Può sembrare che il sé sia quella “cosa” che fa il percepire. Ma non è così. Il sé è un’altra percezione, un’altra allucinazione controllata, per quanto sia di tipo molto speciale.
IN COPERTINA e nel testo: Alberto Burri, Cellotex (1991) – Acrilico e vinavil su cellotex – Asta Pananti in corso
Questo testo è un estratto da Come il cervello crea la nostra coscienza, di Anil Seth, ringraziamo Cortina per la gentile concessione.
di Anil Seth
Può sembrare che il sé – il vostro sé – sia la “cosa” che fa il percepire. Ma non è così. Il sé è un’altra percezione, un’altra allucinazione controllata, per quanto sia di tipo molto speciale. Dal senso di identità personale – come essere uno scienziato o un figlio – alle esperienze di avere un corpo e di “essere” semplicemente un corpo, i molti e diversi elementi dell’ipseità sono tutti ipotesi bayesiane migliori, plasmate dall’evoluzione per tenerci in vita.
Cominciamo la nostra esplorazione del sé con un breve excursus nel futuro. Siamo nel XXII secolo e sono stati inventati strumenti per il teletrasporto che possono creare repliche identiche di ciascun essere umano. Proprio come in Star Trek, questi strumenti funzionano scannerizzando una persona nei minimi dettagli – fino alla disposizione di ogni singola molecola – e usando l’informazione nello scanner per creare una seconda versione di quella persona in un posto distante, poniamo, su Marte.
Dopo qualche apprensione iniziale, le persone si abituano rapidamente a questa tecnologia considerandola un efficiente mezzo di trasporto. Si abituano persino alla necessità che, una volta creata la replica, l’originale sia immediatamente vaporizzato – una procedura che deve essere messa in opera per ovviare alla possibile esplosione di persone identiche. Dal punto di vista di chi viaggia, cui diamo il nome Eva, tutto ciò non comporta alcun problema pratico. Dopo aver ricevuto alcune rassicurazioni da parte dell’operatore, Eva semplicemente sente di essere scomparsa dal posto X (Londra) e di essere riapparsa nel posto Y (Marte) in un istante.
Un giorno, però, vi è un inconveniente. Il modulo del vaporizzatore a Londra non funziona bene e a Eva – la Eva che è a Londra – sembra che non sia successo nulla e che sia ancora nel dispositivo del teletrasporto. Un problema minimo. Probabilmente devono riavviare la macchina e provare di nuovo o, magari, si tratta di aspettare il giorno dopo. Ma poi un tecnico si intrufola nella stanza impugnando una pistola. Biascica qualcosa come: “Non preoccuparti. Sei stata teletrasportata senza problemi su Marte, è normale, è che i regolamenti dicono che dobbiamo ancora… e guarda qui, hai firmato questo consenso informato”. Solleva lentamente l’arma e Eva ha una sensazione che non ha mai provato prima, che forse questa sciocchezza del teletrasporto non è, dopotutto, così semplice.
Il punto di questo esperimento mentale, che è chiamato il “paradosso del teletrasporto”, è che porta alla luce alcuni dei pregiudizi che la maggior parte di noi ha quando pensa cosa significhi essere un sé.
Il paradosso del teletrasporto solleva due problemi filosofici. Il primo è il problema della coscienza-in-generale e riguarda il fatto se possiamo essere sicuri che la replica avrà esperienze coscienti o se sarà un equivalente perfettamente funzionante, ma privo di un universo interiore. Non trovo questo problema particolarmente interessante. Se la replica è creata in maniera sufficientemente dettagliata – ogni molecola identica! –, non vi è ragione di dubitare che sarebbe cosciente e che sarebbe cosciente allo stesso modo in cui lo è l’originale. Se la replica non è completamente identica, ritorniamo alle argomentazioni sui differenti tipi di zombie filosofici – e non abbiamo bisogno di riesaminarle.
-->Il problema più interessante è quello dell’identità personale. Eva su Marte (chiamiamola per comodità Eva2) è la stessa persona di Eva1 (la Eva che è ancora a Londra)? Si è tentati di rispondere di sì. Eva2 proverebbe lo stesso che avrebbe provato Eva1 se fosse stata teletrasportata istantaneamente da Londra a Marte. Quello che sembra contare per questo tipo di identità personale è la continuità psicologica, non la continuità fisica.
Ma se Eva1 non è stata vaporizzata, chi è la Eva reale?
Io penso che la risposta corretta – anche se, a dire il vero, bizzarra – è che entrambe sono la Eva reale.
Intuitivamente consideriamo le esperienze di sé diversamente dalle esperienze del mondo. Quando ci capita di fare esperienza di essere noi sembra difficile resistere all’intuizione che essa riveli una genuina proprietà del modo in cui le cose sono – in questo caso un sé reale –, piuttosto che una collezione di percezioni. Una conseguenza dell’assumere che esiste un sé reale è che vi può essere un solo sé, non due, tre o molti.
L’idea che il sé sia in qualche modo indivisibile, immutabile, trascendentale, sui generis, risale all’ideale cartesiano dell’anima immateriale e continua ad avere una profonda risonanza psicologica, specie nelle società occidentali. È stata, però, anche ripetutamente sottoposta a scrutinio scettico da parte di filosofi o esperti religiosi, nonché, più di recente, da parte di psiconauti psichedelici, medici e neuroscienziati.
Nella Critica della ragion pura, Kant ha sostenuto che il concetto di sé come “sostanza semplice” è sbagliato, e Hume ha parlato del sé come “fascio di percezioni”. Molto più di recente, il filosofo tedesco Thomas Metzinger ha scritto un libro molto affascinante dal titolo Being No One, una potente decostruzione del sé individuale. I buddhisti hanno a lungo argomentato che non esiste qualcosa come un sé permanente e tramite la meditazione hanno cercato di raggiungere stati di coscienza completamente privi di sé. Le cerimonie dell’Ayahuasca in Sudamerica, e sempre di più anche altrove, rimuovono dalle persone il senso di sé ricorrendo a una mistura inebriante di rituale e dimetiltriptamina.
Nella neurologia, Oliver Sacks e altri hanno raccontato i molti modi in cui il senso di sé va in frantumi in seguito a malattie o danni cerebrali, mentre i pazienti con cervello diviso sollevano la possibilità che i sé possano diventare due. Il caso più curioso è quello dei gemelli craniopagi, che non sono solo fisicamente congiunti, ma condividono anche alcune strutture cerebrali. Che cosa potrebbe voler dire essere un sé individuale, quando uno dei gemelli craniopagi può sentire l’altro gemello bere un succo di arancia?
Essere sé non è semplice come sembra.
Torniamo alla macchina del teletrasporto. Eva1 ha cercato di evitare gli intenti omicidi del tecnico e arriva ad accettare la sua nuova situazione, mentre Eva2 è del tutto ignara del dramma che sta accadendo sulla Terra.
Per quanto entrambe le Eva siano oggettivamente e soggettivamente identiche al momento della replicazione, le loro identità hanno già cominciato a divergere. Come per i gemelli identici che iniziano il viaggio della loro propria vita, il processo si complica inevitabilmente col tempo. Anche se Eva1 fosse stata vicino a Eva2, vi sarebbero comunque state piccole differenze negli input sensoriali che avrebbero comportato sottili differenze nel comportamento e, prima che ve ne rendiate conto, Eva1 e Eva2 stanno facendo esperienza di cose diverse, sedimentando ricordi diversi, diventando persone diverse.
Tali complessità dell’identità personale sorgono per ciascuno di noi in modo differente. L’identità di mia madre è cambiata drasticamente durante il suo delirium e, per quanto ora si sia ripresa, sembra, almeno a me, sia molto diversa sia riconoscibilmente la stessa rispetto a quella che era prima – proprio come le due Eva. La relazione tra Eva1 e Eva2 potrebbe per certi versi assomigliare un po’ a quella che c’è tra il voi di adesso e il voi di una decina di anni fa oppure il voi tra una decina d’anni.
Quando si tratta di chi siamo, di chi sono – il me che è oggettivamente e soggettivamente Anil Seth – le cose non sono mai semplici come sembrano a prima vista. Il senso dell’identità personale – l’io dietro gli occhi – è solo un aspetto del modo in cui l’“essere un sé” appare nella coscienza.
Ecco come mi piace scomporre gli elementi di un sé umano.
Vi sono esperienze di ipseità incorporata che si riferiscono direttamente al corpo. Tali esperienze includono sentimenti di identificazione con quel particolare oggetto che risulta essere il vostro corpo – avvertiamo un senso di proprietà sul nostro corpo che non si applica agli altri oggetti nel mondo. Emozioni e stati d’animo sono aspetti dell’ipseità incorporata, così come lo sono gli stati di arousal e di vigilanza. Al di sotto di queste esperienze possiamo trovare sentimenti più profondi, privi di forma, legati all’essere semplicemente un organismo vivente incorporato – all’essere un corpo – senza un’estensione spaziale chiaramente definibile o un contenuto specifico. Avremo modo di tornare in seguito su questo strato primigenio dell’ipseità. Per ora limitiamoci a pensarlo come “sentire di essere vivi”.
Andando al di là del corpo, vi è l’esperienza del percepire il mondo da un particolare punto di vista, dell’avere una prospettiva in prima persona – un punto d’origine soggettivo per l’esperienza percettiva, che di solito appare risiedere dentro la testa, da qualche parte tra gli occhi e poco sotto la fronte. Questo sé prospettico è illustrato al meglio dall’autoritratto del fisico austriaco Ernst Mach, noto come “vista dall’occhio sinistro”.
Anche le esperienze della volizione, dell’intendere fare delle cose – dell’intenzione – e dell’essere la causa dell’accadere delle cose – agentività – sono centrali per l’ipseità. Questo è il sé volizionale. Quando le persone parlano di “libero arbitrio” di solito parlano di questi aspetti dell’ipseità. Per molte persone la nozione di “libero arbitrio” cattura quell’aspetto di essere un sé che sono meno disposte a lasciare alla scienza.
Tutti questi modi di essere-un-sé possono essere all’opera prima di qualsiasi concetto di identità personale – l’identità può essere associata a un nome, a una storia e a un futuro. Come abbiamo visto con il paradosso del teletrasporto, perché l’identità personale esista vi deve essere una storia personalizzata precedente, un filo di ricordi autobiografici, un passato ricordato e un futuro proiettato.
Tale senso di identità personale, quando emerge, può essere chiamato il sé narrativo. Con la sua comparsa giunge la capacità di esperire emozioni sofisticate come il rimpianto, contrapposto alla mera delusione. (Noi esseri umani soffriamo di “rimpianto anticipato” – il sentire con certezza che quello che sto facendo finirà male e che, nonostante lo sappia, lo farò lo stesso, e che io e altri ne soffriremo di conseguenza.) Possiamo vedere qui come i differenti livelli dell’ipseità si ramifichino e interagiscano tra loro – l’emergenza dell’identità personale modifica l’accresciuta gamma di stati emotivi disponibili e ne è parzialmente definita.
Il sé sociale ha a che fare con il modo in cui io percepisco che gli altri mi percepiscono. È la parte di me che scaturisce dall’essere immerso in un contesto sociale. Il sé sociale si sviluppa gradualmente durante l’infanzia e continua a farlo per tutta la vita, benché possa evolvere in modo differente in condizioni come l’autismo. L’ipseità sociale comporta tutta una serie propria di possibilità emotive, da nuovi modi di sentirsi male – come il senso di colpa o la vergogna – a modi di sentirsi bene – come l’orgoglio, l’amore e l’appartenenza.
Per ciascuno di noi – in circostanze normali – questi diversi elementi dell’ipseità sono legati tra loro, formando un tutt’uno, tutti sussunti entro un’esperienza unificata onnicomprensiva, l’esperienza di essere sé. Il carattere unificato di quest’esperienza può sembrare così naturale – tanto quanto il legame percettivo di colore e forma quando vedete una poltrona rossa – che è facile darlo per scontato.
Farlo, però, sarebbe un errore. Proprio come le esperienze della rossezza non sono indicazioni di un “rosso” che esisterebbe all’esterno, così le esperienze di un’ipseità unificata non implicano l’esistenza di un “sé reale”. Infatti, l’esperienza di essere un sé unificato può venire meno molto facilmente. Il senso di identità personale, costruito sul sé narrativo, può erodersi o scomparire interamente nella demenza e in casi acuti di amnesia, può essere deformato e distorto in casi di delirium, indotto dall’ospedale o no. Il sé volizionale può andare in frantumi in condizioni come la schizofrenia e la sindrome della mano aliena, quando le persone fanno esperienza di un senso ridotto di connessione con le loro proprie azioni, o nel mutismo cinetico, un disturbo in cui le persone smettono di interagire con il loro ambiente circostante. Le esperienze extracorporee e altri disturbi dissociativi riguardano il sé prospettico, mentre i disturbi del senso di proprietà del corpo vanno dalla sindrome dell’arto fantasma – l’esperienza di sensazioni persistenti, spesso dolorose, localizzate in un arto che non esiste più – alla somatoparafrenia – l’esperienza che i propri arti appartengano a qualcun altro. Nella xenomelia – una forma estrema di somatoparafrenia – le persone fanno esperienza di un intenso desiderio di amputarsi un braccio o una gamba, una soluzione che in rare occasioni portano effettivamente a compimento.
Il sé non è un’entità immutabile che si cela dietro le finestre degli occhi, affacciandosi sul mondo e controllando il corpo come un pilota controlla un aereo. L’esperienza di essere me, o di essere voi, è essa stessa una percezione – o, meglio, una collezione di percezioni –, un fascio strettamente intrecciato di predizioni codificate in termini neuronali volte a tenere in vita il vostro corpo. E questo, penso, è tutto quello di cui abbiamo bisogno per essere quelli che siamo.
Considerate l’esperienza di identificarvi con un particolare oggetto nel mondo che è il vostro corpo. La natura cangiante e precariamente assemblata di queste esperienze non solo è evidente in condizioni quali la somatoparafrenia e la sindrome dell’arto fantasma, ma può essere resa manifesta anche da semplici esperimenti in laboratorio. L’esempio più noto è quello della cosiddetta illusione della “mano di gomma”, descritta per la prima volta circa una ventina di anni fa e oggi una pietra miliare della ricerca sull’incorporamento.
L’illusione della mano di gomma è facile da controllare empiricamente – tutto quello di cui avete bisogno è un soggetto volontario, alcuni pezzi di cartone per costruire una barriera, una coppia di pennelli e una mano di gomma. Il volontario appoggia la propria mano (reale) da un lato della barriera di cartone, di modo che non può vederla. La mano di gomma è posta di fronte a lui, in una posizione e con un orientamento simili a quelli che avrebbe normalmente la mano reale. Quindi lo sperimentatore prende i pennelli e con uno strofina delicatamente la mano reale, mentre con l’altro strofina quella di gomma, andando su e giù. L’idea è che quando entrambe le mani sono strofinate con i pennelli sincronicamente, il soggetto volontario svilupperà la strana sensazione che la mano di gomma sia in qualche modo parte del proprio corpo, e questo accade anche se sa che le cose non stanno così. Quando i pennelli sono usati in modo asincronico, andando fuori tempo, non dovrebbe darsi alcuna illusione e la mano di gomma non dovrebbe essere esperita come parte del proprio corpo.
Per alcune persone questa è una descrizione appropriata di quello che accade ed è innegabilmente strano sentire che una mano evidentemente falsa è in-qualche-modo-ma-non-interamente parte del proprio corpo. Ciò detto, l’esperienza effettiva varia notevolmente da persona a persona. Un modo per indagare questo aspetto consiste nel minacciare all’improvviso la mano di gomma con un martello o un coltello – vi sarà di sicuro una forte reazione quando l’illusione è presente.
L’illusione della mano di gomma si accorda perfettamente con l’idea che le esperienze di proprietà del corpo sono tipi speciali di allucinazioni controllate. L’idea è che nella condizione di strofinamento sincronico, la combinazione di vedere la mano di gomma che viene toccata e simultaneamente sentire (ma non vedere) il tocco sulla mano reale offre al cervello un’evidenza sensoriale sufficiente per raggiungere la migliore ipotesi percettiva per cui la mano di gomma farebbe in qualche modo parte del corpo. Ciò avviene nella condizione sincronica – ma non in quella asincronica – a causa di una previsione a priori per cui segnali che arrivano simultaneamente devono probabilmente avere una fonte comune, la mano di gomma.
Non sono soltanto le parti del corpo che possono essere esperite diversamente. Ciò può valere anche per il corpo nella sua interezza – l’origine della prospettiva in prima persona. Due lavori sono apparsi quasi contemporaneamente sulla prestigiosa rivista Science nel 2007. Entrambi descrivevano come nuovi metodi nella realtà virtuale potessero essere impiegati per generare esperienze simili alle esperienze extracorporee. Gli esperimenti erano basati sull’illusione della mano di gomma, ma questa era ora estesa all’intero corpo. In uno degli studi, condotto da un gruppo di Losanna guidato da Olaf Blanke, i volontari indossavano un visore montato sulla loro testa tramite il quale vedevano una rappresentazione in realtà virtuale del retro del loro corpo da una distanza di due metri circa. Da questa prospettiva, essi poi vedevano che il corpo virtuale era strofinato con un pennello, di nuovo in maniera sincronica o asincronica con lo strofinamento del loro proprio corpo (reale). Quando lo strofinamento era sincronico, la maggior parte dei volontari riportava di aver sentito che il corpo virtuale fosse, in una certa misura, il proprio corpo e se veniva chiesto loro di raggiungere dove sentivano che il loro corpo si trovasse, esibivano una deviazione nello spazio verso la posizione del corpo virtuale.
Allo stesso modo in cui l’illusione della mano di gomma suggerisce una flessibilità istante-per-istante del senso di proprietà del corpo, esperimenti come questo – che prendono nome di “illusioni dell’intero corpo” – indicano che anche il senso soggettivo di proprietà del corpo intero e la posizione della prospettiva in prima persona possono essere manipolati in tempo reale. Tali esperimenti offrono una prova affascinante del fatto che le esperienze di “cos’è il mio corpo” possono essere dissociate, almeno in una certa misura, dalle esperienze di “dove io sono”.
L’idea che la prospettiva in prima persona di un individuo possa abbandonare il corpo fisico sotto forma di esperienze extracorporee è profondamente inscritta nella storia e nella cultura. Resoconti di esperienze extracorporee o di esperienze simili durante esperienze traumatiche di pre-morte, in sala operatoria o a margine di attacchi epilettici, hanno alimentato la credenza in un’essenza del sé immateriale. Dopotutto, se vi potete vedere dall’esterno, le basi della vostra coscienza non devono allora essere separabili dal vostro cervello?
Non vi è, però, alcun bisogno di avere appigli dualistici di questo tipo se si assume che la prospettiva in prima persona non è che un’altra specie di inferenza percettiva. Questa concezione è supportata non solo dagli esperimenti con la realtà virtuale di Olaf Blanke e colleghi, ma anche da studi di stimolazione cerebrale che risalgono a una serie di lavori seminali condotti negli anni Quaranta dal neurologo canadese Wilder Penfield.
Tra i pazienti di Penfield vi era una donna, nota come G.A., che, se stimolata nel giro temporale superiore – che è parte del lobo temporale – dell’emisfero destro, esclamava spontaneamente:
“Ho la stranissima sensazione di non essere qui […]. È come se fossi metà qui e metà non qui”. Lo stesso Blanke è rimasto affascinato dalle esperienze extracorporee dopo che un suo paziente, stimolato in una porzione simile del cervello – il giro angolare, alla congiunzione dei lobi temporale e parietale – aveva riportato un’esperienza simile: “Vedo me stesso sdraiato nel letto, da sopra, ma vedo solo le mie gambe”.
Il fattore comune in casi come questi è l’attività insolita in regioni cerebrali che hanno a che fare con l’input vestibolare (il sistema vestibolare è responsabile del senso di equilibrio) e che sono coinvolte nell’integrazione multisensoriale. Sembra che, quando l’attività normale di questi sistemi viene perturbata, il cervello possa arrivare a formulare una “migliore ipotesi” insolita circa la localizzazione della sua prospettiva in prima persona, e questo anche quando altri aspetti dell’ipseità risultano intatti.
Le esperienze simili a quelle extracorporee che talvolta accompagnano gli attacchi epilettici possono essere ricondotte a disturbi in questi processi. Queste esperienze sono di solito suddivise in allucinazioni autoscopiche – in cui vedete il vostro ambiente circostante, ma da un’altra prospettiva – e allucinazioni eautoscopiche (note anche come allucinazioni doppelgänger o del doppio) – in cui vedete voi stessi ma da un’altra prospettiva. L’ampia documentazione di esperienze siffatte – che risale a secoli or sono – è un’ulteriore prova della malleabilità della prospettiva in prima persona.
Quando le persone riportano esperienze apparentemente sovrannaturali o comunque bizzarre, come le esperienze extracorporee, dovremmo prendere sul serio i loro resoconti. Con tutta probabilità hanno davvero le esperienze che dicono di avere. Gli esseri umani hanno avuto esperienze extracorporee per millenni, ma ciò non significa che sé immateriali o anime immutabili abbiano mai realmente lasciato qualsivoglia corpo fisico. Quello che i vari resoconti rivelano è che le prospettive in prima persona sono assemblate in modi più complessi, provvisori e precari di quelli a cui mai avremo accesso soggettivo diretto.
Nel mondo virtuale, la capacità di modificare la prospettiva in prima persona genera alcune affascinanti applicazioni, molte delle quali sono guidate dall’illusione dal nome intrigante di “scambio di corpo”, che è stata descritta in uno studio del 2008 condotto dal ricercatore svedese Henrik Ehrsson. Nell’allestimento sperimentale utilizzato per lo scambio di corpo, due persone indossano un visore montato sulla testa, a cui è attaccata una telecamera. Grazie allo scambio dei flussi video tra i visori, ciascuna persona è in grado di vedere se stessa dal punto di vista dell’altra. L’effetto si manifesta in maniera adeguata solo quando le due persone si stringono la mano. L’idea è che vedere e simultaneamente sentire la stretta di mano determina una stimolazione multisensoriale che fa sì che, quando accompagnata da previsioni dall’alto verso il basso, ciascuna persona senta ora di essere in qualche modo collocata nel corpo dell’altra, stringendo la mano con se stessa. Un’esperienza siffatta vi mette, sia pure virtualmente, nei panni degli altri.
Io ho provato a fare uno scambio di corpo virtuale a un piccolo incontro a Ojai, in California, nell’inverno del 2018. Ero lì insieme a Daanish Masood, un volontario delle Nazioni Unite che si occupava anche di realtà virtuale. Per molti anni aveva lavorato con il BeAnotherLab (Laboratorio Essere un Altro), parto dell’ingegno di Mel Slater, un neuroscienziato dell’Università di Barcellona. Lo scopo principale del BeAnotherLab è adattare la tecnologia dello scambio di corpo ai nuovi strumenti di “generazione dell’empatia”. La loro idea è che l’empatia per la situazione di un altro seguirà in maniera del tutto naturale una volta che si fa esperienza di cosa si provi a percepire il mondo dall’interno del corpo virtuale dell’altro.
Daanish aveva portato il suo gruppo a Ojai per fare una dimostrazione del loro sistema, chiamato The Machine to Be Another (La Macchina per Essere un Altro). Il loro allestimento contemplava una brillante coreografia in aggiunta al principio base dello scambio di corpo che rendeva l’effetto sempre più potente. Due partecipanti indossavano un caschetto e guardavano in basso, in modo da vedere il corpo del partner invece del loro proprio corpo. Eseguivano poi una serie di movimenti coordinati, seguendo precise istruzioni; se lo facevano abbastanza bene, il loro nuovo corpo appariva rispondere ai loro comandi e questo rafforzava l’esperienza di essere l’altro. Dopo qualche tempo, erano messi davanti a degli specchi e ciascuno di loro vedeva l’immagine speculare dell’altro, come se fosse lui stesso o lei stessa. Come atto finale veniva rimossa la tenda che separava le due persone e ciascuna guardava a se stessa dall’interno del corpo dell’altra, prima di avvicinarsi l’una all’altra e abbracciarsi.
Quando è stato il mio turno, ho scambiato la mia prospettiva con quella di una signora piuttosto agiata sulla settantina. È stata un’esperienza inaspettatamente coinvolgente. Ricordo di aver guardato in basso, di aver flesso la mia (sua) mano e di aver notato – non senza sorpresa – le scarpe da ginnastica glitterate che io (lei) indossavo(a). Lo specchio e l’abbraccio finale sono stati particolarmente potenti – non ero sicuro se per l’esperienza di sentire me stesso abitare il corpo di qualcun altro o per l’esperienza di vedere me stesso dalla prospettiva di un’altra persona. Solo più tardi, a cena, mi è capitato di chiedermi quanto strano dovesse essere apparso alla mia partner essere trasportata immediatamente nella prospettiva in prima persona di un neuroscienziato inglese di sangue misto che indossava delle scarpe piuttosto anonime.
Trovo affascinante che questi aspetti familiari e spesso dati per scontati dell’ipseità – il senso soggettivo di proprietà riferito al corpo e la prospettiva in prima persona – possano facilmente essere manipolati, grazie a mani finte e pennelli o alle nuove tecnologie della realtà virtuale e aumentata. Queste manipolazioni hanno, tuttavia, dei limiti. Come ho detto prima, l’esperienza tipica dell’illusione della mano di gomma è di sentire in qualche modo che la mano finta sia parte del proprio corpo, pur sapendo chiaramente che non lo è. E questa “tipica” esperienza varia notevolmente da persona a persona, con molte persone che non provano nulla. Lo stesso vale per l’illusione dell’intero corpo o per l’illusione dello scambio di corpo.
Queste manipolazioni sperimentali del senso di proprietà sono in questo modo molto diverse dalle classiche illusioni visive come quella della scacchiera di Adelson. Nel caso della scacchiera, noi siamo così percettivamente convinti che i quadrati abbiano differenti sfumature di grigio che siamo stupiti, e forse anche meravigliati, quando ci rendiamo conto che hanno tutti la stessa sfumatura. Questo tipo di sorpresa, comune nelle illusioni visive, non si verifica quasi mai nelle illusioni legate al senso di proprietà del corpo. Per me, l’illusione corporea più coinvolgente finora è stata quella dello scambio di corpo che ho provato a Ojai – ma nemmeno per un momento sono stato vicino a credere di essere qualcun altro o di essere altrove.
La debolezza soggettiva delle illusioni del senso di proprietà del corpo è evidenziata da uno studio recente, in cui sono stato coinvolto, che ha esaminato il ruolo della suggestionabilità ipnotica nell’illusione della mano di gomma. Il ragionamento alla base di questo studio – che è stato condotto dagli psicologi Peter Lush e Zoltán Dienes – era che l’allestimento sperimentale dell’illusione comportava una forte previsione implicita di quello che si sarebbe dovuto esperire e che questa previsione sarebbe stata sufficiente per indurre effettivamente in alcune persone delle esperienze alterate del senso di proprietà del corpo. A supporto di questa ipotesi, abbiamo trovato che le differenze individuali nella forza dell’illusione correlavano con il grado di suggestionabilità di una persona, quando misurata con una scala standard di ipnotizzabilità. Le persone che sono altamente ipnotizzabili riportano di sentire un forte senso di proprietà (se strofinate in maniera sincronica), mentre quelli che avevano bassi punteggi sulla scala di ipnotizzabilità erano difficilmente soggetti all’illusione della mano di gomma.
Da un lato, questa scoperta è perfettamente in linea con la concezione del senso di proprietà del corpo come allucinazione controllata, poiché una suggestione ipnotica può essere considerata come una potente previsione dall’alto verso il basso – anche se il partecipante non ne è consapevole. Dall’altro lato, essa rappresenta una seria sfida per la ricerca sperimentale in quest’area, poiché solleva la possibilità che l’illusione della mano di gomma possa essere largamente o interamente indotta da effetti di suggestione. A meno che non prendano in considerazione le differenze individuali nella suggestionabilità, cosa che in larga parte non fanno, resta difficile per gli studi sulle illusioni dell’incorporamento dire qualcosa di specifico sui meccanismi coinvolti. Questo vale che si parli di illusione della mano di gomma, delle esperienze extracorporee, delle illusioni dello scambio del corpo o di ogni altra situazione in cui le persone sono indotte – implicitamente o esplicitamente – ad aspettarsi una particolare esperienza relativa al corpo.
Vi è una notevole differenza tra queste illusioni, soggettivamente leggere, concernenti il senso di proprietà del corpo e le esperienze estremamente alterate che si riscontrano in condizioni cliniche come la somatoparafrenia, la xenomelia, la sensazione dell’arto fantasma o le vivide esperienze extracorporee associate ad attachi epilettici o indotte da stimolazione cerebrale. Queste ultime drammatiche distorsioni sono molto più simili alle illusioni visive poiché inducono la convinzione di vivere un’esperienza insolita molto più forte di quella indotta dalle illusioni del primo tipo. E per questa ragione offrono una prova molto più robusta del fatto che le esperienze dell’incorporamento e della prospettiva in prima persona sono invero costruzioni del cervello.
Passiamo ora alle questioni relative all’identità personale e all’emergenza del sé “narrativo” e del sé “sociale”. Come abbiamo visto col paradosso del teletrasporto, è a questi livelli che un’entità fa esperienza di se stessa come continua da istante all’altro, da un giorno, una settimana o un mese all’altro e – in una certa misura – lungo l’intero corso di una vita. Questi sono i livelli di ipseità in cui ha senso associare il sé a un nome, a ricordi del passato e a piani per il futuro. A questi livelli diventiamo consapevoli di avere un sé – diventiamo davvero consapevoli di sé.
Tali capacità superiori dell’ipseità possono essere pienamente dissociate dal sé incorporato. Molti animali non umani, così come molti infanti umani, possono fare esperienza del proprio sé incorporato senza avere – o essendo privi di – un qualsiasi senso di identità personale. E mentre gli adulti umani di norma fanno esperienza di tutte queste forme di ipseità in maniera integrata e unificata, quando il sé narrativo o gli aspetti sociali del sé sono carenti o distrutti, l’impatto può essere devastante.
Clive Wearing è un musicologo britannico famoso per aver curato le opere del compositore rinascimentale Orlande de Lassus, per aver lavorato come maestro del coro a Londra e per aver messo mano ai contenuti musicali di Radio 3 della BBC nei primi anni Ottanta. Nel marzo 1985, all’apice della sua carriera, è stato colpito da un’infezione cerebrale devastante, un herpes encefalico che ha prodotto un danno consistente all’ippocampo in entrambi gli emisferi, arrecandogli una delle amnesie più profonde mai documentate.
Wearing ha un problema enorme nel richiamare alla mente vecchi ricordi (amnesia retrograda) e, in particolare, nel formarne di nuovi (amnesia anterograda). La cosa notevole è che sembra vivere in un permanente presente tra i sette e trenta secondi.
Oggi ha ottant’anni ed è probabile che faccia ancora esperienza della propria vita come una serie continua di mini-risvegli, quasi – più o meno ogni venti secondi – fosse appena emerso da un coma o da un’anestesia. Il suo sé narrativo è stato annichilito.
Il tipo di memoria che Clive ha perso è la memoria episodica, autobiografica – la memoria di eventi localizzati nel tempo e nello spazio (episodica), inclusi, e questa è la cosa più importante, eventi che coinvolgono lui stesso (autobiografica). La lettura dei suoi diari turba non poco:
8.31 a.m. Ora sono realmente, completamente sveglio
9.06 a.m. Ora sono perfettamente, totalmente sveglio
9.34 a.m. Ora sono estremamente, effettivamente sveglio
Questi diari e le conversazioni con Clive registrate dalla moglie Deborah nel suo libro Forever Today (Oggi, per sempre) testimoniano quanto il danno cerebrale subito abbia intaccato il suo senso di identità personale. La sua incapacità di mettere insieme nel tempo una narrazione di sé significa che quello-che-si-prova-a-essere-lui è stato, per oltre una trentina d’anni, un continuo ricominciare da capo, una presenza effimera priva di un “io” stabile che organizzasse il flusso delle percezioni del mondo e di sé. Abbandonato nel presente dalla gravità della sua amnesia, la sua perdita di un passato e di un futuro è così scombussolante che egli si chiedeva persino se fosse ancora vivo. Nelle parole della moglie Deborah: “Clive aveva la continua impressione di essere appena emerso dall’inconscio, poiché non aveva alcuna evidenza che la propria mente fosse mai stata sveglia prima […]. ‘Non ho sentito, visto, toccato od odorato nulla’, direbbe, ‘È come essere morto’”.
Al tempo stesso, altri aspetti del senso di sé di Clive sono rimasti del tutto intatti. Non ha problemi con le esperienze di proprietà del corpo, con l’origine della propria prospettiva in prima persona o con l’eseguire azioni volontarie. L’amore per sua moglie resta inalterato, anche se talvolta non riesce a ricordare di averla incontrata – si erano sposati un anno prima della sua malattia. E quando Clive suona il piano, canta o dirige, la musica emana da lui con una profusione e facilità che lo fanno sembrare di nuovo un tutt’uno.
Per Clive quei momenti di amore e musica sono momenti di trasformazione e di redenzione. Oliver Sacks, in un articolo particolarmente toccante comparso su New Yorker, così descriveva la sua situazione: “Non ha più una propria narrazione interna; non vive una vita come il resto di noi fa. E, tuttavia, uno dovrebbe vederlo al piano o con sua moglie Deborah per sentire che, dopotutto, è sempre lui ed è pienamente vivo”.
Nonostante questi momenti di grazia, la situazione di Clive è indubbiamente tragica. La distruzione del suo sé narrativo è qualcosa di più di un semplice deficit di memoria; comporta l’incapacità di percepirsi continuo nel tempo e questo erode il suo senso fondamentale di identità personale – quel senso che ciascuno di noi dà, in modo del tutto naturale, per scontato.
La memoria non è la colonna portante del sé, ma come questa storia ci dice, e come molti di noi sanno avendo familiari o amici che soffrono di demenza o di Alzheimer, è difficile fare a meno della persistenza e continuità della percezione di sé.
Il fatto che l’amore che Clive e Deborah nutrono l’uno per l’altra abbia il potere di ristabilire il senso dell’identità di Clive ci porta a parlare del “sé sociale”.
Gli esseri umani, come molti altri animali, sono creature sociali. Percepire lo stato mentale di un’altra persona è una capacità fondamentale per le creature sociali in tutti i tipi di contesti e in tutte le forme di società. Spesso si ritiene che questa capacità – talvolta chiamata “teoria della mente” – si sviluppi piuttosto lentamente negli esseri umani, venendo però ad avere un ruolo chiave per la maggior parte di noi nel corso della nostra vita.
A volte ci rendiamo chiaramente conto di ciò, come quando, per esempio, ci preoccupiamo di quello che possano pensare di noi il nostro partner, un amico o un collega. Ma anche quando non rimuginiamo sulle nostre interazioni sociali, la nostra capacità di percepire le intenzioni, le credenze e i desideri altrui è comunque all’opera sullo sfondo, guidando il nostro comportamento e dando forma alle nostre emozioni.
Vi è una vasta letteratura sulla percezione sociale e la teoria della mente, che abbraccia la psicologia, la sociologia e, più di recente, il campo emergente delle neuroscienze sociali. Molta di questa letteratura esamina tali argomenti nei termini dell’importanza che hanno nel guidare le interazioni sociali. Il mio intento qui è di rivolgere la lente all’interno e considerare come l’esperienza di essere me dipenda, in maniera sostanziale, da come io percepisco che gli altri mi percepiscono.
La percezione sociale – la percezione degli stati mentali altrui – non è semplicemente questione di ragionare in maniera esplicita su o di “pensare a” quanto gli altri possano o non possano pensare. Ci formiamo percezioni delle credenze, delle emozioni, delle intenzioni altrui con la stessa naturalezza e facilità con cui ci formiamo percezioni di gatti, tazze di caffè e poltrone, nonché dei nostri stessi corpi. Quando mi verso un bicchiere di vino e vedo una mia amica avvicinare il suo bicchiere vuoto, non vi è bisogno per me di immaginare razionalmente quale intenzione possa avere; semplicemente percepisco che vorrebbe un po’ di vino anche lei e che avrei dovuto versarlo prima a lei. Percepisco questi stati mentali con la stessa immediatezza, benché non necessariamente con la stessa accuratezza, con cui percepisco il bicchiere.
Come accade tutto questo? Credo che la risposta stia, di nuovo, nell’idea che il cervello è una macchina predittiva e che la percezione è un processo di inferenza delle cause dei segnali sensoriali.
Sia la percezione non-sociale sia quella sociale implicano che il cervello faccia le migliori ipotesi sulle cause degli input sensoriali. Talvolta, lo sappiamo tutti, ci possiamo sbagliare di grosso quando percepiamo cosa passa nella mente di un’altra persona, mentre mai confondiamo un bicchiere di vino con un’automobile (a meno di non essere vittime di allucinazioni). Una delle ragioni dell’intrinseca ambiguità della percezione sociale è che le cause rilevanti sono estremamente remote. Le onde luminose che elicitano la percezione di un bicchiere di vino originano più o meno direttamente dal bicchiere stesso, mentre i segnali sensoriali rilevanti per gli stati mentali altrui devono passare attraverso numerosi stadi intermedi – espressioni facciali, gesti, atti linguistici –, dove ogni stadio crea una nuova opportunità per un’inferenza erronea.
Proprio come la percezione visiva, così anche la percezione sociale dipende dal contesto e dalle aspettative. Possiamo cercare di minimizzare “gli errori di predizione sociali” sia modificando i dati sensoriali – una forma interpersonale di inferenza attiva – sia rivedendo le predizioni. L’inferenza attiva nella percezione sociale equivale a comportarsi in modo da cambiare gli stati mentali altrui così da metterli in linea con quelli che noi avevamo predetto – o desiderato – che fossero. Per esempio, noi sorridiamo non solo per esprimere il nostro proprio piacere, ma anche per cambiare il modo in cui si sente chi è in nostra compagnia; allo stesso modo, quando parliamo, cerchiamo di far entrare dei pensieri nella mente di chi ci ascolta.
Queste idee sulla percezione sociale possono essere collegate al sé sociale nel modo che segue. La capacità di inferire gli stati mentali altrui richiede, come ogni altro tipo di inferenza percettiva, un modello generativo. I modelli generativi, come sappiamo, sono in grado di generare i segnali sensoriali che corrispondono a una particolare ipotesi percettiva. Nel caso della percezione sociale, questo significa un’ipotesi sugli stati mentali altrui, il che implica un certo grado di reciprocità. Il mio miglior modello dei vostri stati mentali includerà un modello di come voi modellate i miei stati mentali. In altre parole, io posso comprendere cosa avete in mente solo se cerco di capire come percepite i contenuti della mia mente. È così che percepiamo noi stessi rifratti dalla mente degli altri. Questo è ciò di cui consiste il sé sociale e queste percezioni predittive socialmente annidate sono una parte importante dell’esperienza complessiva di essere un sé umano.
Un’intrigante implicazione di questa interpretazione del sé sociale è che la consapevolezza di sé – lo stadio superiore dell’ipseità che comprende sia il sé narrativo sia il sé sociale – possa necessariamente richiedere un contesto sociale. Se esistessimo in un mondo senza altre menti – più specificamente, un mondo senza altre menti rilevanti –, non vi sarebbe allora alcun bisogno per il nostro cervello di predire gli stati mentali altrui e, dunque, alcun bisogno di inferire che le sue proprie esperienze e azioni appartengano tutte a un sé qualsiasi. La riflessione, fatta da John Donne nel xvii secolo, che “nessun uomo è un’isola” potrebbe essere letteralmente vera.
Siete la stessa persona che eravate ieri? Forse meglio: fate esperienza di essere voi stessi nello stesso modo in cui l’avete fatta ieri? Probabilmente – fatto salvo qualche grave incidente avvenuto nella notte – risponderete di sì. E cosa dire della settimana scorsa, del mese scorso, di dieci anni fa o di quando avevate quattro anni; o, ancora, di quando avrete novantaquattro anni: sarete sempre la stessa persona anche allora? Vi sembrerà così?
Un aspetto importante, anche se spesso misconosciuto, dell’ipseità cosciente è che generalmente noi facciamo esperienza di noi stessi come continui e unificati nel tempo. A ciò diamo il nome di stabilità soggettiva del sé. Vale non solo nei termini della continuità della memoria autobiografica, ma anche nel senso più profondo di esperire se stessi come persistenti da un momento all’altro, sia a livello del corpo biologico sia a livello dell’identità personale.
Rispetto alle esperienze percettive del mondo esterno, le esperienze di sé sono notevolmente stabili. Le nostre percezioni del mondo sono sempre cangianti, gli oggetti e le scene vanno e vengono in un flusso continuo di eventi. Le esperienze di sé sembrano mutare molto meno. Anche se sappiamo di cambiare nel tempo – la maggior parte di noi ha un’evidenza fotografica più che sufficiente al riguardo –, ciò nonostante ci sembra di non cambiare così tanto. A meno di non soffrire di malattie psichiatriche o neurologiche, l’esperienza di essere un sé sembra costituire un centro durevole in un mondo che cambia. William James, il padre della psicologia, lo ha detto bene: “Diversamente dalla percezione di un oggetto, che può essere percepito da differenti prospettive o persino cessare di essere percepito, noi facciamo esperienza della ‘sensazione che vi è sempre lo stesso vecchio corpo’”.
Potreste pensare che non vi sia nulla di strano in ciò. Dopotutto, i corpi – e gli altri obiettivi delle percezioni legate al sé – plausibilmente cambiano meno delle cose che percepiamo là fuori nel mondo. Posso passare da una stanza all’altra, ma il corpo, le mie azioni e la mia prospettiva in prima persona mi accompagnano sempre. Su queste basi può non essere sorprendente che il sé sia esperito cambiare meno del mondo. Io penso, però, che vi sia qualcosa di più di questo.
L’esperienza del cambiamento è essa stessa un’inferenza percettiva. Le nostre percezioni possono cambiare, ma questo non significa che le percepiamo come cangianti. Tale distinzione è esemplificata dal fenomeno della “cecità al cambiamento”, in cui cose che cambiano lentamente (nel mondo) non evocano alcuna esperienza corrispondente del cambiamento. Lo stesso principio si applica anche alla percezione di sé. Diventiamo sempre persone diverse. Le nostre percezioni di noi stessi cambiano di continuo – voi siete ora una persona diversa, anche se solo di poco, rispetto a quella che eravate quando avete cominciato a leggere questo capitolo –, ma ciò non significa che percepiamo questi cambiamenti.
Siffatta cecità al cambiamento del sé ha delle conseguenze. Da un lato, incoraggia la falsa intuizione che il sé sia un’entità immutabile, piuttosto che un fascio di percezioni. Questa, però, non è la ragione per cui l’evoluzione ha plasmato le nostre esperienze del nostro sé in questo modo. Io credo che la stabilità soggettiva del sé vada al di là della stessa cecità al cambiamento dovuta al lento cambiare dei nostri corpi e dei nostri cervelli. Viviamo con una forma di cecità-al-cambiamento-di-sé estrema, esagerata e, per capire perché è così, dobbiamo anzitutto comprendere la ragione per cui noi percepiamo noi stessi.
Non percepiamo noi stessi per conoscere noi stessi; piuttosto, percepiamo noi stessi per controllare noi stessi.
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