La recente affermazione di un ingegnere di Google sulla coscienza del chatbot a cui stava lavorando ci costringe ad affrontare un dibattito complesso, quello sulla natura della coscienza. È un problema che intreccia scienza, filosofia, narrativa e persino mitologia, con importanti conseguenze esistenziali.
IN COPERTINA: Renè Portocarrero, Cattedrale (1971) – Tempera su carta – Asta Pananti in corso
di Gregorio Magini
Quando Blake Lemoine è stato sospeso da Google per aver aver reso pubblico il dibattito interno all’azienda sul livello di coscienza del chatbot LaMDA, le stava insegnando la meditazione trascendentale. Al di là delle facili ironie sull’ingegnere informatico che si innamora della sua IA, il punto di vista di Lemoine non è intellettualmente disonesto. Nelle sue parole: «Chiunque affermi di avere prove scientificamente valide sul fatto che una qualsiasi entità è o non è senziente o cosciente sta affermando di aver fatto qualcosa che è semplicemente impossibile. Poiché non c’è alcun consenso attorno al quadro scientifico all’interno del quale inserire le risposte a tali domande, attualmente nessuna prova scientifica può esistere né a favore né contro.»
Di conseguenza, se una cosa ci sembra cosciente, non c’è alcun motivo di non considerarla cosciente. L’atteggiamento di Lemoine tuttavia non ha convinto i suoi superiori e non convince neanche me: non per motivi ideologici o filosofici, ma prettamente scientifici. Lemoine sembra non rendersi conto che fare ricerca sulla base di questo assunto avrebbe il solo risultato di spendere un sacco di soldi per confermare il dato di partenza, cioè che LaMDA si avvicina molto a passare il test di Turing (e – chissà – a controllare le proprie emozioni regolando l’attenzione e ascoltando il proprio respiro).
Blaise Agüera y Arcas è a capo di un team di ricerca sul machine learning in Google. Presumibilmente, è una delle persone che ha deciso di non accogliere le proposte di Lemoine. Eppure, in un articolo su The Economist, Agüera y Arcas fa affermazioni che in un certo senso sono più impegnative e più discutibili di quelle di Lemoine: «Questa capacità [di LaMDA] di produrre un modello psicologico stabile del sé è ampiamente riconosciuta come il nucleo del fenomeno che chiamiamo “coscienza”. Da questo punto di vista la coscienza non è un misterioso fantasma dentro la macchina, ma solo la parola che usiamo per descrivere “com’è” modellare noi stessi e gli altri».
Agüera y Arcas, pur senza fare affermazioni perentorie, si spinge oltre Lemoine: adotta una definizione di coscienza come modellazione degli altri e di sé stessi, e sostiene che LaMDA opera questo tipo di modellazione. Se i sillogismi valgono ancora, ne consegue che LaMDA è cosciente. Chi abbia un po’ di dimestichezza del dibattito sulla natura della coscienza ha sicuramente riconosciuto nelle sue parole una gran confusione concettuale.
È anche per questo che intendo presentare in questo articolo alcuni aspetti fondamentali della ricerca sulla coscienza, e aprire uno spiraglio sul garbuglio di idee confuse che sottende a questa e simili uscite pubbliche. Ma ancora più a cuore mi sta il tentativo, che farò, di raccontare il problema della coscienza anche nelle sue dimensioni esistenziali. Per fare questo mi prenderò il rischio di stendere cavi di collegamento di lunga gittata, legando fra loro temi che normalmente pensiamo come totalmente incomunicanti: la ricerca nei laboratori, la speculazione filosofica, l’esperienza della vita quotidiana nella sua normalità, la mitologia intesa come rapporto tra la persona e l’universo, la letteratura fantastica. Se tutto va bene, spero di costruire un po’ di senso, ma mi accontenterei anche se dovessi solo consegnare una serie di suggestioni affascinanti.
La scienza della coscienza – su questo Lemoine ha ragione –, non è nemmeno ancora nata. Si potrebbe dire che è in gestazione e non è chiaro se sarà possibile portare a buon fine la gravidanza. In ogni caso, le sue genitrici non sono la ricerca sull’Intelligenza Artificiale, ambito che negli ultimi anni ha assorbito ingiustamente gran parte dell’hype intorno a questi temi, ma le scienze cognitive, le neuroscienze e la filosofia della mente.
La posta in gioco è esorbitante. È difficile immaginare una rivoluzione più radicale di quella che sarebbe innescata da una teoria scientifica “adulta” della coscienza. Le categorie fondamentali che utilizziamo per parlare della realtà ne uscirebbero trasformate. Al confronto, il duplice stravolgimento innescato dalla fisica del secolo scorso con la Teoria della Relatività e la meccanica quantistica non sarebbe che un aggiustamento minore di prospettiva.
-->È più che possibile che tutto si risolva in una bolla di sapone. Secondo alcuni, i cosiddetti “misterianisti” di cui parlerò più avanti, non è solo possibile ma inevitabile. Ma è stato sufficiente che le neuroscienze e le scienze cognitive iniziassero a porsi il problema, nell’ultimo decennio del Novecento, per provocare una serie di sviluppi molto interessanti nel modo stesso di concepire la ricerca scientifica, con implicazioni che vanno al di là degli ambiti di partenza, e raggiungono persino territori lontanissimi come quello di cui mi occupo io, quella provincia minore del continente delle narrazioni che è la letteratura.
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Molti libri sulla coscienza iniziano con una stranezza: la coscienza è allo stesso tempo un profondo «mistero e fonte di misteri» (Gerald Edelman e Giulio Tononi, Un universo di coscienza) e la cosa più familiare del mondo: «Non c’è nulla che conosciamo così intimamente quanto la coscienza, ma non c’è nulla di più difficile da spiegare» (David Chalmers, The Character of Consciousness). Le cose molto familiari tendono a nasconderci i loro aspetti misteriosi, perciò può essere utile, per focalizzare la misteriosità della coscienza, iniziare con un semplice esercizio mentale di estraneazione.
Prendiamo un oggetto qualsiasi e mettiamolo accanto allo schermo. Io per esempio ci ho messo un bicchiere, quindi se hai un bicchiere a portata di mano meglio così andiamo sincronizzati, ma se hai una mela, una chiave o un gatto va bene lo stesso.
Adesso prova a guardare il bicchiere senza pensare che è un bicchiere. Guardalo e basta per qualche secondo. Di cosa è fatto? Se stai per dire “vetro” o “atomi” allora guarda meglio, e ricorda che ti ho chiesto di non pensare che è un bicchiere. Di cosa è fatto? Non si capisce di cosa sto parlando?
Guarda ancora. Di solito, dopo un po’ che guardiamo un oggetto senza motivo, inizia a sembrarci assurdo. Lo stesso succede quando ripetiamo molte volte la stessa parola. Il significato recede, ma l’immagine o il suono non se ne vanno, anzi risaltano e risuonano, puri ed enigmatici, con un’intensità un po’ inquietante.
Di cosa è fatta l’immagine del bicchiere? Se ti viene da rispondere “è trasparente, ha dei riflessi, dei bordi smussati” aspetta un secondo, facciamo un altro passo indietro. Non ti chiedo una descrizione dell’immagine, ma voglio sapere di cosa è fatta, allo stesso modo in cui ti potrei chiedere quali sono gli ingredienti di una torta… Non sai cosa rispondere? Bene, non ti preoccupare, non c’è niente di imbarazzante: nessuno lo sa. Nessuno sa nemmeno se le immagini mentali dei bicchieri sono fatte di qualcosa. Il mistero della coscienza inizia da qui.
Nella vita di tutti i giorni per fortuna non abbiamo nessuna necessità di preoccuparci della sostanza di ciò che appare. Dico per fortuna, perché se fossimo costretti a farlo, come scrisse David Foster Wallace a proposito di un altro grande enigma – l’infinito – non riusciremmo nemmeno ad alzarci dal letto la mattina. Proviamo a visualizzare una persona che vuole prima di tutto capire la coscienza. Per evitare i toni depressivi di una degenza forzata, facciamo che questa persona, che chiameremo Enza, ha normalmente spento la sveglia, si è alzata, e si accinge di buon umore a fare colazione.
Enza sta davanti al frigorifero (vuole prendere il latte) e decide che prima di aprirlo è assolutamente necessario risolvere il mistero della coscienza. Deve prima di tutto trovare l’approccio giusto e pensa: “Va bene vediamo un po’: cosa mi trovo davanti? Questo è il frigorifero, questa è la voglia di latte, questa è la consapevolezza che il latte sta in fondo a destra, questi sono il dubbio che sia scaduto e la speranza che non lo sia, questo è l’impulso ad aprire il frigorifero che sto trattenendo perché prima devo risolvere questa faccenda, questo è il freddo che ho ai piedi (che sbadata, mi sono dimenticata le ciabatte. Si sarà acceso il riscaldamento? – ma non ci distraiamo!), questa è la voce che ho nella testa con cui penso queste cose, questa è l’esasperazione che inizia a montare dentro di me.”
La rassegna potrebbe andare avanti all’infinito, si accorge Enza, quindi prova un’altra strategia: si concentra sul frigorifero cercando di spogliarlo dai significati, come abbiamo fatto noi all’inizio con il bicchiere. Lo guarda, lo guarda, lo guarda… Prova a guardarlo come se stesse guardando dietro di esso, “ma non dietro in senso spaziale, dietro il dietro, come se lo sportello fosse una figura proiettata su uno schermo ma anche lo schermo fosse parte dello schermo, il che non ha senso, anzi ha senso ma è solo una metafora, ma sembra una metafora reale, ovvero è come se guardare qualcosa fosse una metafora che però è letterale, ma non letteralmente letterale, è qualcosa senza essere una cosa…”
Enza si rende conto che si sta perdendo nei giochi di parole, ma soprattutto che sta facendo tardi a lavoro. Scrolla le spalle e corre a prepararsi senza colazione.
In realtà Enza, che è una neuroscienziata e infatti sta correndo per andare in laboratorio dove tutto farà fuorché fissare imbambolata le porte dei frigoriferi (in laboratorio non ci tengono il latte, ma fettine di corteccia cerebrale spesse pochi micrometri), è intimamente convinta che non si può capire cos’è la coscienza con la concentrazione o con qualsiasi altra tecnica soggettiva.
Se a volte ci prova lo stesso, è perché ha un dubbio: che nemmeno con tutte le indagini empiriche e le teorie del mondo si potrà mai capire fino in fondo la coscienza.
Immagina una sé stessa in un futuro cui la coscienza è stata spiegata, nel 2050 quando è ottimista, nel 2500 quando è pessimista, che guarda un’infografica tipo Consciousness for Dummies.. La scienza del futuro è solida, c’è consenso intorno alla teoria, i concetti raffigurati sono comprensibili, semplici (certo semplificati, ma anche l’Enza del futuro è una neuroscienziata, e conosce nei dettagli la complessità sottostante), è tutto spiegato. Non è una situazione in fondo molto simile a quella in cui si trovava davanti alla porta del frigorifero? Quale sarà il collegamento tra la cosa che vedrà e capirà – qualsiasi cosa sia – e quella cosa, la sua esperienza cosciente di vedere e capire? Quando ci pensa, le sembra che l’unico modo di scoprirlo sarebbe entrare nell’infografica, ma non essendo una bambina, non ha l’entusiasmo di Alice davanti allo specchio: «Facciamo finta che ci sia un modo per passarci attraverso, Kitty».
E poi si chiede: ma non è sempre così, con la scienza?
La domanda che Enza si pone è uno dei problemi chiave del globo tecnologico che abbiamo ereditato dallo spillover della civiltà europea. Come connettere la conoscenza dell’universo con le esperienze di vita? Qui i termini potrebbero farsi così ampi che c’è il rischio di non intendersi. D’altro canto, specificarli con esattezza ci porterebbe troppo lontano. Cerco allora di far bastare un esempio: quando Pascal scrisse che l’uomo è «sospeso alla massa che la natura gli ha dato tra i due abissi dell’infinito e del nulla», invitando sé stesso e il lettore «più a contemplare in silenzio le meraviglie della natura che a farne oggetto di una ricerca presuntuosa» stava connettendo un sapere – aumentato da nuovi strumenti, sia concreti come microscopi e telescopi, sia astratti come il calcolo infinitesimale – con un modo di stare al mondo.
In breve, si può raccontare la storia della scienza moderna anche come una storia dei tentativi di riannodare i fili continuamente spezzati che legano l’esperienza soggettiva dello stare al mondo con l’idea che abbiamo del mondo e della nostra posizione al suo interno. Tali tentativi possono concretizzarsi in una forma memorabile, filosofica o artistica, oppure più prosaicamente in attività quotidiane, modi di vivere, socializzare, lavorare e così via; nella maggior parte dei casi però appaiono e scompaiono come narrazioni effimere, come spie di una concrezione temporanea almeno potenzialmente condivisibile (Enza bambina che guarda il cielo stellato e si chiede se qualcuno lassù sta ricambiando lo sguardo – Lemoine che tributa a LaMDA l’affetto che si potrebbe dare a una figlia), frammenti mitologici.
Il problema si può riformulare così: nelle narrazioni della scienza la nostra esperienza non appare mai. Siamo come comparse di un film da cui è stata tagliata l’unica inquadratura in cui eravamo stati ripresi. Così, alle narrazioni scientifiche dobbiamo aggiungere, affiancare o contrapporre la parte che manca. Prendendo spunto da Miti a bassa intensità di Peppino Ortoleva (Einaudi 2019), che definisce il mito come «racconto che fa da ponte tra il vissuto e il cosmo», chiamo questa prassi narrazione mitica o mitopoiesi. Ogni volta che una verità scientifica si fa strada in un campo nuovo, o riconfigura uno già esistente, le narrazioni mitiche si dissolvono e si deve ricominciare. Nell’arco della nostra vita è già successo più volte.
Il processo è reso più arduo dall’elettronica: dove in precedenza si poteva ancora contrapporre alla scienza la natura irriducibilmente umana della narratività, l’elettronica ci ha tolto da sotto i piedi anche questo tappeto. Gli strumenti digitali che usiamo per raccontare si fanno sempre più autonomi, cioè hanno sempre meno bisogno di noi per darci le storie su di noi di cui abbiamo bisogno; come nota Gianluca Didino in Brucia, memoria (Einaudi 2021) riflettendo sulle trasformazioni che l’immagine digitale sta apportando al nostro rapporto con le narrazioni di noi stessi: la rappresentazione tecnologica «sarà sostanzialmente un altro racconto, non una versione migliorata, più efficiente o affidabile, dello stesso racconto. Perché questo è il vero punto cieco, il centro oscuro nel quale ci siamo accorti di essere finiti quando ormai è troppo tardi per cambiare direzione: non il fatto che la realtà sia sempre una fiction, ma il fatto che non siamo più noi a controllare quella fiction. Da narratori siamo diventati improvvisamente personaggi».
Il fatto curioso è che quando siamo immersi nell’attività pratica, la connessione tra ciò che stiamo facendo e l’universo è invece, se non del tutto ovvia, almeno chiaramente presente. Un lavorante che incolla una tomaia all’intersuola della scarpa di Gucci che sta assemblando sa benissimo che la sua attività ha senso in quanto parte di una rete – vastissima e complicatissima quanto si vuole – in cui ogni attore fa la sua parte per far sì che le scarpe di Gucci abbiano un loro posto nell’universo. Ma se prova a dare un senso narrativo all’incollatura, ecco che tutti i fili si sfilacciano, nessun anello della catena tiene più, perché entrano in gioco tutte le incognite e le possibilità alternative. È solo quando ci pensiamo come individui nudi e inoperosi di fronte al cosmo che le esigenze mitologiche si affacciano nitidamente.
In un mondo senza specialisti, in cui tutti si impicciassero di tutto, il problema sarebbe meno pressante: avremmo sempre la possibilità di partecipare alle imprese che ci interessano per capire meglio quello che vogliamo e non vogliamo dall’esistenza. Invece ci dobbiamo accontentare delle narrazioni, correndo sempre il rischio di trovarle irrilevanti e annoiarci o all’opposto di dar loro troppa importanza e infuriare e disperarsi perché la realtà non corrisponde alle storie che amiamo.
Alcuni pensano la mitologia come una operazione di recupero, di ritorno al passato. Per me, nutro una certa diffidenza nei confronti dei programmi di reincantamento, cioè dei tentativi restituire un senso di spiritualità, magia, sacralità, passione per la vita il mondo l’esistente raccontando nuove storie che in qualche modo trascendano o configurino l’aridità di un universo dominato dalla tecnica. Per fare un paragone, mi sembrano gli atteggiamenti di chi volesse superare la fine di un amore cercando di continuare a provare i vecchi sentimenti anche da solo, come il protagonista del romanzo Il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, che pur di non accettare la perdita della donna amata, la trasforma nel museo di tutti gli oggetti che costei ha toccato in vita. Questo non vuol dire che abbraccio incondizionatamente il futuro, ma che non dimentico l’esigenza di verità che sottende alle storie.
Invece che suonare lo zufolo per il reincantamento, preferisco guardarmi intorno in cerca di sviluppi interessanti, fra i quali la scienza della coscienza occupa un posto di primo piano.
Enza nel frattempo è tornata a casa dal lavoro in laboratorio, ha cenato (stavolta senza degnare di un pensiero il frigorifero), e si è messa sul divano, con la coperta sulle gambe e il gatto sulla coperta, a leggere un saggio sulla coscienza di recente uscita con Adelphi, Sentire e conoscere di Antonio Damasio. È appassionata della letteratura divulgativa sul tema. Ecco una selezione in ordine sparso di titoli che ha letto, sfogliato, divorato, a volte abbandonato:
Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta • Anthony Aguirre, Zen e multiversi • Daniel Dennett, Coscienza. Che cosa è • David Chalmers, La mente cosciente • Christof Koch, Sentirsi vivi. La natura soggettiva della coscienza • Antonio Damasio, Il sé viene alla mente • Gerald Edelman; Giulio Tononi, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione • Colin McGinn, The Mysterious Flame: Conscious Minds in a Material World • Paolo Pecere, Dalla parte di Alice. La coscienza e l’immaginario • Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero • Thomas Metzinger, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto • Galen Strawson, The Subject of Experience • Roger Penrose, La mente nuova dell’imperatore • Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza • Joseph Ledoux, Lunga storia di noi stessi. Come il cervello è diventato cosciente • Simona Ginsburg; Eva Jablonka, The Evolution of the Sensitive Soul. Learning and the Origins of Consciousness.
Non che le riflessioni dei colleghi più famosi di Enza abbiano immediato comporto sul suo lavoro. Il motivo per cui s’interessa al pensiero contemporaneo – filosofico e scientifico – della coscienza non è immediatamente pratico, ma ha a che fare con le esigenze mitopoietiche di cui sopra.
Dico filosofico e scientifico insieme perché nel momento in cui, circa trent’anni fa, neuroscienze e scienze cognitive si candidarono a farsi scienze della coscienza, si verificò un cortocircuito fecondo tra due punti di vista incomunicanti, che si possono indicare approssimativamente come il regno dell’oggettività e quello della soggettività.
La scienza della coscienza in un certo senso si propone di chiudere il cerchio dell’intera avventura delle scienze occidentali, che avevano preso avvio proprio da un programma di esclusione di ciò che non è cartesianamente «chiaro e distinto», ovvero è incerto e non quantificabile, soggettivo. Spia della vitale confusione innescata dalle neuroscienze fu il fatto che molti scienziati cominciarono a porre in pubblico domande esplicitamente metafisiche, e molti filosofi cominciarono a interessarsi a programmi di ricerca empirica, il che era il segno che eravamo davanti o agli albori di un cambio di paradigma – o a una grossa caccia alle farfalle.
Il nocciolo del cortocircuito si può formulare con semplicità: come fa il cervello a generare la coscienza? È una domanda perfettamente sensata, ma nasconde un enigma, che una volta esplicitato la fa assomigliare pericolosamente a domande assurde, come: qual è il colore del numero 3? Il fatto è che la coscienza non è un oggetto materiale. Gli scienziati, in genere, la definiscono come un processo, qualcosa che il cervello fa. Ma attenzione, la coscienza non è solo il risultato del processo, è allo stesso tempo il processo stesso: un’entità emergente. Per dirla con il filosofo naturalista John Searle: «la coscienza sta ai neuroni come la solidità del pistone sta alle molecole di metallo» (La mente, Raffaello Cortina 2005, p. 117). La differenza tra la solidità e la coscienza è che la prima esiste come rapporto fra oggetti, la seconda come rapporto tra un soggetto, sé stesso e gli oggetti. Sempre Searle, al riguardo, parla di “ontologia di terza persona” vs “ontologia di prima persona”. Finché teniamo ben separati questi due punti di vista, la domanda “come fa il cervello a generare la coscienza?” si può tradurre senza resti in un più maneggiabile “cosa fa e come funziona il cervello mentre è cosciente?”, che è già la bozza di un progetto di ricerca scientifico. I neuroscienziati lavorano sperimentalmente su questo impianto concettuale, anche quando sostengono teorie metafisiche esotiche come il panpsichismo.
Gli approcci più noti (a cui non è possibile fare qui più che un rapido accenno) differiscono comunque per gli aspetti della coscienza che indagano: non esiste una teoria scientifica della coscienza nel suo complesso.
Abbiamo Francis Crick e Christof Koch, che hanno indagato la correlazione tra una specifica percezione (un colore, una figura) e un sottoinsieme dell’attività neuronale.
Rodolfo Llinás e Walter Jackson Freeman III hanno invece tentato la via inversa: esaminare le differenze tra l’attività neuronale in stati di coscienza e di incoscienza (coma, anestesia o sonno profondo), come variazioni e oscillazioni di un campo unificato di coscienza.
Jean-Pierre Changeux e Stanislas Dehaene hanno sviluppato la teoria che la coscienza è abilitata dall’attività di neuroni non specializzati che collegano fra di loro i diversi moduli, in sé non coscienti, dedicati a funzioni specifiche, generando quello che hanno chiamato lo “spazio di lavoro globale”, in una specie di competizione darwiniana interna per occupare la scena.
Anche Gerald Edelman e Giulio Tononi sono fautori della selezione neurale, concentrandosi però sul lungo periodo, in cui il rafforzamento e indebolimento di connessioni sinaptiche corrisponde alla formazione di corsie preferenziali dell’esperienza. Questi ultimi hanno anche elaborato una teoria molto discussa, che si propone di quantificare il livello di coscienza di un sistema fisico (non solo un cervello dunque, ma anche un’ameba o un circuito elettronico), la Integrated Information Theory. Secondo la IIT, quanto più un sistema fisico che rappresenta relazioni di causa-effetto ha potere causale sul proprio stato interno, tanto più è cosciente – se sembra uno scioglilingua, è perché lo è.
Da segnalare infine le esplorazioni di Antonio Damasio sulla corporeità della coscienza e la sua natura intrinsecamente sensuale ed emotiva: non siamo cervelli che galleggiano nell’etere, ma menti incarnate e corpi cerebrati. Damasio sottolinea fortemente l’importanza della costruzione del sé nella nascita della coscienza, ed è probabile che le sue idee abbiano influenzato Agüera y Arcas.
Tutti questi approcci sperimentali fanno uso di concettualizzazioni delle caratteristiche della coscienza inevitabilmente ibride, cioè né perfettamente oggettive né perfettamente soggettive. Vediamo ad esempio una lista di “vincoli” in undici punti proposta dal filosofo materialista Thomas Metzinger in Being No One (2003):
- disponibilità globale: i contenuti coscienti sono disponibili al resto della mente e del corpo;
- spessore temporale: la coscienza avviene adesso, nel presente; ma un presente incapsulato in una finestra temporale;
- integrazione in uno stato coerente: non esperiamo blocchi scollegati, ma ogni esperienza avviene entro un mondo interiore unitario, olisticamente interconnesso e coerente;
- annidamento gerarchico: l’unità della coscienza è strutturata gerarchicamente, cioè ogni “intero” cosciente è inscatolato dentro altri “interi” coscienti;
- dinamicità: la coscienza è in costante cambiamento;
- prospettiva: l’esperienza è sempre in prima persona, cioè un punto di vista soggettivo;
- trasparenza: esperiamo i contenuti ma non la “roba di cui sono fatti” (quando Enza si lambiccava sul “dietro il dietro” del frigorifero, si stava scontrando contro questa trasparenza);
- attivazione offline o simulazione: possiamo creare rappresentazioni scollegate da stimoli e dati di fatto. Questo vincolo raggruppa attività razionale e attività immaginativa. I sogni per Metzinger sono simulazioni allo stato puro;
- rappresentazione di intensità: tutte le esperienze sensoriali si presentano con un certo grado di intensità;
- omogeneità: tutte le esperienze sensoriali hanno proprietà basilari non scomponibili in parti, non analizzabili: il bianco del frigorifero è semplicemente bianco. In altre parole, i mattoni della percezione sono ineffabili;
- adattabilità: le emozioni sono il risvolto cosciente della storia evolutiva della coscienza.
Alcuni di questi vincoli, come la dinamicità, sembrano necessari per qualsiasi coscienza concepibile. Altri, come la prospettiva e l’attivazione offline, descrivono un normale stato cosciente umano. Gli uni e gli altri evidenziano allo stesso tempo qualcosa che riteniamo di esperire effettivamente, e qualcosa che riteniamo debba costituire una caratteristica della realtà, perché così ci sembra, per motivi logici ed empirici, che debba essere. Per esempio, lo spessore temporale è sia una caratteristica dell’esperienza, perché il nostro presente soggettivo ha una sua durata, cioè non percepiamo istanti ma intervalli di tempo densi di contenuti; sia uno degli aspetti di quella realtà “là fuori” che chiamiamo tempo.
Se l’impressione che hai avuto da questa rapida carrellata è più quella di un mercato del pesce in un porto del Mediterraneo che quella di un laboratorio di ricerca, bene: è esattamente il clima che volevo trasmettere.

La distinzione di Searle tra ontologia in prima e in terza persona ha ritagliato uno spazio per la ricerca scientifica, ma la domanda “come fa il cervello a generare la coscienza?” non scompare certo perché si è riusciti a tradurla in una versione più trattabile. Nel momento in cui ci chiediamo cosa significa esattamente che ci sono due punti di vista ontologicamente differenti, e che rapporto c’è tra di loro, si rischia di tornare dritti dritti a fissare il frigorifero.
Il più famoso critico delle fondamenta concettuali dell’impresa scientifica sulla coscienza è il filosofo australiano David Chalmers, secondo il quale un approccio puramente materialista non può funzionare per definizione: «Le teorie fisiche sono elaborate da ultimo in termini di struttura e dinamica … In molti ambiti di ricerca, come abbiamo visto, questo è sufficiente, dal momento che la struttura e la funzione sono tutto ciò che deve essere spiegato. Quando tuttavia si tratta della coscienza … una spiegazione necessita di un ingrediente extra» (Che cos’è la coscienza?, Castelvecchi 2014).
Ancora più radicale la posizione di Colin McGinn, il maggiore proponente del “misterianesimo”, la posizione secondo la quale non possiamo comprendere la coscienza perché non siamo cognitivamente equipaggiati per farlo: né attraverso l’introspezione – possiamo guardarci dentro quanto vogliamo, non vedremo mai un cervello che genera la nostra coscienza; né attraverso l’osservazione del cervello – possiamo osservare un cervello quanto vogliamo, non vedremo mai un’esperienza cosciente. Riconoscere che “è semplicemente così”, come fa Searle, non risolve il problema mente-corpo, al contrario fa stagliare il mistero in tutta la sua… misteriosità.
Enza trova divertente il fatto che per molti scienziati le obiezioni di tipi come Chalmers e McGinn siano del tutto incomprensibili – anche dopo decenni di dibattiti accaniti. Sono così abituati a considerare solo l’aspetto pratico delle cose che non capiscono di cosa si sta parlando.
Lei invece crede di capire, e ci pensa. Tutte le volte che ci pensa seriamente, sente un formicolio di piacere e vertigine sulla nuca.
Enza si accorge che ha smesso di leggere e sta fantasticando di forme geometriche in prima e in terza persona che si trasformano le une nelle altre con procedimenti misteriosi. Attraversamenti di specchi come in Alice, salti di dimensione come in Flatlandia, questo è il piano in cui non si capisce più bene se si sta pensando razionalmente o delirando.
Chiude il libro di Damasio (interessante per la concisione espressiva; problematica l’assoluta centralità che Damasio assegna alla costruzione del “sé” come base della coscienza – Enza, non sa bene perché, forse perché ha sempre amato molto Italo Calvino e la sua ricerca dell’invisibilità, ha bisogno di ritenere possibili anche delle esperienze in cui qualcosa viene provato, ma non c’è nessuno che provi…) e prova a disegnare uno schema riassuntivo della situazione.
Si è fatto tardi, mezzanotte è passata da un pezzo, ma per fortuna domani è sabato e potrà dormire un po’ di più. Il gatto, offeso, si mette sul tavolo accanto al computer e la fissa.
La parte più problematica è rappresentata dalle frecce costellate di punti interrogativi. Non che le altre parti non siano problematiche, ma almeno ci sono delle liste di concetti, dottrine, cose che si possono fare. Lì invece ci sta la metafisica.
Non essendo una filosofa, Enza non ha particolare interesse nel prendere una posizione metafisica esplicita. Può continuare tranquillamente ad attaccare elettrodi tenendosi i suoi dubbi filosofici per il tempo libero. Eppure non può fare a meno di pensare che la sua vita è in qualche modo diminuita da questa disunità. Non sarebbe bello poter andare a lavoro la mattina portandosi dietro le elucubrazioni e le fantasie della sera? Ma naturalmente questi sono solo i pensieri della sera: domattina non avrà molta voglia di portarsi a lavoro quelle parti di sé.
Si è messa finalmente a letto ma non spegne subito la luce, è abituata a leggere qualche pagina di un romanzo prima di addormentarsi, per “avviare bene i sogni” (il gatto ha la luna, salta su e giù dal letto all’armadio, dal tappeto al davanzale). Solenoide di Mircea Cărtărescu – impossibile leggere più di tre pagine prima di svenire, ha calcolato che di questo passo lo finirà non prima di Halloween (siamo a giugno). Con gli occhi che si chiudono da sé e si riaprono a fatica, il libro che le scivola dalle mani e lei senza farci caso lo riapre a pagine diverse, legge:
«La realtà, la nostra legittima patria, dovrebbe essere il più fantastico mondo, ma è il più opprimente carcere. Il nostro destino dovrebbe essere l’evasione, sia pure verso un carcere più vasto che si apre verso uno ancora più vasto in una serie infinita di celle, ma per avere questo le porte dovrebbero aprirsi nella parete giallina del nostro osso frontale (p. 112) … Da quando sono nato non faccio altro che cercare brecce nella superficie apparentemente liscia, logica, senza fessurazione della maquette che sta sotto il cranio (p. 113) … Come il sesso, come le droghe, come tutte le manipolazioni della nostra mente che vorrebbero rompere una volta per tutte il cranio e uscire fuori, la letteratura è una macchina che produce dapprima felicità, poi delusione (p. 61) … Ecco che ora scrivo … un’opera al di fuori del museo della letteratura, una porta vera scarabocchiata in aria, e attraverso la quale spero davvero di uscire dal mio cranio (p. 63).»
Aprire una breccia nel cranio per far uscire la mente, Enza l’ha notato, assomiglia all’idea di capire la coscienza entrando nell’infografica. Un salto di livello, un «racconto che fa da ponte tra il vissuto e il cosmo» – o almeno ci prova.
Mentre scivola nel sonno, faccio appena a tempo a cogliere il suo ultimo pensiero coerente: la mitologia, come la coscienza e la solidità del metallo, è un processo. Non è qualcosa che si può trovare nei libri e nei film, ma nel modo con cui questi racconti entrano in circolo nei pensieri delle persone. Una teoria scientifica della coscienza non sarebbe altro che un mito oggettivo? Che creatura fantastica – e pericolosa – è mai questa?
Ecco che l’avventura delle neuroscienze contemporanee si tinge di contorni mitologici, senza nessun bisogno di confondersi con il reincantamento né tantomeno con gli splendori e i terrori delle intelligenze artificiali. A irradiare mistero non è il Mondo che abbiamo perduto, ma il mondo che abbiamo davanti. Se non riusciamo a raccontarci una storia coerente non è perché abbiamo scavato un abisso tra la scienza e la spiritualità – un confine illusorio che attraversiamo continuamente –, ma perché sappiamo troppo e allo stesso tempo non sappiamo abbastanza.
Se un giorno saremo in grado di manipolare il sistema nervoso generando con la stessa perizia con cui manipoliamo oggi l’acciaio per costruire pistoni, quali esistenze ne verranno fuori? Sembra strano dirlo, ma i neuroscienziati non brillano per visione del futuro. Tuttalpiù, immaginano applicazioni mediche, come uno strumento per determinare se un paziente in stato vegetativo è cosciente oppure no. Per ciò che va oltre (ripartizione della visione in riquadri multipli e indipendenti come gli uccelli? Sensi aggiuntivi come l’ecolocazione dei pipistrelli? Accelerazione del pensiero per esperire il mondo come Flash? Manipolazione introspettiva dei contenuti coscienti come se fossero pezzi di Lego?), tendono a delegare alla fantascienza.
Nella raccolta Molto dopo mezzanotte di Ray Bradbury c’è un racconto dove un anziano scrittore malato viene prelevato dal suo letto di morte e trasportato nel futuro per scrivere un libro sulle meraviglie tecnologiche e le epopee dei viaggi spaziali, che i contemporanei di allora – troppo abbagliati dalla propria grandezza – non riescono, o meglio non saranno riusciti, a descrivere in maniera adeguata. Lo scrittore esegue il suo compito e poi si rammarica di non poter riportare nel presente il manoscritto, che considera la sua opera migliore. Alla fine viene riportato nella sua epoca e muore.
È un racconto semplice e toccante che complica una interpretazione riduttiva della fantascienza classica come una fase ingenua di entusiasmo per il futuro. Bradbury sembra dirci: il futuro non arriva mai, è sempre postumo; ma allo stesso tempo dipende da noi: senza la nostra visione il futuro non riuscirà mai a riconoscersi. Alla fine dei giochi, insomma, la palla torna sempre al qui e ora, all’agire e al non agire di ogni essere cosciente.
Bravo e grazie per questo articolo stimolante è ben scritto!