L’importanza di Evangelion

Sappiamo che anche un’opera di finzione può dire molto del proprio autore. Ci sono volte, però, in cui questo è così vero che per raccontare la storia dell’uno bisogna ripercorrere quella dell’altra. È il caso di Neon Genesis Evangelion e di Hideaki Anno.


In copertina e lungo il testo opere di Hideaki Anno

di Gianmaria Tammaro

Hideaki Anno non parla molto; quando lo fa, però, va dritto al punto – una cosa molto inusuale per un giapponese. Non è maleducato, ma è sincero. Così sincero da avere ammesso, durante un’intervista televisiva, di aver pensato di suicidarsi (non l’ha fatto, ha detto, per la paura del dolore). Così sincero da non aver mai nascosto il rapporto complicato con suo padre, né le molteplici difficoltà che nel corso degli anni, per finire “Neon Genesis Evangelion”, ha dovuto affrontare.

Hideaki Anno è la sua opera: gli stessi temi, le stesse sfide, lo stesso scontro personale e sociale; le stesse paure e le stesse ansie vivono nell’uno e nell’altra. Hideaki Anno ha sempre voluto raccontare una storia così: sua, sentita e soprattutto curata. Per trovare la giusta inquadratura da cui iniziare le riprese di “Evangelion 3.0+1.01”, l’ultimo film della tetralogia Rebuild, ci ha messo diversi giorni. E non è partito da uno script, da un copione; ma dallo studio di attori in carne e ossa. Ha osservato, analizzato, cercato. Si è lasciato incuriosire dai dettagli più piccoli, e si è fatto da parte. C’era e non c’era. Grazie al successo di “Shin Godzilla” (2016), ha avuto il tempo e soprattutto le risorse per procedere con calma.

L’emittente giapponese NHK l’ha seguito durante la lavorazione ed è riuscita a catturare – a fotografare, anzi – la sua passione-ossessione. Prima titubante, poi convinto; quindi di nuovo incerto, e alla fine costretto dalle scadenze a intervenire in prima persona. I suoi collaboratori non riescono a definire il suo metodo. Molto spesso sono costretti ad aspettare lunghi periodi mentre Anno lavora alla sceneggiatura o la riscrive; altre volte, invece, non si fermano nemmeno per un minuto. Il mondo che circonda Anno, in un certo senso, si muove alla sua stessa velocità, e risponde a tutte le sue necessità. È stato creato a sua immagine e somiglianza: si adatta, perché si adatta, come una seconda pelle.

Ovviamente non è sempre stato così. All’inizio della carriera di Anno, per esempio, è stato tutto più difficile e complicato; all’epoca non era indipendente, e non era ancora un regista; lavorava con altri studi, per altri autori, e la sua libertà creativa era limitata. Ora invece, dopo l’inizio della serie Rebuild (2007), ha trovato una sua dimensione; e con lo studio Khara (dal greco: gioia, felicità), aperto successivamente, ha avuto l’occasione – parole sue – di raccontare la storia che ha sempre avuto in mente, ma che non ha mai potuto produrre.

“Evangelion 3.0+1.01” non è solo l’ultimo lavoro di Anno ambientato nell’universo di “Evangelion”; è anche la sintesi perfetta della sua idea di arte e di animazione, e del talento pratico che ha sviluppato in questi anni. È sempre stato dotato. Anche quando era più giovane. Ha colpito Hayao Miyazaki, co-fondatore dello Studio Ghibli, proprio per questo motivo: per le sue capacità. I due hanno collaborato più volte nel corso degli anni: da “Nausicaa della Valle del Vento”, dove Anno firma una lunga sequenza, a “Si alza il vento”, dove Anno, addirittura, presta la sua voce al protagonista. Lui e Miyazaki hanno lo stesso amore e lo stesso attaccamento per l’animazione. Entrambi, con le dovute differenze, hanno capito cosa serve per fare un buon film, quali argomenti trattare e come interagire con il pubblico.

Tra Miyazaki e Anno, Toshio Suzuki, produttore dello Studio Ghibli, ha sempre fatto da ponte: e Suzuki, più di Miyazaki, è stato per Anno un amico e un consigliere, specialmente durante gli anni più difficili della lavorazione di “Evangelion”. C’è un rapporto unico tra Miyazaki e Anno; un rapporto che, senza esagerare, ricorda molto quello tra padre e figlio. E in effetti anche questo è uno degli elementi cardine di “Evangelion”: come relazionarsi con i propri genitori; come convivere con la figura dell’autorità; come trovare qualcosa in comune, qualcosa da condividere, con chi è più grande di noi.

Il padre di Anno ha perso una gamba quando aveva 16 anni, mentre stava lavorando. Da allora, il suo carattere è cambiato profondamente; e per molto tempo è stato rigido e scontroso. Questo ha avuto un duplice effetto su Anno e sulla sua carriera. Da una parte non è riuscito a trovare nemmeno nella sua famiglia, nella casa della sua infanzia, un ambiente in cui sentirsi a suo agio e in cui essere ascoltato; dall’altra, ha sempre considerato esteticamente interessante rappresentare personaggi privi di arti. Per lui, ha detto, è la normalità. È una cosa che si nota anche in “Evangelion”, fin dalle primissime puntate della serie animata andata in onda tra il 1995 e il 1996. In questo legame così viscerale e così intimo con il corpo, Anno ha riassunto un altro dei temi principali di “Evangelion”: la carnalità. Intesa sia come fisicità sia, poi, come sessualità.

Nel corso degli anni più voci hanno descritto questa serie come una serie di crescita, rivolta principalmente a un pubblico adolescente. In realtà, trovare un pubblico così ampio e così appassionato è stato quasi un caso. Perché Anno ha sempre e solo voluto una cosa: raccontare sé stesso; parlare delle sue passioni, delle cose che gli piacciono, dei mecha; di militarismo e di guerra; ma anche di depressione e di ansia, e della difficoltà nel relazionarsi con gli altri.

Rei Ayanami e Asuka Langley Soryu, le due protagoniste di “Evangelion”, simboleggiavano qualcosa di specifico per Anno: qualcosa di estremamente genuino, legato alla sua infanzia e alla sua esperienza. E la stessa cosa si può dire di Misato Katsuragi, altra figura fondamentale. Quando la serie è andata in onda ed è diventata un vero e proprio fenomeno di massa, però, l’autore – come spesso succede – ha perso il controllo della sua creatura. E i fan hanno cominciato a ribaltare il punto di vista non solo della narrazione – questa è una storia che parla di noi, che vuole tracciare un segno preciso, e che vuole dirci dei nostri problemi e della nostra realtà – ma anche dei personaggi. Rei e Asuka sono state ridotte a oggetti e sessualizzate, e per molto tempo, dopo la conclusione della serie, una parte del pubblico si è sentita tradita perché, semplicemente, non ha avuto quello che voleva. E cioè un lieto fine, vedere Shinji Ikari, l’altro protagonista, il più importante, con Rei o con Asuka; trovare una risposta a tutte le domande.

Ma “Evangelion”, banalmente, non ha mai avuto questo obiettivo. Nella sua costruzione, Anno ha attinto alla sua cultura e ai film e ai libri che ha sempre amato; ha scelto una terminologia e una mitologia vicina alla religione cristiana e a quella ebraica, senza però volerne fare un dogma. C’è, sì, il rischio dell’estinzione della razza umana; e c’è anche un’ambientazione post-apocalittica, con robot e mostri giganti sempre in guerra, decisi a massacrarsi; con alieni pronti a distruggerci e con un’agenzia sovrannazionale incaricata di proteggerci. Ci sono riferimenti più o meno velati alla tradizione manga e anime, e al cinema e alla letteratura occidentali. Ma tutto questo – gli scontri, le lotte; la fantascienza e il genere – sono, appunto, un contorno.

“Evangelion” è diventata la serie che è diventata principalmente per la sua capacità di anticipare i tempi; di utilizzare il linguaggio dell’animazione per parlare di cose vere – cose in cui, chiaramente, tutti possono rivedersi. Anno ha messo sempre al primo posto questo. Dopo aver finito di lavorare a “Nadia e il mistero della pietra azzurra”, altra serie animata di grande successo, voleva poter sviluppare un’opera diversa, più matura e adulta, non vincolata dalle infinite richieste e necessità – politiche e di target – dei network.

“Evangelion” nasce come una serie televisiva già monca, perché priva del budget necessario per la sua conclusione; ma ciononostante Anno e il suo team sono andati avanti, e oggi, più di 26 anni dopo, ci ritroviamo con una storia enorme, divisa tra piccolo e grande schermo; ricca di sfumature, di spunti; ricca di tantissime implicazioni, e così complessa da prestarsi a molteplici interpretazioni. “Evangelion” è cambiata nello stesso modo in cui è cambiato Anno. Entrambi, ovviamente, sono stati costretti ad adattarsi. Agli ostacoli produttivi, prima di tutto. Ma anche ai tempi e, poi, alla risposta del pubblico.

Dopo la fine della serie, dopo gli ultimi due episodi (25 e 26), produttivamente più poveri ma visivamente significativi, Anno è tornato a lavorare a “Evangelion” con due film, “Death & Rebirth” e “The End of Evangelion” (1997). E in questi film è stato ancora più diretto e drastico, e non si è risparmiato sulla violenza e, di nuovo, sull’utilizzo dei corpi e della fisicità. Il simbolismo è piuttosto palese. E proprio in “The End of Evangelion” Anno ha esplicitato ulteriormente le infinite trame radicate nella sessualità dei personaggi e la rabbia e l’atrocità di determinati gesti. I mecha che si distruggono a vicenda siamo noi; sono l’incarnazione della nostra bestialità. I tantissimi errori che commette Shinji sono gli stessi errori che commettiamo noi. La stessa incapacità, la stessa goffaggine; la stessa ostinata, e infantile, presunzione.

Ancora una volta, insomma, Anno non ha dato al pubblico il finale sperato. Solo 10 anni dopo, ha cominciato a lavorare alla serie Rebuild. I primi due film della tetralogia, come molti hanno fatto notare, seguono – quasi fedelmente – la serie; verso la fine del secondo film, però, qualcosa cambia. E Anno prende un’altra strada. Una strada che si è conclusa quest’anno e che ha arricchito ancora di più – quantomeno registicamente e artisticamente – l’eredità di “Evangelion”.

In “Evangelion 3.0+1.01”, Anno non ha esitato – come già aveva fatto altre volte in passato, tra l’altro – a riportare il racconto su un piano metanarrativo: ricostruendo, proprio nel film, lo studio in cui ha lavorato per mesi; scegliendo di riprendere il mondo esterno, e di usarlo nel finale. Shinji, nella serie Rebuild, è molto più maturo e molto più presente. Proprio perché Anno, nel frattempo, è invecchiato. Gli altri personaggi hanno una profondità maggiore e un significato e un ruolo ben precisi. Gli archetipi narrativi, in qualche modo, vengono destrutturati e rielaborati: il nerd diventa l’uomo equilibrato, l’unico capace di resistere, di sopravvivere e di ricominciare; la donna, vittima della nostra idealizzazione, è finalmente libera di prendere le sue decisioni e di crescere; lo stesso Shinji trova l’amore (in una visione quasi dantesca), ed è convinto delle sue scelte.

“Evangelion” è un viaggio: il viaggio di un uomo dalla sua insicurezza alla vita che conduce oggi; dalla depressione e dalla paura a una situazione di quasi tranquillità; dalla solitudine che ha sempre provato al sentirsi parte di una comunità, di un gruppo; dalle difficoltà con suo padre a un matrimonio felice. E durante questo viaggio, anche noi – gli spettatori, quelli che si trovano dall’altra parte dello schermo – siamo cresciuti. Temi e particolari momenti sembrano ripetersi; e invece è la ciclicità narrativa, la prospettiva circolare che abbiamo sulle cose e sul mondo: la consapevolezza dell’età adulta che si sostituisce all’incertezza dell’adolescenza. E ci sembra di averlo già visto, di averlo già fatto; di aver vissuto già tutto. E invece no; invece ogni cosa – la serie e i film, il primissimo finale e l’ultimo – è diversa.

(c) Khara

Nella rappresentazione dell’angoscia e della tristezza e nella rappresentazione dell’incapacità cronica, radicata nell’inconscio, di avere rapporti onesti e duraturi, “Evangelion” è stata in grado non solo di ritrarre – indirettamente, come abbiamo già detto – il pubblico giapponese, ma pure di rivolgersi al resto del mondo. Ed è proprio per questo motivo che continua ad essere una saga di culto, seguita e tramandata, consigliata e acclamata dalla critica.

Come tante altre storie decennali e come tanti altri racconti epici, “Evangelion” è capace di superare i confini del tempo. Un anime come questo ha un peso, nella cultura mondiale, incredibilmente importante. Tecnicamente, soprattutto nell’ultimo film, è un esempio positivo di come sintetizzare e unire, di come utilizzare i diversi linguaggi e farli convivere; drammaturgicamente incarna la maturità di un medium e presenta chiaramente ciò che può offrire; umanamente coincide con buona parte della vita di Hideaki Anno, con il suo carattere e con la sua arte.

“Evangelion” è così amata e così profondamente analizzata perché non si è mai limitata a un unico periodo; perché non è circoscrivibile in un anno o in un paese specifici; ma perché, appunto, va oltre. I robot, la distruzione, la fantascienza. I discendenti di Adamo, quelli di Lilith. Shinji, Rei, Asuka. Il corpo, l’anima e la mente. Dal più piccolo dettaglio, e cioè dal microscopico del suo privato, Anno ha saputo creare qualcosa di universale e di macroscopico: una storia per sé stesso, certo; ma anche per tutti gli altri.

La serie Neon Genesis Evangelion e i film The End of Evangelion e Death(true)² sono in streaming su Netflix. La serie Rebuild of Evangelion è su Amazon Prime Video.
Dal 24 novembre sarà disponibile Neon Genesis Evangelion – Ultimate Edition Box-Set edito da Dynit.


gianmaria tammaro, Nato a Napoli il 24 ottobre 1991. Giornalista pubblicista. Scrive di cinema, tv, letteratura e fumetti.

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1 comment on “L’importanza di Evangelion

  1. Articolo scritto molto bene e ricco di intuizioni interessanti

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