L’invarianza non solo precede il carattere progettuale degli organismi, ma gode di un’ulteriore proprietà che esclude ogni animismo e finalismo: L’invarianza è perennemente perturbata. L’ambivalenza del DNA è di essere invariante e mutevole allo stesso tempo.
In copertina e nel testo: Rhythmic composition in yellow green minor Roy de Maistre(1919)
Questo testo è estratto da “Finitudine“. Ringraziamo l’autrice e Raffaello Cortina per la gentile concessione.
di Telmo Pievani
I corpi che vengono meno a ogni cosa riducono ciò da cui partono, accrescono ciò a cui pervengono, quello costringono a invecchiare, questo invece a fiorire, né indugiano in quel punto. Così l’insieme delle cose si rinnova sempre e gli esseri mortali vivono di mutuo scambio. Crescono alcune specie, se ne riducono altre, in breve tempo si danno il cambio le generazioni dei viventi e come staffette si passano la fiaccola della vita.
Lucrezio, De rerum natura, libro II, 72-79
Nessuno vorrebbe le strade deserte nelle città. Nessuno vorrebbe vedere i parchi giochi con le ragnatele, i ritrovi dei ragazzi abbandonati, le piazze desolate. Nessuno vorrebbe rinunciare alle proprie libertà fondamentali. Nessuno si augura di vedere in vita sua i corpi per le strade e le fosse comuni. Nessuno vorrebbe sperimentare l’incubo di assistere alla scena di un genitore che muore soffocato dai bubboni. Poi, però, succede che la natura ti attacca nella maniera meno prevedibile. Un tiro mancino. La peste.
Tempi umani e tempi naturali
Persi in ben altri affari, non ci si pensa proprio alla peste: per questo tornerà. Come un meteorite, un terremoto, un’eruzione vulcanica: sui tempi lunghi dell’evoluzione sono eventi certi e banali; sui tempi brevi delle nostre generazioni di mortali sono accadimenti spaventosi e memorabili. Ma c’è qualcos’altro, di ancor più meraviglioso e sublime, che avviene durante queste improvvise sospensioni della normalità. L’umanità si ritrae, allenta la pressione del suo pesante piede, e d’incanto animali e piante che prima se ne stavano discosti e impauriti ora prendono il centro della scena. O meglio, si riprendono ciò che era sempre stato loro.
Delfini, foche e tartarughe riconquistano, solo per un po’, il loro splendido Mediterraneo. Cinghiali, cervi, cerbiatti e altre creature dei boschi passeggiano senza più timidezze in città. Le volpi lo facevano già, sapendo quanto cibo sprecano certi primati di grossa taglia delle classi agiate. Orsi, lupi e sciacalli si sono accorti della nostra ritirata e si lasciano avvistare più di frequente. Perfino le erbe e i muschi cominciano ben presto a spuntare tra le crepe di luoghi prima trafficati. L’esperimento involontario della peste dura il volgere di un attimo, rispetto ai tempi naturali. Il desiderio di dimenticare ci ricaccia subito dentro l’accelerazione antropica, dentro la grande cecità. Ma quell’attimo di sospensione è memorabile, come se avessimo trattenuto il respiro e avessimo sentito ciò a cui prima eravamo sordi.
Gli animali escono dai nascondigli, mentre gli uomini muoiono sotto il sole. Lucrezio, nella magnifica chiusa del suo poema, racconta che la peste venne ad Atene da lontano e colse tutti impreparati. Aveva già fatto strage in Egitto, poi in altri lidi e, infine, era entrata nel grande porto della città. Nel 430 a.C. i saggi insegnavano che il morbo era portato da semi letali che si addensavano nell’aria nociva e nell’acqua putrida. Pasteur era molto di là da venire e si dava colpa al cielo corrotto e ai miasmi del clima. Sempre che non si addossassero le responsabilità a un capro espiatorio, al soldato nemico: pratica prediletta nell’agorà e nelle bettole. Quel flagello, però, sembrava nuovo. Come tutte le altre volte. La peste è sempre nuova.
Avuta notizia della pestilenza, raccontava già Tucidide, perfino le armate nemiche che, provenienti dal Peloponneso, imperversavano nella regione si ritirarono. L’effluvio di morte non fu arginato né dalle suppliche nei templi né dal ricorso agli oracoli. La malattia irrompeva senza bussare. Avanzava dall’alto verso il basso: febbre e occhi arrossati, piaghe in bocca, starnuti e poi tosse violenta, spasmi di vomito, un’insopportabile arsura interna. La mente degli infermi ne era sconvolta. Poi insonnia, respiro affannoso, sudori freddi, nervi contratti, bubboni, fino all’oblio di se stessi e del mondo. Dopo otto o nove giorni, misericordiosa giungeva la fine sui volti pallidi, le narici serrate, gli occhi infossati.
-->I cronisti riportano che la medicina balbettava in silenzioso timore, sicché, esperti o profani che fossero, tutti dicevano la loro su cause e rimedi. I dotti si contraddicevano e si punzecchiavano, tronfi e narcisi. Intanto, per la città i cadaveri giacevano insepolti e nemmeno gli animali li toccavano. Il morbo dava sintomi diversi da persona a persona e qualcuno sopravviveva, diventando immune. La vita sociale era interrotta. Ai primi segni del male si era presi dalla disperazione. I funerali andavano deserti per le vie. I più nobili d’animo – i soccorritori, gli infermieri, i volontari – continuavano a fare semplicemente il loro mestiere, e a infettarsi. Dalle campagne affluivano i contadini disperati e affamati, ammassandosi nei tuguri e peggiorando l’epidemia. Nemmeno la religione fu più di conforto, dinanzi alla paura e al dolore presenti. Finché, al punto più basso di degradazione, anche il rito atavico della sepoltura fu sospeso: ciascuno, angosciato, seppelliva il suo caro come poteva o lo gettava sulle pire degli altri.
La storia della peste, così ricorrente, sempre nuova e sempre uguale, è paradigma della fragilità umana dinanzi a una natura imprevedibile e indifferente alle nostre sorti. Ma quanto imprevedibile? Forse anche gli ateniesi, distratti dalla Guerra del Peloponneso, sulle prime minimizzarono. Lo fecero tutti, compresi i veneziani nel 1576, quando il Senato della Serenissima fu ben contento di approvare i resoconti rassicuranti di Girolamo Mercuriale e altri medici, confidando così di salvare commerci e affari. Poco dopo, le morti nelle calli divennero migliaia. La peste si ammette solo quando è troppo tardi.
Tra i ricorsi storici, troviamo anche lo schema secondo cui alla peste seguirebbe sempre un rinascimento. Ma c’è modo e modo di rinascere. Quando, finalmente, il flagello se ne va, festeggiano tutti e comincia subito il tempo della rimozione e dello stordimento. Ma è un’allegria sempre minacciata.
Quello che c’è di più memorabile nella peste è che la natura, priva di fini e di intenzioni, di castighi e di perdoni, ci fa capire come non abbia alcun bisogno di noi, che non siamo indispensabili, e che il giorno in cui fossimo così folli da imporci una quarantena definitiva e fatale, lei si riprenderebbe ben presto i suoi spazi, mangerebbe i nostri fragili decori e tornerebbe rigogliosa come e più di prima. Memorabilia saranno allora i nostri segni, gli artefatti, i monumenti e manufatti, quando Homo sapiens non ci sarà più e altri occhi li osserveranno con rinnovata curiosità, collezionandoli come cimeli. Quei trofei autografati da una star del passato racconteranno la storia di una specie intelligente che, a un certo punto, perse il senso della misura e smise di sentirsi parte di una biosfera che non l’aveva prevista. Ma noi abbiamo l’immaginazione e la fantasia – quelle che mancano ai bacilli della peste, e alle pulci e ai ratti che se li portano – e potremmo sceglierci un futuro diverso. Un futuro ridestato e perfino meno schiavo della finitudine.
Scrive Lucrezio che le specie e le generazioni di viventi si danno il cambio, come le staffette si passano la fiaccola della vita. La decimazione della peste non è mai totale e i pochi immuni ereditano un mondo traumatizzato, ma ricco di opportunità e di spazio. La scienza ha scoperto in questi anni che cosa sia quella fiaccola che passa da una generazione all’altra: si chiama DNA. È una molecola ritorta che abbiamo in comune con tutti gli altri esseri viventi, compreso il bacillo della peste. Se un flagello sterminasse gli uomini, ma ne salvasse anche solo un piccolo manipolo, un villaggio isolato, da quei pochi la fiaccola si riaccenderebbe e tornerebbe a trasmettersi e a diffondersi. Senza fine, di generazione in generazione. Forse che in quella staffetta si nasconda il segreto per sconfiggere la finitudine?
Progetto interno e invarianza
Le farfalle effimere vivono un solo giorno, o una manciata di minuti. Eppure, in quel grumo addensato di vita trovano il tempo di depositare centinaia, se non migliaia, di uova. Molte di esse, certo, nutrono trote e altri pesci, ma alcune sopravvivono, restano a lungo larve e poi sbocciano nella loro esplosiva e palpitante esistenza. Qualcosa è passato, qualcosa resta e si tramanda. Si direbbe che l’intero ciclo del loro sviluppo e la fragile permanenza della forma adulta sotto la volta del cielo siano strumentali a quel passaggio, veicoli di una sostanza che contiene le istruzioni per rinnovare, ogni volta, quel prodigio di effimera esistenza.
Le farfalle, i vermi, i batteri e gli esseri umani sono oggetti strani. Non sono oggetti naturali inanimati, cioè modellati dalle forze fisiche esterne. Non sono nemmeno oggetti artificiali, frutto di un’intenzione progettuale. Un artefatto si distingue subito: presenta regolarità e ripetizioni di moduli. Quindi, fin qui, è tutto facile: le pietre sono oggetti naturali inanimati, le case sono artefatti. Ma che dire del mirabile favo delle api selvatiche? Sembra proprio un artefatto, ma è prodotto dall’attività automatica di organismi viventi. E l’ape stessa? Ha le proprietà di un artefatto – cioè regolarità, ripetizione e complessità –, ma non è stata progettata da un artefice intelligente. Dunque?
Il paradosso non si risolve se lo decliniamo usando criteri funzionali. Come già scriveva Darwin, è facile pensare che l’occhio funzioni come un telescopio e, dunque, sia stato progettato da un artefice intelligente. L’occhio e la fotocamera hanno entrambi un progetto interno: sono costruiti in modo tale da assolvere una o più funzioni. Gli esseri viventi, quindi, sono oggetti dotati di un progetto interno, cioè di adattamenti funzionali che favoriscono la riproduzione e la sopravvivenza o, se vogliamo, di strutture funzionali e di relative prestazioni (diverse per efficienza da individuo a individuo).
Qui si innesta la grande distinzione darwiniana, che spezza un argomento millenario. Negli artefatti, il progetto è dato dall’esterno, appunto da un progettista e da un piano costruttivo che precede, finalisticamente, la realizzazione dell’oggetto. L’architetto ha in mente un disegno e si prodiga per realizzarlo. Negli esseri viventi, invece, il progetto è dato da interazioni interne, frutto dell’evoluzione.
Gli organismi possiedono una propria determinazione autonoma interna, non dettata da forze esterne, che potrebbero, anzi, ostacolarla. Possiedono organizzazione e sviluppo autonomi, che sgorgano da sé, ovvero processi “morfogenetici” interni che dettano forma e tempi di crescita. Ecco ciò che separa il vivente da qualsiasi artefatto e dagli oggetti naturali inerti.
Questa determinazione autonoma interna è resa possibile dalla presenza di informazione biologica, che si esprime nella struttura dell’essere vivente. L’informazione è ricchissima, perché deve descrivere un’organizzazione straordinariamente complessa di cellule, tessuti, organi, sistemi. Non solo, gli esseri viventi hanno l’ulteriore proprietà unica di riprodurre e di trasmettere questa sofisticata informazione.
Quest’ultima, quindi, si conserva da una generazione alla successiva. Proviene sempre da un altro organismo, ci caratterizza nel corso di tutta l’esistenza e, se abbiamo figli, passa alla generazione successiva. È proprio una staffetta, come scrive Lucrezio, oppure, più precisamente, un’invarianza. L’organismo nasce, si sviluppa, invecchia e muore, ma qualcosa resta, invariante. Le specie nascono, evolvono, si estinguono, si ramificano, ma qualcosa resta, invariante.
Ora abbiamo due proprietà generali di tutti gli esseri viventi, da fondere insieme: avere un progetto interno ed essere portatori di invarianza, traghettatori di un bagaglio di informazione biologica che si tramanda. Il contenuto di invarianza si può dunque esprimere, quantitativamente, in unità di informazione. Detto semplicemente, il contenuto di invarianza di una data specie è la quantità di informazione che, trasmessa da una generazione all’altra, assicura la conservazione della struttura normale e tipica di quella specie.
Le due proprietà sono strettamente connesse. In ogni organismo esistono progetti interni specifici legati a funzioni particolari: digerire, respirare, muoversi, percepire il mondo esterno e così via. Ciascuno di essi è un frammento di un progetto più generale dell’organismo, ovvero la conservazione e la moltiplicazione della specie, e dunque la riproduzione invariante. Il progetto essenziale consiste nella trasmissione da una generazione all’altra del contenuto di invarianza caratteristico della specie, attraverso strategie riproduttive dirette (per esempio, competere per accedere alle femmine o per farsi scegliere dalle femmine) o strategie che contribuiscono direttamente alla sopravvivenza e indirettamente alla riproduzione (cacciare, mimetizzarsi, stare in gruppo, giocare e così via). Insomma, ogni struttura funzionale corrisponde a una certa quantità di informazione trasmessa.
A ciò si aggiunga un’altra caratteristica materiale universale degli esseri viventi: essere costituiti da due insiemi di grosse molecole diverse, uguali per tutti, dai vermi alle balenottere, dalla mosca all’uomo. In qualsiasi creatura terrestre, le proteine presiedono alle strutture e alle prestazioni funzionali: potremmo dire che sono gli agenti molecolari essenziali alla realizzazione del progetto interno degli organismi. Gli acidi nucleici (cioè DNA e RNA) presiedono invece all’invarianza, un’invarianza genetica. Ecco, il gioco della vita sta tutto nelle interazioni, nelle complementarità e nelle trasformazioni di questi due gruppi di macromolecole. In realtà, è una semplificazione, perché alcune strutture del DNA, così come gli RNA, hanno funzioni proprie e, viceversa, alcune proteine hanno un ruolo cruciale nel funzionamento degli acidi nucleici, ma tanto basti. Importante è ricordare che strettissime interazioni legano le proteine e gli acidi nucleici. Ci stiamo avvicinando al segreto molecolare della vita, e forse della sua finitudine.
Le forme sono funzioni
La vita si regge su una logica combinatoria. Tutte le proteine sono fatte da venti aminoacidi. Ci sono almeno 2500 proteine diverse nel batterio Escherichia coli, almeno un milione negli esseri umani. La prodigiosa diversità delle strutture macroscopiche dei viventi si basa, quindi, su una profonda unità sottostante, un’unità di composizione e di struttura microscopica. Il filamento flessibile di aminoacidi si raggruppa formando la struttura primaria della proteina, precisa e definita. Legami chimici più deboli si aggiungono, generando una struttura secondaria, fatta di ripiegamenti ripetuti, come in un gomitolo la cui forma è tipica di ciascuna proteina. Le proteine devono le loro proprietà strutturali e funzionali alla capacità di riconoscere altre molecole sulla base proprio della loro forma tridimensionale e della loro struttura spaziale, a sua volta determinata dalla struttura molecolare. È un po’ come il meccanismo della chiave e della serratura: combaciano grazie alla complementarità della loro forma tridimensionale. Questa proprietà (detta stereo-specificazione, cioè riconoscersi dalla forma) permette di creare affinità e opposizioni a livello microscopico e di specificare la funzione di una certa proteina, che si è evoluta nel corso della storia naturale in relazione a un valore adattativo. Il linguaggio delle proteine, dunque, è tridimensionale. Per esempio, la struttura globulare simmetrica della proteina emoglobina, formata da quattro sottounità, determinata l’anno scorso da Max Perutz a Cambridge, le permette di trasportare l’ossigeno nei globuli rossi. Quando si lega all’ossigeno, cambia conformazione.
Se una proteina ha una certa forma tridimensionale e, in alcuni punti della sua superficie, presenta uno o più siti in cui può legarsi a una certa molecola, succederà che, in caso di legame con quella molecola, la forma della proteina cambierà. In pratica, tramite questa invenzione evolutiva, la proteina può assumere due forme: senza la molecola legata e con la molecola legata. Se, per esempio, la molecola non si lega alla proteina, questa svolgerà una data funzione, mentre se la molecola si lega, la proteina non sarà più in grado di eseguire quella funzione. La molecola (che in questo caso si chiama effettore) diventa una sorta di interruttore acceso-spento per la proteina. Oppure l’effettore attiva e disattiva di più quella proteina, regolandola. Questo processo si chiama allosteria (“altra forma”), o regolazione allosterica, perché la proteina viene regolata sulla base dell’aggiunta o meno di una componente che ne cambia la conformazione, e dunque la funzione. Insomma, è tutto un gioco di forme e funzioni, un grande meccano di proteine. Gli stessi meccanismi di riconoscimento tra proteine guidano poi lo sviluppo dell’organismo: un complesso processo basato sui segnali tra cellule, su raggruppamenti, divisioni, specializzazioni funzionali. Questo significa che la forma aggiunge informazione rispetto a quella contenuta nella sola sequenza di aminoacidi, la quale, a sua volta, è dettata dal DNA. In pratica, i costituenti si portano già dentro, in potenza, l’organizzazione di un maestoso edificio plurimolecolare. Il DNA impone geneticamente la sequenza degli aminoacidi, poi il filamento si ripiega spontaneamente per giungere alla sua configurazione. Il filamento disteso non farebbe nulla. Il filamento ripiegato contiene molta più informazione e compie la sua funzione.
Ma le sorprese sul segreto della vita non finiscono qui. Si direbbe che un testo così preciso abbia una propria necessità interna, che sia cioè determinato da vincoli chimici precisi. E invece no, è figlio del caso. Non esistono leggi chimiche di associazione necessaria tra aminoacidi. Come ci ha insegnato Frederick Sanger nel 1952, quando è riuscito a definire la struttura dell’insulina – formidabile risultato che gli è valso il premio Nobel per la chimica due anni fa –, nessuna legge stabilisce che a un aminoacido x debba seguire l’aminoacido y. Non esiste alcuna regolarità predefinita, alcuna limitazione particolare.
Questa scoperta suggerisce che alla base c’è la legge del caso, cioè sperimentazioni libere e accidentali. Queste ultime, da sole, non sarebbero però in grado di raggiungere la precisione funzionale delle proteine. Le sperimentazioni casuali sono filtrate da un meccanismo ad altissima fedeltà, la selezione naturale, grazie al quale lo stesso ordine si ripete sempre in tutte le molecole di quel tipo di proteina funzionale. Il messaggio è generato a caso, ma acquisisce un significato in virtù delle sue funzioni. Il cieco caso viene insomma captato, conservato e riprodotto dal meccanismo dell’invarianza e trasformato in ordine, regola, necessità.
Questo processo duale – caso e necessità – è importantissimo: vale per lo sviluppo di una proteina come per l’origine e l’evoluzione dell’intera biosfera! La selezione ha infatti prodotto la diversificazione di una vasta biblioteca di proteine funzionali, di forme differenti: filamentose, globulari… gomitoli complicatissimi, un fuoco d’artificio di diversità a più stadi. Poi le interazioni associative tra proteine formano gli organelli cellulari. Poi, ancora, le interazioni tra cellule formano tessuti e organi. La coordinazione e il differenziamento, in tutte le fasi di queste attività chimiche, sono resi possibili dalle interazioni allosteriche delle proteine. Il caso e la necessità, unendosi, danno origine alla possibilità, che è la vera categoria della vita.
Le Variazioni Goldberg della vita
Ma come è possibile che qualcosa figlio del caso porti con sé un “progetto”? Stiamo forse facendo rientrare dalla finestra quell’animismo che avevamo accompagnato definitivamente alla porta? Non dovremmo stupircene, visto che la nostra mente predilige questo tipo di spiegazioni e ne è attratta inesorabilmente. Interpretare la realtà in termini di progetti, finalità, teleologie, intenzioni è un adattamento tipico della mente di Homo sapiens. Le concezioni animistiche risalgono all’infanzia dell’umanità e si piantano nel terreno della nostra quotidianità come radici profonde e vigorose nell’anima dell’uomo moderno. Perfino l’evoluzione viene storpiata dagli animisti e diventa un’ascensione forzata di non ben definite energie cosmiche. Ma ora l’alleanza è spezzata e siamo gettati in una spaventosa e immensa solitudine.
Si realizza, dunque, la situazione paradossale per cui l’evoluzione, per le sue buone ragioni adattative, ci ha reso predisposti a spiegazioni finalistiche che, tuttavia, la scienza ha destituito di qualsiasi fondamento. È un paradosso spaesante e angosciante, l’ennesimo. E non è certo l’ultima contraddizione in cui dibattersi. Il postulato di oggettività della scienza, da Galileo e Darwin in poi, esclude il ricorso a cause finali e a qualsiasi progetto. Risulta impossibile concepire un esperimento che provi la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito, in un punto qualsiasi della Natura; quindi resta un postulato, ma tutto conduce a quella conclusione. Quel progetto non c’è, e in ogni caso non ne abbiamo bisogno per spiegare la natura.
Tuttavia, quella stessa oggettività ci porta a riconoscere il carattere progettuale degli esseri viventi: le loro strutture realizzano un progetto. Come uscire dalla contraddizione? Riconoscendo innanzitutto che è solo apparente. L’invarianza, infatti, precede il carattere progettuale degli organismi. La comparsa, l’evoluzione e l’affinamento delle strutture progettuali sono dovuti a perturbazioni in strutture preesistenti già dotate della proprietà di invarianza, cioè capaci di conservare il caso e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale. Darwin ebbe questa formidabile intuizione, ma non sapeva che il meccanismo che spiega la progettualità funzionale dei viventi è il DNA.
Avere un programma, un libretto di istruzioni, che trattiene il caso e lo sottopone al vaglio della selezione naturale: questo è il segreto della vita. La progettualità, quindi, è riducibile a una proprietà secondaria, derivata dall’invarianza, dal DNA. Se, invece, si concede importanza primaria alla progettualità dei viventi, a quella loro apparenza di finalità, si finisce per dare la stura ai vitalismi di certi fisici che non colgono la peculiarità degli esseri viventi e, dunque, vi scorgono un qualche inesistente slancio interno immateriale.
L’invarianza non solo precede il carattere progettuale degli organismi, ma gode di un’ulteriore proprietà, a sua volta paradossale e cruciale, che esclude ogni animismo e finalismo. L’invarianza è perennemente perturbata. Ecco la magnifica ambivalenza del DNA: essere invariante e mutevole allo stesso tempo. Il DNA tiene insieme Platone ed Eraclito. La natura, infatti, è incessante movimento, modificazione. Eppure la scienza è sempre alla ricerca di entità immutabili, di invarianze, di principi di conservazione e simmetrie. Forse, sono solo convenzioni della nostra mente, o forse esistono davvero nella realtà. Nella scienza c’è un ineliminabile elemento platonico. Nella stupefacente varietà delle morfologie e delle modalità di vita degli animali noi cerchiamo un numero finito di strutture anatomiche fondamentali, di piani corporei e schemi di organizzazione.
Siamo fatti così. Altrimenti non avremmo scoperto nemmeno l’unità chimica fondamentale del vivente, quelle stesse due classi di macromolecole in tutti gli organismi, entrambe date da combinazioni di elementi più semplici (5 basi azotate, 20 aminoacidi), le stesse reazioni chimiche. Da questa base armonica universale deriva che i nuovi adattamenti sono sempre riutilizzazioni di sequenze metaboliche universali, di strutture già esistenti, precedentemente adibite ad altre funzioni. L’evoluzione è variazione sul tema, come in musica: è passacaglia e ciaccona, è le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach.
Se, però, fosse solo invarianza e variazioni sul tema, da dove nascerebbe la diversità delle specie, e ancor più quella di ogni singolo individuo? Da dove nasce la novità? Il DNA, abbiamo detto, è il principe dell’invarianza. Lo si pensa come un alfabeto in cui è scritta tutta la diversità della vita. Il suo testo si replica grazie alla complementarità stereoscopica, ancora una volta, delle due sequenze di nucleotidi appaiate per coppie di basi e disposte su due filamenti associati e attorcigliati a doppia elica. Quando l’elica si apre, l’uno impone la sequenza all’altro che va formandosi. Per il tramite di altri acidi nucleici, la sequenza trascritta si traduce in modo irreversibile e univoco in una sequenza di aminoacidi. Il “codice genetico” è scritto in linguaggio tridimensionale.
Ebbene, sia la sequenza sia il codice di trasferimento sono arbitrari. Nessuna legge impone che dopo una base azotata ce ne sia necessariamente un’altra. Il codice ha un’accezione ristretta, cioè la corrispondenza tra la sequenza delle basi del DNA e la sequenza di aminoacidi, e un’accezione generale, cioè il modo in cui il genoma esercita le sue due funzioni principali di replicarsi fedelmente e di trasferire la sua informazione alla cellula e all’individuo. Il trasferimento di informazione avviene attraverso convenzioni chimiche non necessarie: è una catena di montaggio, ad alta fedeltà. La sequenza di nucleotidi nel segmento di DNA definisce completamente la sequenza di aminoacidi nella proteina. In tal modo, il DNA come principe dell’invarianza garantisce stabilità delle specie e fedeltà della replicazione e della traduzione. Si oppone al cambiamento.
Ma il cambiamento è inevitabile, ed ecco l’antagonismo radicale al centro dell’evoluzione. Nessuna entità può esimersi da perturbazioni microscopiche, perfino quantistiche. Il meccanismo subisce errori, perturbazioni, alterazioni. Le mutazioni genetiche sono errori di trascrizione, sostituzioni, addizioni, inversioni, ripetizioni, traslocazioni, fusioni, slittamenti. Sono accidentali, meramente casuali. Essendo il testo genetico l’unico depositario di informazione ereditaria, soltanto il caso è all’origine di ogni novità, di ogni autentica creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, è alla radice del prodigioso edificio dell’evoluzione sulla Terra.
È UN GRANDE ARTICOLO