luogo magico, reggia divina e casa stregata, maison-musée e Wunderkammer. Perché si diede tanta pena ad allestire una creazione destinata a rimanere pressoché invisibile? Anch’io mi sono fatto mille volte la stessa domanda, ma al momento di scrivere il libro ho preferito – hitchcockianamente – non indugiare troppo sulle mie congetture, che avrebbero distratto il lettore dall’essenziale. Il titolo promette una visita al Bates Motel, non uno svelamento dei demoni interiori di Hitchcock né una decifrazione esoterica di Psycho, e io ho cercato di tenere fede alla promessa. Del resto, Psycho si può vedere come una successione di visite al Bates Motel – la visita di Marion, la visita di Arbogast, la visita di Lila – sempre più addentrate, sempre più pericolose. C’è poi la visita di Hitchcock, in quel lungo trailer in cui recita la parte della guida turistica. E in ultimo la mia visita, che è della stessa natura delle altre: di qui lo strano rapporto mimetico che il libro ha con il suo oggetto. Ho voluto rivisitare quei luoghi, con tutto il batticuore e la suspense mistagogica del caso, e comporre su carta la mia piccola Wunderkammer”.
Una visita al Bates Motel è un libro molto particolare a partire dalla sua forma editoriale, in cui le immagini hanno quasi lo stesso peso del testo. Questo mi fa pensare che sia nato per la collana per cui è uscito, Imago, è così o hai fatto un lavoro di ricerca successivo per adattarlo?
“Il libro è nato senza una destinazione prestabilita, ma si reggeva – fin dalla sua concezione, ben prima che ne scrivessi una sola riga – molto più sugli echi e i contrappunti tra le immagini che sulla concatenazione degli argomenti. Lo stesso si può dire del film, a ben vedere, così come della mente iconodula di Hitchcock. Quando ha letto il manoscritto, Roberto Calasso ha pensato che la sua collocazione più congeniale fosse Imago, e questa sua intuizione mi ha consentito di reintegrare, per mezzo delle illustrazioni, i tanti rimandi iconografici che avevo espunto dal testo per non appesantirlo con titoli di quadri e di sculture, descrizioni di emblemi rinascimentali o di locandine, riassunti di scene cinematografiche”.
Nell’interessante postfazione all’edizione italiana di Psycho (il Saggiatore, 2014) – intendo l’edizione del romanzo di Robert Bloch – Loris Tassi osserva: “Psycho, un film che, pur all’interno di una produzione vasta e non certo avara di capolavori com’è quella di Hitchcock, ha dato vita, borgesianamente, a un vero e proprio pullulare di rifacimenti e omaggi, versioni e perversioni, sequel, prequel e parodie, fino all’imitazione-trascrizione e al «devoto e appassionato plagio», come nel caso del remake a colori del 1998, in cui Gus Van Sant replica in modo ossessivo ogni inquadratura dell’originale”. Per cercare le ragioni della Psycho-mania, che ha contagiato oltre che i registi anche cinefili e teorici del cinema, è utile considerare almeno due cose, la prima, propedeutica, è che prima di diventare regista Hitchcock era stato uno studente d’arte e che, per usare le sue parole «A volte penso per prima cosa agli ambienti» e poi, negli anni londinesi, uno scenografo, il che lo ha spinto (ecco la seconda considerazione) a esercitare un controllo minuzioso sui set: “Mai usare un set come semplice sfondo”, diceva. Ecco perché, come sostiene Vitiello “Prima di Psycho non era mai accaduto, forse, che un film si identificasse a tal punto con i suoi luoghi” e, ancor più icasticamente: “Psycho è il Bates Motel e il Bates Motel è Psycho”. È così che la cura maniacale di Hitchcock per i dettagli di scena ha finito per diventare un vero banchetto per i filologi del cinema. Ma resta da capire perché sia stato proprio Psycho il primo a risvegliare attenzioni così maniacali (dato che anche altri suoi film sembrano altrettanto ricchi di sottotesti, per esempio la Donna che visse due volte). Torniamo dunque a chiederlo a Vitiello: come mai è stato proprio Psycho a concentrare per primo su di sé tutta questa attenzione critica? E soprattutto, come mai anche tu hai deciso di scrivere un libro proprio su Psycho e non su un’altra opera di Hitchcock?
“È vero, il cinema di Hitchcock trabocca di dettagli, e gli studiosi banchettano da decenni alla sua tavola con il bicchiere di latte del Sospetto in una mano e i macabri manicaretti di Frenzy sotto la forchetta. Anzi, diceva Jean-Luc Godard che dei film di Hitchcock ci restano nella memoria solo i dettagli visivi e gli oggetti di scena, una volta che abbiamo dimenticato il ruolo che svolgevano nella trama. Su Psycho si sono riempite intere biblioteche, e c’erano già stati alcuni tentativi parziali – ne do conto in coda al libro – di identificare le opere d’arte esposte nel Bates Motel, in particolare nel salottino di Norman. Ma la costellazione mitologica del museo è ricostruita qui per la prima volta nella sua interezza. Immagino che possa valere anche come risposta alla tua domanda: perché un altro libro su Psycho? Perché su Psycho avevo scoperto delle cose nuove, che nella letteratura hitchcockiana non avevo trovato”.
La ricezione critica di Psycho fu un momento chiave nella carriera di Hitchcock, perché da quel momento in poi cominciarono a essere notati, prima che altrove in Francia, i piani esoterici celati nelle sue pellicole. In Una visita al Bates Motel Vitiello ricostruisce con precisione questo passaggio, non mancando di sottolineare come il regista giocasse abilmente con le interpretazioni della critica: “«Non sono affatto realista. Sono attratto dal fantastico. Vedo le cose larger than life», aveva detto Hitchcock. «Metafisica? aveva tradotto – diciamo così – Charol. «Thank you».” Osservando quindi, grazie ai decenni di distanza critica come le battute sul sesso metafisico, allora intese a stuzzicare l’attenzione di qualche giornalista, suonino ora “come un’asserzione piana, descrittiva; modesta, perfino”. E ancora: “L’amore metafisico è una forma tortuosa, indiretta di autofascinazione – con tutti i rischi del caso, perché l’amante non ha modo di anticipare quel che troverà fissando lo specchio dell’amata, quali trasformazioni e deformazioni subirà la sua immagine”. Ho trovato molto interessante, lontano come sono dalla teoria cinematografica, l’evoluzione coincisa con le reazioni a Psycho circa la percezione critica di Hitchcock, così ho pensato di vellicare a riguardo Vitiello, che mi perdonerà se il tema è nell’ambito arcinoto. Nel libro ricordi come fino a un certo punto della sua carriera Hitchcock fosse ritenuto dalla critica cinematografica un talento tecnico sprecato al servizio delle major, il tutto fino a che “i «Cahiers» non riconobbero nei suoi film motivi teologici ricorrenti, attribuendogli, nientemeno, una metafisica”. È un percorso peculiare nel riconoscimento dello spessore di un artista, davvero prima era così sottovalutato?
“L’estro dei critici dei Cahiers consisteva proprio in questo, nel conferire l’alloro di autori – ossia, di artisti con una visione piena e idiosincratica del mondo – ad alcuni registi hollywoodiani che erano considerati (e spesso si consideravano loro per primi) artigiani di talento, praticoni, mestieranti. Questo ha portato quei giovani e geniali cinefili a qualche immaginosa sovrainterpretazione, a qualche spericolatezza teorica, ma anche a grandi scoperte: nel caso di Hitchcock, come scrisse Truffaut, l’intima coerenza tematica dei suoi film era troppo vistosa perché la si potesse attribuire all’intervento dello Spirito Santo. Lo stesso vale, credo, per il museo di Psycho. Un quadro con Venere e Cupido può essere un caso. Se i quadri sono quattro, e tutti nella stessa stanza, è difficile credere che li abbia scelti a caso il decoratore del set frugando nei magazzini della Universal”.
Riguardo ai livelli esoterici, nelle Rane di Aristofane si legge che «Gli iniziati serrano la bocca e non ne fanno parola con i non iniziati». Eppure nel cinema di Hitchcock a un certo punto, e possiamo indicarlo con una discreta approssimazione con l’inizio degli anni ’60 – una data esatta potrebbe essere il 1962 – qualcuno cominciò a svelare i piani interpretativi semicelati che andava scoprendo nell’opera del regista. Successe ad esempio allo scrittore cubano Guillermo Cabrera Infante, che rivelò le sue deduzioni ai cinefili dell’Avana: «È tempo di dire che Hitchcock è un mistagogo, e che ogni suo film è un tentativo (riuscito o fallito) di iniziarci al mistero». Vitiello ci informa – via Cicerone – che “i siracusani chiamavano mystagogos «coloro che usano accompagnare i forestieri a visitare le opere d’arte che meritano di esser viste, mostrandogliele ad una a una»”, in modo non dissimile da quanto fa Hitchcock nel trailer di Psycho, nel quale ci porta a scoprire le stanze del Bates Motel (come detto ciò avviene un’altra volta ancora facendosi scortare da Vitiello tra le pagine di questo libro). Tutto questo nascondere messaggi criptati all’interno di film hollywoodiani mi spinge a interrogarmi su quale fosse il rapporto del regista con l’industria cinematografica dell’epoca. Let me bother Vitiello one more time: Hitchcock quanto era libero di girare i film che aveva in mente e quanto invece era spinto a cercare compromessi tra le esigenze delle case di produzione e le sue, metafisico-misteriche?
“Hitchcock era un abilissimo diplomatico, conosceva le vie per far prevalere la sua idea senza dar mai l’impressione di imporla. Erano trucchi di vario genere – girare il meno possibile per lasciare pochi margini di arbitrio al montaggio finale, inserire una scena destinata a cadere sotto la mannaia della censura perché questo gli consentisse di negoziare per salvarne un’altra, quella a cui teneva davvero, e così via. Sapeva muoversi con grande astuzia nell’industria cinematografica. Chi sceglieva la via dello scontro frontale – l’arte contro il mercato, il genio visionario contro il produttore-bottegaio – finiva per soccombere, come Orson Welles o Erich von Stroheim. Hitchcock seppe conquistarsi margini di libertà sempre più grandi grazie alle sue caute manovre, alla fiducia che gli garantivano alcuni suoi successi commerciali, e anche grazie alla sua consacrazione divistica, specie quando cominciò a comparire in prima persona in tv introducendo gli episodi del telefilm “Alfred Hitchcock presenta”. Eppure, nonostante questo prestigio, quando propose l’idea di Psycho i produttori della Paramount non ne vollero sapere, e dovette far da sé”.
A un certo punto affermi “Psycho è la sua elegia per la morte del cinema”. Psycho è del 1960 e il cinema era dunque per Hitchcock già moribondo, in questi giorni è nelle sale l’ultimo film di Tarantino, ambientato nel 1969, nel periodo di una “morte della vecchia Hollywood”, film che è a sua volta un testamento del regista americano, essendo forse il suo ultimo. Tutta questa vertigine di requiem mi ha spinto a domandarmi se il cinema non stia diventando una specie di romanzo, genere eternamente in crisi che non smette di continuare a parlare della propria fine.
“Tutti cominciamo a morire al momento della nascita, e il cinema non fa eccezione: quando Méliès voleva comprare uno degli apparecchi dei Lumière, si racconta, loro glielo sconsigliarono, dicendo che l’invenzione non aveva alcun avvenire commerciale, che era una curiosità scientifica destinata a sparire presto dalla scena. Da allora, a ogni tornante tecnologico – il sonoro, la televisione, il digitale – qualcuno annuncia la morte del cinema, come accade per il romanzo, il teatro, l’opera lirica, l’autore, le carrozze, le penne stilografiche, i piegabaffi. Ma nel caso di Psycho non è in ballo la morte del mezzo, bensì la fine di una stagione precisa. Nei manuali di storia del cinema, troverai spesso scritto che l’epoca classica di Hollywood è racchiusa nel periodo tra il 1927 (avvento del sonoro) e il 1960. Ebbene, Hitchcock cominciò a fare film a metà degli anni Venti; Ricatto, del 1929, è il primo film parlato girato in Gran Bretagna. Psycho arriva, anche simbolicamente, alla fine del ciclo. Esprime la consapevolezza luttuosa e sottilmente angosciata che la stagione d’oro era ormai al tramonto, che per il rito misterico della sala cinematografica si preparava una grande riforma liturgica, e soprattutto che si stava arrugginendo la macchina generatrice del principale prodotto dello studio system: la star. Chi leggerà Una visita al Bates Motel farà anche la conoscenza dell’ultima diva. Un po’ meno graziosa di Grace Kelly”.
Ringraziando Vitiello per la disponibilità uso qualche altra riga per un’ultima considerazione, che investe il rapporto piuttosto idiosincratico di Hitchcock con i romanzi su cui basava le sue sceneggiature, romanzi la cui esistenza più che sminuire tentava addirittura di insabbiare. Riflettendoci è utile citare alcune parole di Robert Bloch, l’autore del romanzo da cui è tratta la sceneggiatura del film: “Molti «storici» del cinema hanno scritto sostenendo che Psycho fosse un racconto pubblicato su qualche rivista poco nota, o che Hitchcock avesse preso una cosina e l’avesse gonfiata facendone qualcosa di più grosso. Si implicava che fosse stato lui a introdurre tutti gli elementi che sembravano far funzionare il film – l’omicidio della protagonista a un terzo della vicenda, il fatto che fosse uccisa sotto la doccia, la tassidermia – quando naturalmente tutta questa roba è nel libro”. Vale la pena a questo punto tornare alla postfazione all’edizione italiana del romanzo a cura di Loris Tassi, che afferma: “Senza voler sminuire un’opera che oramai è ben radicata nell’immaginario collettivo, occorre dire che un successo così grande ha oscurato i meriti di Robert Bloch (1917-1994). L’assassinio perpetrato da Norman Bates nella doccia e l’ostinazione con la quale successivamente l’omicida cancella le tracce del delitto sembrano quasi una rappresentazione metaforica del rapporto che lega il film al romanzo-matrice. Il secondo è stato letteralmente distrutto dal primo”. E ancora: “Psycho è un romanzo impressionante per i temi che affronta (seppur in modo ellittico, vi si parla di travestitismo, pornografia, matricidio, necrofilia), per la sovversione delle convenzioni narrative (la scomparsa della protagonista a un terzo della storia), per le ben note trovate ingegnose (l’omicidio nella doccia). Ma a colpire i lettori è soprattutto la banalità dell’orrore, ovvero il modo in cui Bloch inserisce il mostro all’interno di un tranquillo microcosmo provinciale statunitense”. Osservazioni cui sembra rispondere Vitiello direttamente dalle pagine di Una visita al Bates Motel, quando parlando delle dissimulazioni di Hitchcock dice “Nulla di più falso: Psycho è fedele alla fonte letteraria come nessun altro film di Hitchcock; e nulla di più vero: solo grazie alla creazione di quella cupa e sognante maison-musée, un romanzo dell’orrore dai vaghi tratti esoterici e freudiani potè trasfigurarsi in un grande film metafisico e mistico”.
Suppongo vi sia anche la casa di Edward Hopper, inquietante scenografia mimetica al film e, in seconda istanza, il Blow up di Antonioni senza alcuna agnizione… (leggerò, ovviamente, il libo di Vitiello così intrigante e mistagogico. Grazie e complimenti ad editore e autore.