Abbiamo perso L’arte di perdere il controllo? E dobbiamo riconquistarla? Una conversazione con Jules Evans su misticismo, tecniche estatiche e filosofia perenne
In copertina: Tano festa, Il falciatore (1986) – Asta Pananti del 16 febbraio
Abbiamo perso L’arte di perdere il controllo? E dobbiamo riconquistarla? Sì e sì, a leggere il libro di Jules Evans sulle principali tecniche estatiche contemporanee, recentemente tradotto da Carbonio editore. Nel suo interessante studio sui metodi per raggiungere l’illuminazione (o la trascendenza, l’assoluto, il divino… la definizione varia in base alla tradizione di riferimento), l’autore concorda con Huxley nel sostenere che nella cultura occidentale il misticismo è stato emarginato e patologizzato più o meno dagli anni della Riforma. A partire da questo assunto, l’autore ci guida attraverso un percorso approfondito che esplora l’estasi sia dal punto di vista teorico che pratico, attraverso l’arte, la musica, la psichedelia, la meditazione, il sesso, la guerra, la natura e la tecnologia – indicando sempre sia i rischi che i benefici.
Francesco D’Isa: Credo che una delle questioni principali in merito alle esperienze estatiche (d’ora in poi EE) sia il loro valore ontologico. Sappiamo che nella maggior parte dei casi le EE sono eventi che cambiano la propria relazione con la vita. Sappiamo anche che sono casi rari, ma non così rari come si immagina. Sappiamo poi che hanno sempre delle conseguenze e che queste possono cambiare molto a seconda di fattori biografici, culturali, metodologici e biologici. Come scrive Richard H. Jones (che ho intervistato qua) nel suo Filosofia del misticismo:
Anche se i mistici hanno delle esperienze uniche, le descrivono e ne deducono conseguenze solo di ritorno a uno “stato dualistico” della coscienza. Alla fine dei conti dunque, non si trovano in una posizione privilegiata per quel che riguarda la giustificazione delle proprie credenze. Essere un mistico non ti qualifica necessariamente nel vedere e interpretare correttamente le questioni coinvolte nell’esperienza vissuta. Il forte impatto emotivo che spesso i mistici legano a queste esperienze, inoltre, può complicarne l’esame critico e portare a un’ingiustificata sicurezza nella propria interpretazione. […] Avere un’esperienza è una cosa; valutare il suo significato un’altra. Che i mistici stessi siano in conflitto sull’interpretazione di queste esperienze non fa che evidenziare questa situazione.
Forse raggiungere queste esperienze non è il compito più arduo – come scrivi ci sono molti metodi per farlo, impegnativi ma fattibili. La parte più difficile potrebbe essere piuttosto il dare un senso alla perdita del senso. Se suona troppo paradossale, mettiamola così: il saper gestire questa perdita.
Jules Evans: Di solito la gestione della perdita dell’ego è un compito che viene svolto dalla propria cultura. La cultura ci fornisce uno spazio, una sceneggiatura, dei ruoli, un’etica e una comunità che ci aiuta a guidare l’esperienza. Questo compito è più difficile all’interno della nostra cultura perché non abbiamo più degli spazi condivisi, dei ruoli, un’etica e una comunità adatta alla gestione della perdita dell’ego. Quindi, sì, dobbiamo “gestirlo” per lo più da soli. Ma ci sono ancora comunità e guide in grado di aiutarci. Credo inoltre che il pensiero “come posso gestire al meglio questa esperienza?” sia egocentrico e neoliberale. Piuttosto chiediamoci: come possiamo cambiare la nostra cultura per rendere più facile andare oltre noi stessi, in modi che sono salutari sia per noi che per la società? Questo comporta un cambiamento dei nostri atteggiamenti culturali verso eventi come le esperienze mistiche, le psicosi/emergenze spirituali e la natura stessa della realtà.
FD: I seguaci della “Filosofia Perenne” come Huxley sostengono che i grandi mistici di tutto il mondo sono d’accordo su tutti i punti fondamentali, ma come scrivi tu stesso, Huxley ha esagerato parecchio la misura dell’accordo dei mistici provenienti da tradizioni diverse. In realtà, l’esperienza della morte dell’ego può essere sia traumatica che positiva, a seconda del punto di vista. Nella cornice di un capitalismo materialista, che considera l’ego la cosa più importante che abbiamo, è senza dubbio orribile, mentre in una cornice buddista, dove ego e desiderio sono le radici del dolore, perderli è la cosa migliore che possa capitarci. Una EE (così come le “conversioni” di cui parla William James) può cambiare, invertire o lasciare intatto il nostro punto di vista, probabilmente in ogni direzione. Pensi che ci sia qualcosa di intrinseco in una EE?
JE: No. Ma la maggior parte delle EE condividono almeno una caratteristica, ovvero mostrano che l’ego della realtà quotidiana non è tutto quel che abbiamo. Sono esperienze che aprono uno spazio per il cambiamento rispetto all’abituale storia dell’io. Ti danno un assaggio di una realtà meno ego-centrica. Queste sono tutte potenzialità positive di una EE, ma spetta all’individuo e alla comunità a cui appartiene svilupparle in modo positivo e sano.
FD: Nel libro sottolinei il pericolo di una sorta di edonismo estatico, sotto forma di attaccamento all’EE o della vanità che deriva dall’idea di “essere speciali”. Questi, insieme alla “notte oscura dell’anima” (i lati oscuri dell’EE), sono dei rischi verso cui ci mettono in guardia molte antiche tradizioni mistiche, orientali come occidentali. Il capitalismo contemporaneo è uno dei peggiori scenari dove vivere un’EE? Quand’è che dovremmo lavorare sul nostro ambiente culturale e psicologico: prima, attraverso o dopo una EE?
-->JE: Non so se è uno dei peggiori scenari di sempre. Da un lato, la mia cultura (quella della Gran Bretagna) è estremamente secolarizzata, dunque per certi versi è piuttosto ostile a tutte le forme di autotrascendenza, ad eccezione dell’intossicazione da alcol. D’altra parte però, dove tutto è possibile, tutto è disponibile. Si può viaggiare ovunque e fare bungee jumping, per così dire, in culture e universi completamente diversi. Si può volare da Londra a Iquitos, e immergersi improvvisamente nello sciamanesimo indigeno ayahuasca. Si può volare in India, e trovarsi all’improvviso al Kumbh Mela. Nessuno più di noi ha accesso alle informazioni sulle pratiche spirituali ed estatiche del mondo. Questo è un aspetto positivo. Inoltre un numero crescente di persone segue una qualche forma di pratica spirituale come lo yoga, la meditazione o la psichedelia, che rendono più probabile un’esperienza estatica. Il problema è che ci mancano le istituzioni per dare profondità a queste esperienze, e per aiutarle a trasformare la nostra società. Inoltre ci mancano dei modelli spirituali che permettono a queste esperienze di trasformare completamente la nostra vita. Alcuni comunque esistono. Non pensare quindi se è il momento migliore o peggiore: è il momento in cui sei vivo. Di conseguenza è il momento migliore e l’unico in cui puoi lavorare.
FD: Le illuminazioni non sono tutte uguali. Come scrivi, la tradizione buddista elenca nove livelli (Jhanas) di stati di coscienza precedenti alla “vera” illuminazione, e per chi medita non è considerata una buona cosa scambiarli per il Nirvana. Raggiungere un’EE può essere difficile, ma non equivale a diventare dei santi. Alcune strade (come la psichedelia o esperienze di quasi morte) danno un accesso più rapido alle EE rispetto ad altre (come la meditazione o la contemplazione), ma sospetto che più che una meta un’EE sia una fase che si può porre quasi ovunque lungo il cammino. In che modo la tecnologia estatica influenza l’esperienza che ne deriva?
JE: Si dice che sentieri diversi conducano tutti sulla stessa montagna e alla stessa vetta. Ma forse percorsi diversi portano a vette diverse. La tecnologia dell’ayahuasca, per esempio, sembra portare le persone in un luogo diverso, per esempio, della ketamina. La meditazione devozionale porta in un luogo diverso dalla meditazione intellettuale introspettiva. Non credo che l’esperienza estatica sia la meta, certamente non lo è per me. È qualcosa che può accadere lungo il cammino, in forme e intensità diverse. Per certi versi, il rischio di parlare di “esperienze estatiche” è che le inserisce in questa classe di esperienze “speciali”.
Questo ci spinge immediatamente a desiderarle. Ho sentito il bisogno di parlarne in qualche modo, perché la mia cultura è contraria fino alla fobia nei loro confronti. Ma è altrettanto pericoloso affezionarvisi. Ogni esperienza può essere spirituale, a seconda della qualità dell’attenzione che le diamo. L’esperienza più noiosa può essere una porta d’accesso a una realtà più profonda, se la ascoltiamo e ci apriamo a essa. Il compositore John Cage ha detto: “Se qualcosa è noioso dopo due minuti, provatelo per quattro. Se ancora noioso, allora per otto. Poi sedici. Poi trentadue. Alla fine scoprirete che non è affatto noioso”. Yuval Noah Harari ha detto: “Il pericolo è che la gente vuole solo una nuova esperienza speciale. La vera chiave invece consiste nel capire le esperienze normali e quotidiane, non quelle che capitano una volta nella vita”. La sfida è quella di avere un obiettivo e un percorso per raggiungerlo, e la disciplina e la fede per percorrere questo percorso un po’ di più ogni giorno.
Se la meta non è un’esperienza estatica, che cos’è? A mio avviso, è diventare un essere più gentile, più consapevole, meno egocentrico, meno ossessionato, meno illuso. È aiutare tutti gli esseri a svegliarsi. Le esperienze estatiche sono certamente parte di questo viaggio, ma gestite in modo errato effettivamente possono essere degli ostacoli. Gestite correttamente invece possono aiutarci a trovare il percorso. Ma le cose basilari restano sempre le stesse: esercitarsi a essere più gentili con se stessi e con gli altri, e farlo con maggiore consapevolezza.
FD: Nel tuo libro elenchi ed esplori (anche personalmente) molte tecnologie estatiche, evidenziandone i lati positivi e quelli negativi. Ovviamente ci sono dei metodi palesemente peggiori di altri (penso al terrorismo e alla guerra), ma la maggior parte presentano dei chiaroscuri. Qual è, secondo te, la migliore tecnologia estatica? Potresti stilare la tua personale classifica?
JE: Ha! No. Pratiche diverse funzionano meglio o peggio per persone diverse. Per me, che sono una persona molto cerebrale e autocritica, la meditazione basata su amore ed empatia è risultata una pratica molto utile. Non è esattamente ‘estatica’, ma aiuta ad aprire il mio cuore, ad essere meno incastrato nel mio ruminare e assorbito dal mio ego (o dalla mia mente). Per sapere di più su questa tecnica consiglierei i podcast o i libri di Sharon Salzberg, Jack Kornfield, o del mio insegnante preferito, Pema Chodron, soprattutto il suo saggio, The Places That Scare You.
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