L’intelligenza artificiale nell’arte è un bene per la scrittura?



Le conseguenze dell’arrivo dell’intelligenza artificiale nell’arte sono tantissime. Ma ce n’è una di cui si parla troppo poco: l’impatto sulla narrativa.


In copertina e nel testo opere di sofia crespo

 

di Francesco Spiedo

L’arrivo, già in fase beta, di software come Midjourney e DALL-E, capaci di trasformare input testuali in immagini, ha solleticato fantasie e preoccupazioni. Sono fioccati articoli e approfondimenti, pubblico e utenti si sono schierati spesso su posizioni contrastanti, alimentando alle volte dicerie infondate e spendendosi in santificazioni affrettate – come ogni volta che compare qualcosa di nuovo. Di potenzialmente rivoluzionario. Perché in effetti la possibilità fornita da questi software, al di là della resa grafica e del valore artistico del prodotto ottenuto, è incredibile: permette letteralmente a chiunque di creare immagini a partire dalla parola. Senza dover aver alcuna capacità artistica particolare, nessuna sensibilità, nessun diploma di Belle Arti. Basta scrivere. Inserire un prompt – linguaggio inutilmente informatico per definire una frase descrittiva – e via. Il software restituisce l’immagine. Tutto ciò che si pensa e che si riesce a trasformare in parola può essere riconvertito in linee, colori, forme. Con una varietà di stili e tecniche che è impressionante. Di fronte a tale possibilità è legittimata sia la paura di chi grida alla fine del mondo sia l’entusiasmo di chi aspetta il nuovo mondo. Nessuno è rimasto indifferente alle prime immagini circolate su internet, in molti hanno spinto per essere ammessi come beta tester, in tanti hanno già creato un account ora che i software iniziano a girare nelle loro forme più complete – dotate persino di uno, due, tre o quattro aggiornamenti e presenti in diverse versioni. Curiosità persino in uno come me che non saprebbe disegnare un albero, che non ha mai lavorato neppure su Paint, che non distingue .jpeg da .png (no, ora mi sono informato ma solo perché volevo essere sicuro vi fosse realmente una differenza prima di scrivere una sciocchezza). Le riflessioni che si potrebbero fare sono molte, forse troppe, ma da parte mia ho un vantaggio: non disegno, non lavoro con la grafica, non sono un critico d’arte, non credo nella superiorità morale di ciò che è creativo. Posso permettermi di limitare il campo solo a ciò che mi interessa: i libri. Quindi in questa sede non ci invischieremo nella diatriba etica su plagio, diritto d’autore, filtri violenza o nudità e neppure sul valore artistico, più o meno riconosciuto, di tali software ma ne valuteremo le potenzialità in ambito letterario. Potenzialità e possibili conseguenze, analizzando ciò che è già stato, ciò che sta succedendo e ciò che potrebbe succedere. 

A un primo sguardo le possibilità in ambito editoriale sono due: in un caso produrre immagini che potrebbero entrare a far parte del libro, nell’altro invece supportare l’autore durante la stesura dello stesso. È abbastanza evidente che le copertine potrebbero essere realizzare dando in pasto al software frasi caratteristiche, parole chiave, materiale che gli uffici commerciali utilizzano già per vendere il libro. Uno strumento utilissimo nelle mani dei grafici o degli stessi autori che potrebbero sbizzarrirsi in un tentativo dopo l’altro. Così lo stesso per le illustrazioni. Un autore, magari con una certa sensibilità estetica ma scarse capacità nel disegno, potrebbe illustrare autonomamente il suo testo senza dover ricorrere a un illustratore. Giusto? Sbagliato? Non facciamone un giudizio di merito. Si osservi solo la possibilità: un autore potrebbe fare tutto da sé, consegnando un romanzo con decine di illustrazioni. Il software è talmente veloce nella realizzazione che è più il tempo che si spende a inserire le descrizioni che quello utilizzato dall’IA per restituire l’immagine. Meglio sarebbe, questo per alzare il livello qualitativo del materiale prodotto, che l’autore abbia una qualche competenza. Che fosse pittore o illustratore, magari persino dilettante o allo sbaraglio, un po’ come accadeva in passato: in quel periodo storico che va dal ‘700 ai primi del ‘900 non era inusuale che un artista fosse tale in uno specchio tanto ampio da risultare poeta, scrittore, pittore, illustratore, compositore, musicista al tempo stesso. Ne ho scritto meglio su minima&moralia concentrandomi attorno alla figura di Tolkien, pittore dilettante e immenso scrittore: le immagini, per lui e altri, come Carroll o Buzzati, tanto per fare due esempi, non sono state mai altro dal testo. Anzi. 

Questo è l’assist perfetto per considerare il secondo impatto in ambito editoriale: questi software potrebbero risultatre utilissimi in fase di mind set. Discutendo con alcuni autori e autrici, tra cui Veronica Galletta, è emersa l’esigenza di costruire mappe, schemi, schizzi dei luoghi, alle volte profili e volti, dettagli fisici dei personaggi: materiale di supporto alla fase creativa. Un’abitudine che arriva da lontano e che oggi viene preservata da chi scrive ma non solo. Non è inusuale che architetti e ingegneri finiscano per schematizzare il proprio mondo narrativo, facendosi aiutare anche da piante delle case dove si ambienta la storia, per fare un esempio. Si è sempre disegnato accanto al testo, agli appunti, sul bordo delle pagine. Per provare a visualizzare. Con un software come Midjourney si potrebbe semplificare una parte di questa trasformazione visiva e, allo stesso tempo, renderla accessibile anche ad autori che non hanno le competenze grafiche per tracciare un profilo o disegnare un volto. Non è una speculazione, basti aver osservato i profili social di molti autori durante le prime settimane di vita di questi software, gli articoli e i dibattiti in merito. Tentativi creativi, alle volte basilari altre volte molto curati, di rappresentare passaggi dei propri romanzi, scene particolari, atmosfere delle storie. Autori che aprono i propri volumi pubblicati, copiano alcuni periodi e lasciano lavorare la macchina postando poi il risultato con didascalie del tipo questo è come appare il mio libro, questi i colori della mia storia, questo l’aspetto del protagonista. Decine e decine di post. Non potete non averli notati. Qui, per dare un’idea delle possibilità di utilizzo e sulla diversa declinazione creativa e immaginifica, citiamo tre casi diversi e complementari: quello di Vanni Santoni che ha creato, anche per La Lettura (Corriere della Sera, 28 agosto 2022), i ritratti di Anna Karenina ed Emma Bovary, quello di Andrea Donaera che ha illustrato Dante e Beatrice, una poesia di Montale e una propria e, infine, Giuseppe Nibali che ha rappresentato alcune scene del suo romanzo d’esordio. Sono tre esempi diversi, anche nello stile e nelle atmosfere, ma che danno un’idea generale complessiva: si possono vedere i personaggi dei testi altrui, si possono illustrare poesie ma anche romanzi, propri o di altri. Tutto diventa immagine purché ci sia la parola. 

Ma se questa rappresentazione in immagini non fosse più successiva – a libro chiuso – ma diventasse parte del processo narrativo? Durante la stesura dello stesso. Scrivo quindi trasporto in immagini allora riscrivo andando a descrivere un’immagine e non più un’idea astratta. Non il contenuto della mia mente, ma l’immagine chiara e definita apparsa sullo schermo. È un’opportunità evidente e un vantaggio immaginativo per chi scrive. L’autore può concretizzare la sua immagine mentale, renderla visibile, quindi rendersi conto se effettivamente è ciò che vorrebbe far immaginare anche al lettore. Se non lo è potrebbe decidere di modificare il testo, creare diverse suggestioni. Oppure, qualora l’IA offrisse dei dettagli insperati o un taglio non considerato, potrebbe essere l’occasione per dire di più, scrivere altro, per immaginare un nuovo sviluppo narrativo. Non credo sia solo una conseguenza della fascinazione visiva degli scrittori, ma la dimostrazione del legame antico tra diverse forme d’arte che prima vivevano in un tutt’uno: scrivere e dipingere, ma anche arti dure e arti morbide, letteratura e matematica, narrativa e ingegneria/architettura. Tutto è uno. Buzzati e Dostoevskji per citare due esempi dove era unito ciò che oggi siamo abituati a considerare opposto, alle volte persino in contraddizione, dove l’uno esclude l’altro. Se al disegno sostituiamo una più generica passione per il visivo, allora possiamo includere anche London e A. Ginsberg entrambi grandi amanti della fotografia. Qualche volta carriere parallele, secanti in alcuni casi e delle volte persino coincidenti – rubando a me stesso l’allegoria geometrica utilizzata già in occasione dell’analisi sul Tolkien illustratore. Parola e immagini hanno sempre raccontato storie, oggi le parole possono costruire delle immagini che raccontano storie.

Speculando potrebbero addirittura nascere nuove categorie di scrittori: gli scrittori di immagini artificiali. Come un tempo con gli scrittori pittori, gli scrittori fotografi o gli scrittori disegnatori. Capaci di portare avanti una ricerca letteraria su due livelli interconnessi. Come insegna l’esperienza di Buzzati dove nel Buzzati pittore i temi affrontati finiscono bene o male per intrecciarsi con quelli letterari, andando a formare un mondo dove reale e fantastico. Si intersecano dando vita a dimensioni dominate da attesa, mistero, destino, cronaca, umanità e soprattutto una visione malinconica dell’amore. Lo stesso potrebbe accadere per gli autori del domani, spingendoci a considerare definizioni più larghe riprendendo una tradizione antica: Kafka non era solo uno scrittore, così come Hugo e i già citati Dostoevskij, Buzzati o Tolkien. La scarsa considerazione di sé e delle sue opere da parte dell’autore boemo è fatto risaputo. Scarabocchi li definiva. Ma non si riferiva soltanto agli scritti quando invitò l’amico Max Brod a distruggere tutto, bensì anche a centinaia di disegni sparsi tra pagine di diario e quaderni. Brod fortunatamente non bruciò nulla, diffuse le opere dell’amico eppure mantenne un certo riserbo su buona parte della sua produzione grafica. Il perché non è noto, ma una fetta considerevole di quegli scarabocchi ha riposato per decenni in una cassetta di sicurezza fino alla recente pubblicazione. Una pubblicazione che ha spalancato una finestra enorme sull’immaginario dell’autore boemo. Infatti i disegni rappresentano, quasi tutti, delle silhouette nere, umane, stilizzate e curvilinee. Esserini che corrono, che danzano, che si arrampicano, che si spezzano compiendo angoli impossibili per il corpo umano: vivono della stessa inquietudine esistenziale, potremmo dire sociale e umana, dei protagonisti delle opere letterarie di Kafka. Anche quando, e accade raramente, sono presenti i volti questi sono sfumati, comici o grotteschi. Non è errato immaginare un artista visivo parente molto stretto dello scrittore. Disegnare, poi, era per Kafka importante quanto e forse persino più dello scrivere come racconta in una lettera: quei disegni mi hanno appagato più di qualsiasi altra cosa. Come se, riuscendo a rendere visivamente le silhouette, Kafka abbia anche reso esplicito ciò che nei suoi testi ha decifrato, nascosto, reso segreto. Gli scrittori del domani potrebbero celare nei prompt inviati ai software delle chiavi di lettura dei propri testi.

Courtesy Sofia Crespo

 

Un atteggiamento, potremmo definire denigrante, accomuna Kafka con Hugo. Considerato, più dai contemporanei che dai posteri, un ottimo disegnatore sebbene egli considerasse i suoi disegni un passatempo, qualcosa di molto secondario rispetto alla scrittura. Ecco, forse se Kafka aveva poca stima di sé, per così dire, sia come scrittore sia come disegnatore, Hugo invece si considerava scrittore di professione e semplice disegnatore per diletto. Questo nonostante l’entusiasmo, per citare uno, di Baudelaire – anch’egli disegnatore, tra l’altro. Vogliamo dare credito all’idea dell’Hugo disegnatore dilettante, ma la sua produzione rimane impressionante sia per quantità sia per varietà. Quasi trentamila pezzi prodotti in circa 30 anni e che spaziano dalle caricature ai paesaggi marini, dagli schizzi di viaggio – alla maniera goethiana – fino alle macchie d’inchiostro. Non mancano gli elementi fantastici, che si mischiano con scene grottesche, romantiche, talvolta evanescenti oppure inquietanti. Tutto materiale che potrebbe aver influito sulla sua scrittura oppure essere nato dalla scrittura stessa.

Può essere utile aggiungere qualche altra parola anche su Dostoevskij e sul perché si distingue da tanti altri scrittori famosi per la loro matita, come Goethe o Majakovskij. Stefano Aloe suggerisce un legame profondo tra il pensiero artistico creativo dello scrittore russo e le sue convinzioni filosofiche, morali e politiche più profonde. Il disegno non è un’opera meditata, ma subentra quasi come epifania e va ad aggiungere dettagli agli enigmi di Dostoevskij – ossia i personaggi e le ambientazioni. Quando scrive e concepisce caratteristiche fisiche e psicologiche vi associa e abbina, mediante il disegno, volti e corpi di persone realmente esistite: Raskol’nikov, protagonista di Delitto e castigo, è Pietro il Grande, dopo essere stato a lungo Napoleone. È un processo costante di passaggio dall’immagine alla parola e viceversa. In Dostoevskij vivono e convivono almeno due anime, quella dell’artista e quella dell’ingegnere che lo scrittore prova a tenere insieme. E ci riesce. Infatti le opere d’arte entrano nel suo universo narrativo in tre modi: in forma di articolo critico, come descrizioni di quadri immaginari – si pensi a L’ultimo giorno di un condannato a morte proposto ne L’Idiota – o di quadri reali – si fa riferimento al Paesaggio con Aci e Galatea di Lorrain che l’autore russo descrive più volte e con piccole variazioni sul tema nell’Adolescente, nei Demoni e ancora nel Sogno di un uomo ridicolo. Più in generale per Dostoevskij il disegno è parte integrante dell’appunto calligrafico. I taccuini sono pieni di volti, di architetture, di paesaggi. Un’abbondanza di dettagli, una minuzia e una precisione nell’esecuzione che dimostrano grande attenzione e considerazione dell’immagine nel processo creativo. Anzi si potrebbe pensare che nel disegno sia presente un’idea segreta che la parola non ha ancora decifrato e raccontato. Disegnare è un passaggio fondamentale per giungere al testo nella sua forma definitiva e compiuta.

Altri scrittori che vale la pena citare sono Kubin, Savinio e Handke per tre differenti ragioni. Kubin è stato probabilmente un ottimo e originale illustratore, meno valido e conosciuto come scrittore. Kubin, studioso d’arte nonché residente durante il periodo di studi nel quartiere più bohémienne di Monaco, conosce Kandinskij e Klee finendo per accogliere l’etichetta di espressionista. Eppure la sua è un’immaginazione cupa, a tratti morbosa e inquietante, con disegni che assumono tratti da incubi, al limite del grottesco. Non è un caso se poi si sia ritrovato a illustrare le opere di Poe ed E.T.A. Hoffmann, ma anche di Dostoevskij. La stessa distorsione del corpo umano, mista a un simbolismo piuttosto spinto, è condivisa anche da A. Savinio, pseudonimo di Andrea de Chirico fratello minore di Giorgio e compositore diplomato, pittore anch’egli, eppure noto più come scrittore e drammaturgo. Savinio fu un ottimo pittore surrealista e simbolista, capace di costruire dipinti dal forte carico culturale: non sense e metamorfosi che caratterizzano anche e soprattutto le sue più famose opere come scrittore. Riferimenti colti e stile grottesco che ritroviamo, ad esempio, nel testo de La nostra anima. Handke, infine, che ha tenuto nascosta la sua passione per il disegno fino alla notorietà del Nobel che ha portato alla pubblicazione recente di alcune sue curiose operazioni. Lo scrittore non soltanto disegna al margine dei suoi appunti, ma addirittura sulle pagine dei libri finendo per nascondere la parola, integrarla nel disegno stesso. Un unicum che si fonde e che non si può più scindere: piante, animali e frutti che si incollano sulle parole, sulle lettere greche ormai illeggibili, sugli appunti calligrafici.

Questo breve e non esaustivo excursus conferma la connessione tra due forme espressive gemelle, parola e immagini. Un software, così come tutto ciò che è tecnologico, ha il vantaggio della produttività che in questo senso si legge come velocità di produzione, bassi costi e limitata barriera tecnica all’ingresso. Non sono necessari anni di studio o una capacità innata per produrre delle immagini. Non più. Questo potrebbe spingere alla nascita di nuovi Buzzati, nuovi Hugo, nuovi Kafka – almeno nella commistione grafica, sulle capacità letterarie sospendiamo il giudizio.

E se questo processo portasse addirittura a un cambiamento della forma libro? Se iniziassero ad aumentare i libri illustrati? I romanzi con delle immagine create dagli autori, come Tolkien o Buzzati, come Carroll? Sarebbero necessarie delle capacità diverse, legate al mondo dei promt e dei comandi descrittivi, forse più facilmente acquisibili in una società dove l’abilità manuale – quindi il disegno tradizionale, ma anche quello digitale – è sempre meno diffusa, ma al contrario la capacità di ragionare e produrre nella lingua dei computer, in codice, è ormai sdoganata. L’inserimento di un supporto visivo nei testi non è una novità: gli esempi, anche in tempi più recenti, non si contano. Prendiamo Il cimitero di Praga di Umberto Eco dove non solo sono presenti delle chine settottocentesche nel testo, ma pare addirittura che alcune scene siano state scritte descrivendo le immagini. La prospettiva, immaginando ciò che questi software ancora in fase embrionale potrebbero permettere, è di ottenere testi ibridi e più interconnessi tra la parola e l’immagine. Per intenderci non qualcosa che somigli al collage di Kolář presente nel pur stupendo Topografia di S. Richterová o alle foto, scattate dall’autore, ma quasi puramente decorative di Ritorno in Italia di Caterini. Qualcosa che nasca direttamente dalla parola, che si creai mediante la parola e dalla libera scelta dell’autore in fase di creazione narrativa. Per osservare i personaggi mentre si scrive e, parallelamente, scrivere mentre si osserva allenando uno sguardo più visivo.

Avviamoci alla chiusura, anche se vi sarebbe molto altro da dire. E facciamolo attraverso l’esperienza e le parole di Buzzati. Per Buzzati scrivere e disegnare sono la stessa cosa e se quindi, nel prossimo futuro, grazie alle IA che potrebbero offrire a ogni scrivente la possibilità di immaginarsi – cioè di farsi e fare delle proprie parole immagine – e grazie alla tecnologia che riduce i costi di stampa, dovessimo trovarci di fronte a una nuova narrativa? Potremmo trovare dei nuovi miracoli di Val Morel – pubblicati in limitatissima tiratura da Garzanti nel 1971 e poi ripubblicati da Mondadori nel 2012 – oppure dei poemi a fumetti. Non più come eccezione, bizzarria, ma normalità e consuetudine. 

Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie 

Perché in effetti è vero. Ogni narratore è un cantore di storie e le storie possono sfruttare diversi mezzi per giungere: la parola, la pagina, l’immagine. Sarebbe l’occasione giusta per impostare una storia dello sguardo, per capire come sia già cambiata e come cambierà ancora la nostra percezione della realtà, sempre più mediata e compresa attraverso la vista. E in un mondo che tende al visivo, che ci bombarda di immagini da ogni angolo del pianeta in ogni momento, che vive l’egemonia dell’audiovisivo, potrebbe fornire davvero nuova linfa alla letteratura. Ai libri figli di una scrittura in direzione visiva. Romanzi illustrati proprio come Buzzati desiderò, senza successo, per il suo esordio letterario, Bàrnabo delle montagne. 

Non è una coincidenza divertente? Sono passati secoli, la tecnologia è corsa in avanti senza freni, eppure si può immaginare un ritorno alle origini. I primi libri erano dei codici miniati dove la componente grafica era di prim’ordine così come i feullieton erano spesso accompagnati da immagini. I geroglifici, prima forma di scrittura, erano parole sotto forma di immagini, ma molti dei protoalfabeti più antichi mantengono questa natura di glifi, di pittogrammi. Una coincidenza? Può darsi di sì, può darsi di no. Quel che è certo è che siamo di fronte a un processo già in corso, la prima mano di vernice è stata stesa, persino discuterne potrebbe alterare il risultato finale. Da un lato verrebbe voglia di speculare ancora, ma d’altra parte è consigliabile attendere che prima asciughi. Non toccare, quindi: vernice fresca.


Francesco Spiedo (1992) nasce a Napoli, da madre ansiosa e padre operaio, sperimentando fin da subito le conseguenze dell’iperattività. Cresciuto a San Giorgio a Cremano, studia per diventare ingegnere anche se non praticherà mai. Precedentemente animatore, cameriere, concierge, addetto alla sicurezza e ad altre attività non riconosciute dal Ministero del Lavoro, inizia a scrivere su commissione e su riviste, sotto falso nome e come ghostwriter. ha scritto “Stiamo abbastanza bene” e “non muoiono mai”, entrambi per fandango.

3 comments on “L’intelligenza artificiale nell’arte è un bene per la scrittura?

  1. L’intenzione dell’articolo è interessante. Interrogarsi sull’impatto che ha l’AI sulla creatività e l’arte è necessario. E la narrativa non è di sicuro coperta da regi decreti che ne preservano l’immunità. L’intuizione che ci siano interferenze sia sul processo che sul prodotto finale è notevole. E la trovo corretta. Mi dispiace però dover dire che il testo evidenzia pericolosa superficialità in alcuni punti.

    Affermare che una pre-trained neural-network sia un aiuto generativo per narratori con ambizioni artistiche mi suona un po’ come sperare che il Roomba sfanculi il gatto da sopra in totale autonomia. Credo che si possa fare uno sforzo in più quando si trattano certi temi.
    L’ingenuità dell’articolo in alcuni punti apre a un sottotesto pericoloso: strumenti del genere riducono lo sforzo immaginativo dell’artista ottimizzando la performance. Ma cosa è una storia se non la vibrazione di quello sforzo che vogliamo affidare a un algoritmo? Voglio tenermi stretta l’idea che i grandi artisti citati nel pezzo abbiamo tratto ispirazione ed energia creativa dal mescolare colori, linee e parole. Che la loro crescita artistica sia dipesa non dal disegno ma dal disegnare. Non dall’enunciato, ma dall’enunciazione. Questo nel caso in cui parliamo di scrittori che hanno amato disegnare e dipingere.

    Credo che l’AI ci abiliterà a un nuovo modo di concepire e fruire le storie, non ho dubbi. Ma invito a una riflessione editori della rivista e autore, un approccio così naïf e ingenuo me lo aspetto su riviste tech-oriented e positiviste come Wired, non qui.

  2. In quanto grafica porto l’acqua al mio mulino, uno scrittore produce immagini per il suo libro con IA, ok risparmia sul designer o sull’illustratore ma comunque sarebbe come ricomprare la farina da lui prodotta (visto che siamo in tema di mulini). Mi spiego, scrivere produce comunque immagini, nella testa di chi legge, quindi un conto è che l’autore decida di accompagnare la scrittura a dei suoi disegni ma crearli con l’IA non sarà mai come l’interpretazione di un creativo che interpretando le parole le tradurrà in una o più immagini. Ribadisco, io creo visual dalle parole e quando lo faccio è tutto frutto della mia creatività, del mio stile, del mio vissuto, le sento mie perché è questo quello che so fare. Ognuno secondo me dovrebbe fare quello che sa fare e farlo al meglio, mettiamo che io voglia aggiungere ad un video una canzone cantata da me, ma io faccio schifo a cantare, grazie all’IA mi registro e cambio la mia voce con quella di Witney Houston, WOW. Resta comunque un imbroglio, una mistificazione, non è reale. Di reale c’è il brano già inciso dalla vera Witney, non mi resta che accettare il mio limite e pagare i diritti d’autore. Scusate la lunghezza del mio commento ma non riesco ad essere sintetica, sono gemelli.
    Ciao Spiedo

  3. Roberta

    tutto interessante ma non è che poi invece di un libro ci ritroviamo tra le mani un comics? Un saluto Roberta Trice

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